Per capire quanto afferma Papa Giovanni Paolo II nell’enciclica Centesimus annus, cioè che “un’autentica democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto” (n. 46), “[…] nel quale è sovrana la legge e non la volontà arbitraria degli uomini” (n. 44), la prima parte dello studio El Estado de Derecho, comparso in Verbo, serie XVII, n. 168, settembre-ottobre 1978, pp. 1035-1047. La traduzione è redazionale.
Cristianità n. 201-202 (1992)
Juan Vallet De Goytisolo
1. La sfera del diritto vive immersa fra quelle dell’amore e della forza o del potere, e non si può sviluppare senza la collaborazione delle altre due (1).
Se in una società dominasse la forza, il diritto sarebbe impossibile. Ma, se mancasse il potere e non lo supplisse l’amore, il diritto non si potrebbe realizzare, perché, senza un potere sufficiente per imporre coattivamente il giusto a quanti non lo rispettano, normalmente si cade nel disordine e nell’anarchia.
Per questo certi giureconsulti hanno pensato – come ha fatto notare Paul Roubier criticandoli (2) – che la norma giuridica sia creazione dello Stato; infatti, poiché il diritto sembra assente dove la forza pubblica non lo sanziona, si pensa facilmente che esista solo grazie allo Stato e così si crede che l’idea di diritto sarebbe inconcepibile se non esistesse lo Stato. Ma questa teoria – proseguiva l’ex decano della facoltà di Giurisprudenza di Lione – non porta forse alla negazione della giustizia stessa?
Infatti, se il diritto è una pura creazione dello Stato, non ne deriverà, come dicevano i sofisti dell’antica Grecia, che è semplicemente quanto piace al più forte? Georg Wilhelm Friedrich Hegel ha chiaramente risolto il problema, sopprimendolo! Se “tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale”, allora sarà vera la concezione marxista del diritto inteso come espressione della volontà della classe dominante, che detiene le leve del potere…
Ma, anche nel positivismo più radicale, non manca chi mostra al sovrano – tiranno, massa o partito – una lucina rossa, per fargli presente, come Antigone a suo zio Creonte, che al di sopra delle sue leggi stava il diritto non scritto degli dei. Si tratta della stessa luce che, in tragici crepuscoli dell’umanità, a partire dal terzo decennio del secolo in cui viviamo, è brillata in alcune menti quando, periodicamente, i fatti hanno sorpreso con terrore le genti civili contemplanti la sinistra realtà dello Stato totalitario in una qualsiasi delle sue forme, con i suoi genocidi e i suoi campi di sterminio (3).
Allora si capisce che il diritto non è creato dal potere, e che la missione di questo sta nell’applicarlo e nel sanzionarlo. Ma ci si continua ancora a chiedere chi lo definisce e chi lo formula.
Mi chiedo di nuovo se il legiferare – nel senso ampio di formulare norme giuridiche – sia un legere, un velle, un agere oppure un facere (4).
– È frutto di una theoria? Lo è nel senso classico di questo termine, cioè di una profonda contemplazione della natura? Oppure è un prodotto della ragione autonoma, astratta, senza vita, derivante da ragionamenti dedotti sillogisticamente da alcune idee intuite dalla nostra conoscenza, isolata da tutto quanto percepiscono i nostri sensi e da quanto conosciamo grazie a esperienze precedenti?
– È soltanto una praxis?
– È nello stesso tempo teoria nel senso classico e praxis, inseparabilmente interdipendenti, che si arricchiscono reciprocamente, in un’interazione nella quale la prima opera come una luce che noi uomini, con la nostra visuale limitata, veniamo vedendo meglio nel corso del nostro cammino, nella praxis della nostra condotta?
– È una poiesis?
– Oppure, finalmente, è una praxis che persegue il fine di un’ambizione poietica?
La risposta analitica a queste domande richiederebbe un corso completo e, tuttavia, quella di esse che si accetti predeterminerà la soluzione della prima delle domande contemplate nel tema della nostra enunciazione, quello relativo allo Stato di diritto. Quindi bisogna che esaminiamo sia quelle domande che questo tema, contemplando i termini gli uni alla luce degli altri.
2. Dalla teoria “pura” del diritto deriva una concezione puramente formale dello Stato di diritto. Hans Kelsen, che l’ha formulata, definisce l’aggettivo “pura, cioè priva di ideologia”: “La dottrina pura del diritto conserva la sua tendenza antiideologica per il fatto che essa cerca d’isolare la rappresentazione del diritto positivo da ogni specie di ideologia giusnaturalistica di giustizia” …
“Essa si limita al diritto positivo ed impedisce, così, che la scienza del diritto lo faccia passare per un ordinamento superiore, ossia che attinga da questo una giustificazione del diritto; oppure, che la discrepanza tra un qualsiasi presupposto ideale di giustizia, ed il diritto positivo, venga erroneamente usata come argomento giuridico contro la sua validità. La dottrina pura del diritto è la teoria del positivismo giuridico” (5).
E così“il diritto – considerato del tutto positivisticamente – non è altro che un ordine coattivo esteriore”; “una specifica tecnica sociale” per produrre “lo stato sociale desiderato con l’unire come conseguenza, al comportamento umano, che rappresenta l’opposto contraddittorio di questo stato sociale, un atto coattivo”. Perciò – secondo Hans Kelsen – “il diritto non va concepito come scopo, ma bensì come mezzo specifico, come un atto di coazione, al quale non spetta alcun valore politico o etico” (6).
“Il diritto, come ordine, o l’ordinamento giuridico è un sistema di norme giuridiche”.
E “queste non sono valide in forza del loro contenuto”, ma “una norma vale come norma giuridica, sempre e soltanto perchè è nata in un modo particolarmente stabilito, è stata prodotta da una regola del tutto determinata, è stata posta secondo un metodo specifico” … “Per ciò, la norma fondamentale di un ordinamento giuridico, non è null’altro che la regola fondamentale per la quale sono prodotte le norme dell’ordinamento giuridico” (7); e “il più alto grado dell’ordinamento giuridico dello Stato singolo rappresenta la costituzione – costituzione nel senso materiale della parola – la cui funzione essenziale consiste nel determinare gli organi ed il processo della produzione giuridica generale” (8).
È “la dottrina della costruzione graduale dell’ordinamento giuridico”, nella quale la “forma di Stato” è soltanto “il metodo di produzione del diritto nel grado più elevato dell’ordinamento giuridico, cioè nel campo della costituzione”; ma “il problema della forma di Stato, come problema del metodo della produzione giuridica, non si presenta però soltanto pel grado della costituzione e quindi non soltanto per la legislazione, ma per tutti i gradi della produzione del diritto e particolarmente per tutti i diversi casi di istituzione di norme” (9)
Siccome “si riconosce lo Stato come un ordine del comportamento umano, e cioè come un ordinamento coattivo sociale”, e siccome “quest’ordine coattivo non può essere un ordine diverso dall’ordinamento giuridico”, “ogni atto dello Stato – secondo quanto ha esposto Hans Kelsen –, dev’essere atto giuridico”, e dunque “lo Stato, come personalità, non è altro che la personificazione e lo Stato, come potenza, non è altro che la capacità di dar vigore a quest’ordinamento giuridico”. Stando così le cose, “ogni Stato dev’essere uno Stato di diritto”.
Quindi, Stato e ordinamento giuridico vengono identificati (10). Ma questo Stato, dalla cui volontà scaturisce, di per sé, il diritto vigente – questo Stato che trasforma tutto in diritto come il re Mida trasformava in oro quanto toccava con le sue mani -, ha la propria autogiustificazione al vertice della sua piramide giuridica, al quale Hans Kelsen pone la norma fondamentale, costituzionale, che – come indicava Paul Roubier seguendo Kullischer – è soltanto il risultato de “l’ultima rivoluzione che ha trionfato” (11), ormai trasformata in un nuovo Stato, con il quale si identifica.
3. Ma, contro la concezione puramente formale di Hans Kelsen, abbiamo quelle che, in precedenza, avevano in un primo momento fatto fronte, dal punto di vista ideologico, allo Stato della monarchia assoluta, opponendo a esso quello che intendevano presentare come uno Stato di diritto.
Perché meritasse questo nome, richiedevano che lo Stato fosse soggetto a un ordinamento giuridico, dotato di determinate qualità, tanto formali quanto sostanziali. Così, fu considerato come Stato di diritto “quello in cui il diritto positivo incarna in modo soddisfacente i valori di giustizia e di sicurezza, che sono funzione del diritto, e trova, in questi valori, la forza necessaria per contenere il potere e la libertà”. E questo problema cala nella pratica, fondamentalmente, per trovare come, mediante una o diverse tecniche concrete che cercano di realizzare questo principio, il potere pubblico, l’amministrazione dello Stato e i suoi funzionari, possono essere obbligati a rispettare il diritto. Queste tecniche perseguono i seguenti obbiettivi:
– impedire vantaggi, esenzioni o privilegi, che non siano fondati in una necessità della funzione;
– prevenire abusi nell’esercizio del potere;
– eliminare arbitrarietà nelle decisioni;
– definire con certezza l’ambito della libertà e dell’esercizio dei diritti (12).
Chiaramente – come ha messo in evidenza Hans Kelsen – questa concezione cade reiteratamente nei controsensi de “la famosa teoria delle due parti e dell’autovincolamento dello Stato”, così tenacemente mantenuti ma che, a suo giudizio, implicano “evidenti contraddizioni” perché, “alla stessa stregua come la legittimazione religioso-metafisica dello Stato diventa inefficace, così viceversa questa teoria dello Stato di diritto deve diventare l’unica possibile giustificazione dello Stato” (13).
Pertanto, si tratta di un’autogiustificazione. Un’autogiustificazione in evidente contrasto con il criterio considerato valido nei tempi classici e in quelli della Cristianità medioevale, secondo cui la giustificazione della giustizia del potere e del suo esercizio lo trascendeva, nel senso che derivava estrinsecamente dalla sua conformità con il diritto divino e con quello naturale, nel suo significato classico. Invece, oggi si pretende di ricavare questa giustificazione nelle stesse norme stabilite nella Costituzione elaborata dallo Stato medesimo.
Per certo, bisogna che altri Stati, a loro volta, e, allo stesso modo, l’opinione internazionale giudichino tale autogiustificazione secondo il rispettivo concetto di Stato di diritto. Così, questo concetto viene a dipendere solamente dall’ideologia che si impone, o perché i suoi sostenitori conquistino il potere nello Stato più forte della zona d’influenza di cui si tratta, oppure perché si impadronisca dell’opinione pubblica, ove sia possibile, attraverso i mass media, o mediante la forza che sappia mobilitare le masse con metodi sovversivi, soprattutto psicosociologici. Insomma, si tratta di giustificare lo Stato di diritto secondo la concezione che, imposta dall’ideologia prevalente nel gruppo dominante o nella maggioranza del popolo, o venga infusa da questa, oppure questa la porti al potere attraverso i suoi rappresentanti, che, in genere, saranno gli stessi che sono riusciti a infiltrarla o che si sono messi ad avanzare davanti a essa, al momento opportuno e nella direzione del vento che tira.
Si potrebbe dire che l’”idea della giustizia” in ogni Stato, detto “di diritto”, viene sviluppata dallo Stato stesso, come, nella concezione hegeliana, la “Ragione” si identifica con la realtà che impone in ogni momento lo Stato fino a raggiungere la sua pienezza ideale.
Ma, per raggiungere questa qualifica secondo l’ideologia democratica, che ha teorizzato lo Stato di diritto, si pretende che in questo sviluppo siano inclusi:
– alcuni tratti formali, come quelli indicati da Hans Kelsen,
– e, inoltre, un rispetto dei diritti dell’uomo che, tuttavia, non vengono definiti sempre allo stesso modo, ma secondo l’ideologia che li fonda.
Luis Legaz y Lacambra ha messo in rilievo che il diritto naturale “laico” di Grozio, idealista e razionalista, deriva dal cosiddetto diritto naturale democratico, che si suddivide, a suo giudizio, in due grandi correnti:
– quella fondamentalmente liberale, rappresentata da Immanuel Kant, dalla quale procede l’ideologia dello Stato borghese di diritto;
– e quella più propriamente democratica, rappresentata da Jean-Jacques Rousseau.
Per la prima, il mondo va de lui même, contiene un ordine nel quale “nessuna volontà divina e umana” può, né deve, intervenire neppure minimamente; questo comporta il laissaiz faire, laissaiz passer, non soltanto nell’ordine economico, ma anche in quello politico, in uno Stato costituito da una “somma di individui”, con una “legge generale di libertà” (14).
4. Lo Stato di diritto – continua a spiegare Luis Legaz y Lacambra – è stato ideato “come una forma giuridico-politica per una realtà individualista, borghese e priva di masse”. Invece, la linea roussoiana della democrazia ha portato a questo risultato: “Lo Stato di diritto è la forma e la democrazia il suo contenuto”. Alla volontà scritta, “fissa”, della legge, succede “la volontà viva di uno che comanda (di capo o di una massa)”, dal momento che “una comunità politica non è costituita da norme, ma da atti di volontà”.
“Nella concezione dello Stato di diritto, anche il sovrano è soggetto alla legge; ma perché il sovrano è il re, cioè un uomo. Ma il popolo-massa rivendica per sé la piena sovranità e si riserva il pouvoir constituant. Allora la legge continua a comandare finché al demos non piaccia abbatterla dal suo trono”.
In un primo momento si è pensato che l’ordinamento dello Stato di diritto fosse una conquista permanente, derivante dalle idee che trionfarono nella Rivoluzione francese. Ma ci si è resi conto immediatamente che nuove rivoluzioni e nuovi sovvertimenti avrebbero potuto sconvolgerlo, e, così, si è giunti fino ad ammettere che l’ordinamento giuridico di uno Stato di diritto “può comandare [soltanto] pacificamente nei periodi intermedi fra due rivoluzioni”. Ogni rivoluzione che riesce a plasmare il suo ordinamento giuridico proclama dogmaticamente l’illiceità della rivolta contro di esso, “ma non potrà evitare che, un giorno, sorgano altre masse piene di uguale dogmatismo, ma favorevoli a un’ideologia contraria” (15).
Tuttavia, perché si modifichi il contenuto giuridico di uno Stato di diritto fondato su una concezione immanente – ossia frutto della ragione di pochi oppure della maggioranza, o dell’opinione pubblica, o della volontà sovrana di un dittatore, di un partito o della massa -, non è necessario patisca rivoluzioni, perché, senza mutare la sua forma, se ne può modificare il contenuto in evoluzione mediante quella che è stata chiamata “la révolution silencieuse”, anche sostanzialmente quanto ai diritti considerati fondamentali, dalla proprietà alla vita stessa – lo dice chiaramente, in alcuni paesi, l’autorizzazione dell’aborto e, domani, forse, quella dell’eutanasia e il controllo eugenetico della popolazione.
L’evoluzione del contenuto giuridico di uno Stato di diritto si combina con un cambiamento mentale, di conseguenze incalcolabili, prodotto a partire dal rovesciamento copernicano operato da Immanuel Kant, che, riferendo la ragion pratica ai princìpi a priori, comportò che ormai non fossero le nostre idee che si adeguavano alle cose, ma queste a quelle. Johann Gottlieb Fichte, cercando di conciliare la Critica della Ragion Pura con la Critica della Ragion Pratica di Immanuel Kant, ha accentuato l’aspetto volontaristico di questi, facendo dell’Ego la volontà che crea il mondo della sensibilità e dell’intelligibilità, come sostitutivi di una realtà che, diversamente, risulterebbe inintelligibile, ed è andato oltre la filosofia kantiana, perché afferma “non l’Io legislatore ma [l’Io] creatore, l’Egoità“ – sottolinea Michele Federico Sciacca – e “il Criticismo è ormai idealismo trascendentale”, che “fa della realtà naturale una produzione dell’attività del Soggetto, con cui identifica Dio”, che si incarna nell’Una-Eterna-Volontà-Infinita, costituita dall’accordo fra i prodotti delle volontà individuali, che assume lo Stato e che, così, crea il mondo nelle nostre menti e attraverso le nostre menti (16).
In questo modo, la volontà si pone davanti e sopra la ragione e si produce un cambiamento funzionale nella distinzione fra theoria, praxis e poiesis che, classicamente, erano orientate rispettivamente al ritrovamento della verità, alla pratica del bene e alla produzione artistica del bello e dell’utile. L’elemento poietico prende il posto precedentemente occupato dalla teoria; l’intellezione delle cose è sostituita dalla volontà di costruire un mondo nuovo e un uomo nuovo, secondo il modello progettato poieticamente, che la prassi cercherà di porre in opera e di realizzare.
Perciò, il diritto non è più un legere, cui la prassi dell’ars boni et aequi si riferiva attraverso la contemplazione teorica dell’ordine delle cose, divinarum atque humanarum rerum notitiae, ma pretende di essere un facere, che impone una praxis diretta a realizzare il modello proposto dalla poiesis di un’ideologia e di una semplice utopia.
Non è più guidato da nessuna verità previamente riconosciuta e ricavata dalla conoscenza delle cose. Il bene comune è confuso con l’efficace realizzazione funzionale di un cambiamento di strutture secondo il modello poietico che la volontà dominante intende fabbricare. E questa volontà dominante, produttrice di una trasformazione, può essere la cristallizzazione di una rivoluzione trionfante, ma può anche imporsi costituzionalmente all’interno dello Stato stesso, e anche nelle cosiddette democrazie formali, attraverso il programma del partito maggioritario oppure della formula di compromesso dei partiti che, coalizzati, dominino il Parlamento.
Luis Legaz y Lacambra, alla fine del primo terzo del secolo XX, riconosceva già che i partiti politici “hanno un programma indiscutibile, che deve essere imposto, non discusso, in Parlamento, dal momento che i deputati sono mandatari dei partiti e non della nazione“. Quando nessun partito può imporsi da solo, “lo Stato si trasforma in un semplice compromesso, in una transazione”, e così ne deriva “la natura compromissoria e transazionale del moderno Stato di partito-massa”.
Ma, inoltre, “nella misura in cui i partiti aumentano il loro potere politico e sociale, rivelano tendenze dittatoriali, al punto che le democrazie tendono a trasformarsi in dittature. I partiti amano la libera discussione in proporzione inversa alla loro forza numerica”.
Le coalizioni o maggioranze governative “si sentono rappresentanti di una istituzione per la cui difesa sono leciti tutti i mezzi”, e, in questo modo, “alla difesa dell’istituzione si assoggetta tutto”. Chiaramente, “quanti si muovono nella direzione della maggioranza non patiscono la mancanza di libertà: su di loro non viene esercitata dittatura; questa ricade sugli altri. Queste caratteristiche sono comuni a regimi politici diversi, per cui quanto metto in risalto relativamente all’essenza dittatoriale della moderna democrazia di massa – proseguiva Luis Legaz y Lacambra nel 1933 –, deve ugualmente essere fatto notare circa l’essenza democratica di molte dittature. Secondo me l’Italia fascista è una democrazia…”
“Bisogna farla finita con la credenza secondo cui la dittatura e la democrazia sono cose antitetiche…” … “La democrazia tende alla dittatura e la dittatura richiede, almeno, l’appoggio di vaste masse, quando non è esercitata direttamente da questa massa” (17).
5. Pablo Lucas Verdú ha sostenuto che lo Stato di diritto, “in qualsiasi sua specie”, “è una conquista”, perché “ognuna di esse si è istituzionalizzata, o intende istituzionalizzarsi, lottando contro strutture di potere contrarie, cioè lo Stato liberale di diritto con l’Antico Regime, lo Stato sociale di diritto con l’individualismo e l’astensionismo dello Stato liberale, lo Stato democratico di diritto che si oppone alle strutture sociopolitiche di quello precedente: sopravvivenze individualistiche, neocapitalismo, sistema istituzionalizzato di privilegio” (18).
Lo stesso autore spiega:
– “Lo Stato liberale ha conservato il dualismo Stato-società secondo la dottrina astensionistica, di modo che si è limitato a mantenere l’ordine pubblico, a limitati interventi nella società (ospedali, ospizi, beneficenza), e ad assicurare l’integrità territoriale e l’indipendenza a fronte di minacce e di attacchi esterni”
A sua volta:
– “lo Stato sociale di diritto sorge dopo scontri sociali, nell’intento di regolamentare le rivendicazioni sociali senza che sia necessario ricorrere alla rivoluzione” … “è frutto dell’accordo fra la destra liberale “civile” e il socialismo democratico “responsabile””. In esso sono presenti “sopravvivenze dello Stato liberale di diritto, per esempio il rispetto della proprietà privata, benché si aggiunga “purché compia una funzione sociale”, “purché non costituisca un monopolio ingiusto””; e “comporta una pausa nella lotta sociale per lo Stato di diritto”.
– “Nello Stato democratico di diritto sopravvivono elementi dello Stato sociale di diritto: regolamentazione e garanzie di diritti economico-sociali, giustizia costituzionale, riconoscimento dei partiti politici e dei sindacati liberi” e “sembra essere la combinazione fra una sinistra liberale socializzata e un socialismo non comunista, ma cosciente delle insufficienze del neocapitalismo, che devono essere modificate”.
– “e dopo lo Stato democratico di diritto?”, chiede Pablo Lucas Verdú: “Dopo è possibile solamente la legalità socialista, ma questo risultato deborda dal quadro della tradizione demoliberale che ancora sopravvive nello Stato democratico di diritto e non mi sembra – dice – che sia possibile un cambiamento drastico, ossia rivoluzionario, che tocchi tanto le basi strutturali socioeconomiche che l’ideologia che le ispira” (19). In conclusione, “il salto qualitativo al principio della legalità socialista” richiederebbe, a suo avviso, che i paesi delle cosiddette “democrazie socialiste” “superassero l’integrismo comunista, il burocratismo, l’alienazione politica, come hanno superato il culto della personalità” (20).
Alcuni hanno voluto, e altri vogliono, tirar fuori o mettere tutti questi contenuti nel sacco, adatto a ogni contenuto, costituito da quello che modernamente viene chiamato Stato di diritto, nel quale oggi troviamo:
– una smodata “liberazione dei costumi”; un ribollire di utopie, che si vanno sovrapponendo alle ancora recenti ideologie,
– e un crescente dominio da parte dello Stato dell’ordinamento del territorio, dell’economia, dell’insegnamento e dei mass media.
6. La “fluidità” del contenuto materiale del moderno Stato di diritto, fabbricato quotidianamente dalla volontà che domina sovrana, senza riconoscere nulla che la trascenda, e che tende a modellare tutta la società secondo il programma del partito che ha conquistato il potere, si rivela coerente con la caratteristica più specifica del panorama costituzionale moderno, imperante dalla Rivoluzione francese a oggi, che troviamo descritto dal professor Luis Sánchez Agesta nei termini seguenti: “Il potere si è attribuito, mediante la legge, la facoltà di riformare lo stesso ordine sociale. Il germe del razionalismo rivoluzionario riformatore, seminato dal pensiero politico del secolo XVIII, tende a trasformare e a configurare l’ordine sociale non attraverso una crescita o un’evoluzione di forze sociali spontanee, ma mediante una volontà che opera secondo schemi di organizzazione razionale”.
“… Il primato della volontà di potere sulla costituzione sociale, una delle caratteristiche del nostro tempo, ha spezzato il filo di una tradizione storica, forgiatrice di istituzioni, e, in un certo senso, tutto l’ordine costituzionale contemporaneo si manifesta come un progetto razionale di costituzione, non soltanto delle istituzioni che incarnano il potere politico, ma della stessa sostanza dell’ordine sociale” (21).
Quindi abbiamo un potere che, all’interno dei suoi canoni ideologici, isola il contenuto del proprio Stato di diritto, inteso a modellare “la stessa sostanza dell’ordine sociale”, senza ammettere qualcosa che lo trascenda, qualcosa che lo limiti, salvo l’autolimitazione che esso stesso stabilisce secondo la sua ideologia; e ingloba nel suo ambito tutta la vita sociale in una società che, secondo la moderna teoria del contratto sociale, è soltanto una somma di individui.
Quindi, ci troviamo di fronte allo Stato totalitario, dal momento che:
– essendosi emancipato da tutte le norme religiose e naturali e avendo convertito il diritto in una sua emanazione, ha trasformato il suo potere in assoluto;
– e si è fatto totalitario, propriamente parlando, comprendendo tutti gli ambiti della vita e assorbendo tutte le funzioni sociali, tanto più quanto più lo guidano aspirazioni di trasformare la società stessa e lo stesso uomo.
Quindi, fa la sua comparsa lo Stato totalitario come lo descrive José Pedro Galvão de Sousa quando ci dice che “comprende tutta la vita umana e sociale”, “modellando l’uomo in funzione di una concezione radicalmente materialista”, assumendo la direzione di “tutte le attività sociali”, “sostituendo completamente le iniziative private e misconoscendo l’autonomia delle società minori” (22).
Note
(1) Cfr. il mio Panorama del Derecho civil, 2a ed. corretta, Bosch, Barcellona 1973, primo tema, pp. 7-48.
(2) Cfr. Paul Roubier, Theorie Générale du Droit. Histoire des doctrines juridiques et philosophie des valeurs sociales, 2a ed. riveduta e accresciuta, Librairie du Recueil Sirey, Parigi 1951, 7, pp. 51-60.
(3) Cfr. Luis Recasens Siches, Panorama del pensamiento jurídico del siglo XX, Fondo de Cultura Económica, México 1963, vol. II, cap. 42, A, pp. 759 ss. Nello stesso senso, Emil Brunner, La justicia, trad. spagnola, Fondo de Cultura Económica, México 1943, cap. XII, p. 166; Hessel Yntema, La ciencia jurídica y el derecho natural, in Revista Jurídica Interamericana, II, Tulane 1960, p. 219; Karl Larenz, Tendencias metodológicas en la ciencia jusprivatista alemana actual, in Revista de derecho privado, maggio 1959, p. 375; e Idem, Storia del metodo nella scienza giuridica, trad. it., Giuffrè, Milano 1966, p. 137.
(4) Cfr. il mio Del legislar como “legere” al legislar como “facere”, in Verbo, serie XII, n. 115-116, maggio-giugno-luglio 1973, pp. 507-548.
(5) Hans Kelsen, La dottrina pura del diritto. Metodo e concetti fondamentali, trad. it., in Archivio Giuridico “Filippo Serafini”, quarta serie, vol. XXVI (dell’intera collezione vol. CX), fascicolo II, aprile 1933, III, 17, pp. 138-139
(6) Ibid., 14, p. 135.
(7) Ibid., V, 28 e 29, pp. 147-148.
(8) Ibid., 32, p. 151.
(9) Ibid., VII, 44, pp. 165-166.
(10) Ibid., VIII, 49, pp. 170-171.
(11) P. Roubier, op. cit., 8, d), p. 72.
(12) Luis Sánchez Agesta, Principios de Teoría Política, 5a ed., Editorial Nacional, Madrid 1972, cap. VII, 6, pp. 144 ss.
(13) H. Kelsen, op. cit., VIII, 47 e 48, pp. 169-170.
(14) Luis Legaz y Lacambra, El Estado de Derecho en la actualitad, II, in Revista General de Legislación y Jurisprudencia, 163, 2° semestre del 1963, pp. 733 ss.
(15) Ibid., IV, pp. 752 ss.
(16) Michele Federico Sciacca, Studi sulla filosofia moderna, 4a ed., Marzorati, Milano 1968, parte quarta, cap. III, pp. 370-371.
(17) L. Legaz y Lacambra, op. cit., IV, pp. 756 ss.
(18) Pablo Lucas Verdú, La lucha por el Estado de derecho, Publicaciones del Real Colegio de España, Bologna 1975, cap. VIII, 2, pp. 131 ss.
(19) Ibid., 5, pp. 142 ss.
(20) Ibid., 6, pp. 151 ss.
(21) L. Sánchez Agesta, Curso de Derecho Constitucional Comparado, 5a ed., Facultad de Derecho de la Universidad de Madrid, Madrid 1974, parte I, cap. I, 4, p. 18.
(22) José Pedro Galvão de Sousa, Iniciação à Teoria do Estado, José Beshatsky Ed., San Paolo 1967, cap. XII, pp. 106 ss