Rino Cammilleri
Scrivo questa puntata dopo che i tg hanno riferito l’ennesimo caso della ragazzina che si è buttata dalla finestra perché dileggiata sui social network. A dire il vero, e senza voler minimizzare la cosa, non è che si tratti di un “fenomeno”: gli adolescenti che si suicidano perché vittime di bullismo finora sono, a volere essere larghi, uno all’anno e forse anche meno. Il bullismo esiste, certo, ma è vecchio come la Bibbia, perciò come l’uomo. Adamo è ancora lì ed ecco che a Caino comincia a stare sull’anima Abele (che era, sì, suo fratello, ma non c’erano altri con cui prendersela).
Abele, il “perfettivo”, il Gastone della situazione, mentre a Caino toccava il ruolo di Paperino. Finì che Caino si scocciò di brutto e passò alle vie di fatto. Ma esagerò e ci scappò il morto. Ora, non mi metterò certo a percorrere l’intera storia dell’umanità per tracciare quella del bullismo nei secoli. No, mi basterà la mia, di storia. Ho sessantatré anni sull’unghia e ho esordito negli studi dalle suore, quelle vincenziane della Carità per giunta. Portavano ancora la cuffia ad ala di gabbiano ma non esitavano a sbattermi dietro alla lavagna e a tenermici per ore, incuranti del mio pianto disperato. Ero troppo vivace e a quei tempi i metodi educativi andavano sullo spiccio.
Quando suonava la campanella e veniva mio padre (che era poliziotto) a prendermi, davanti a lui le suore in questione mi riempivano di moine e carezze. Salvo poi, l’indomani, tornare ai vecchi sistemi. A volte l’intera classe era punita in questo modo: un’ora in ginocchio con le mani sulla testa come prigionieri di guerra. Tuttavia, come vedete, non sono affatto diventato anticlericale, anzi.
Tra i miei compagnetti c’era uno con le orecchie a sventola, e tutti, me compreso, eravamo meticolosamente impegnati, quotidianamente, a fargliene venire il complesso: smettemmo solo perché le elementari finirono e fummo smistati altrove. Un giorno si era procurato una scalfittura in una mano con un pennino sporco d’inchiostro (non c’erano ancora le biro): lo circondammo e cominciammo a urlargli: «Ora muori! Ora muori!». E più piangeva terrorizzato, più insistevamo. Eh, altro che età dell’innocenza: il Peccato Originale non ha prova migliore.
I tre anni di scuola media inferiore li trascorsi a fare a botte, ogni giorno all’uscita. Ero grasso e, poiché mi prendevano in giro, una volta atterrai il più insolente. Non l’avessi mai fatto. L’indomani un altro venne a sfidarmi. Atterrai pure lui e da allora cominciò l’incubo. Ogni giorno – dico ogni giorno – venivano da ogni dove per sottrarmi il “titolo”. E più incontri vincevo e peggio era. Non ne potevo più di tornare a casa pesto, sudato, ansante e stracciato. Anche perché a quel tempo l’educazione casalinga era all’insegna del «guai a te se ti sporchi» o «guai a te se ti fai male», che «prendi il resto».
La cosa cessò solo quando, stufo, mi lasciai sconfiggere e depredare di un “titolo” che non avevo cercato. Pensate che fosse finita? Macché. Qualche mese dopo, quattro dei miei compagni di classe escogitarono il seguente gioco: mentre mi avviavo a scuola o mentre ne uscivo, uno dietro l’altro e dopo breve corsetta si avvicinavano e sferravano un gran calcione sulla mia cartella scolastica, poi si portavano a distanza di sicurezza ridendo. Se accennavo a inseguirne uno, ecco che un altro mi prendeva alle spalle e giù una pedata. Essendo quattro, il gioco a loro riusciva benissimo e io non potevo farci nulla. Perché lo facevano? Ma per puro divertimento, che diamine. Una mezz’eretta così, tutti i santi giorni. Se cercavo di regolare i conti in classe, o finivo punito dall’insegnante (che non perdeva certo tempo a indagare sui motivi del contendere) o finivo soccombente perché dovevo vedermela con quattro. A casa, mio padre, vedendomi sempre cupo, mi estorse la verità. Ma mi disse: «Se intervengo io fai la parte di quello che è andato a piangere dal paparino ed è peggio. Dunque, risolvitela da solo».
Come la risolsi? Continuando a subire e aspettando che i quattro si stancassero. Cosa che avvenne, un mese dopo, quando trovarono un’altra fonte di divertimento. Naturalmente non starò qui a raccontarvi tutto il bullismo scolastico che ho subito o a cui ho partecipato, ma andrò avanti col sistema del “fior da fiore”. Al liceo nel banco davanti al mio c’era un ragazzo esile, biondino e di gentile aspetto. E noi ci rivolgevamo a lui, sempre, con vezzeggiativi tratti dal linguaggio letterario francese del Settecento prerivoluzionario, quello dei cicisbei incipriati. Dalle battute si passò agli sberleffi e dagli sberleffi agli scherzi sempre più pesanti, fino a rendergli la vita scolastica impossibile.
Oggi, a ripensarci, credo che quel poveretto si svegliasse la mattina piangendo al pensiero di dover venire a scuola. La smettemmo quando, un giorno, estrasse dallo zaino dei libri un pistolone tipo pirati dei caraibi: l’aveva preso da sopra il caminetto di casa sua e giurava che era carico. Lo puntò alla fronte del più esagitato tra noi e urlò tra le lacrime di rabbia che avrebbe sparato se non la faceva finita. Non seppi mai se l’arma fosse davvero carica (in tal caso, la cosa più probabile è che, data la vetustà del cimelio, gli sarebbe esplosa in faccia), ma davvero ci fece impressione l’ira disperata di quel povero ragazzo e da allora lo lasciammo in pace.
Voi a questo punto penserete: be’, finiti gli studi finito il bullismo. Eh, no. Dimenticate la naja. Là non si chiamava “bullismo” ma “nonnismo”. Era la stessa cosa; solo, un po’ più pesante. Già al mio primo ingresso in camerata compresi che cosa mi aspettava. Quando ero in fila per i documenti all’ufficio arruolamento, quello che mi precedeva era venuto in compagnia del genitore, uno di cui la faccia e il look rivelavano la risma: un pregiudicato napoletano uso a entrare e uscire da Poggioreale.
Il degno figlio di cotanto padre me lo ritrovai davanti quando, dopo sei ore di viaggio in treno e una di camion dell’esercito, affardellato con lo zaino d’ordinanza (la ditta che li produceva doveva essere la stessa che riforniva le forze armate ai tempi del Duce) e sfinito dalla stanchezza, mi avviai alla branda assegnatami. Il figlio del padre di cui sopra aveva acceso il televisore a volume massimo, senza alcuna intenzione di guardarlo. Mi avvicinai per abbassare il volume (avevo la testa che mi scoppiava) ma lui mi si fece sotto minaccioso e mi sbraitò sul naso: «Se lo tocchi…!». La sua mano era sulla tasca posteriore dei pantaloni e non era tipo da non averci dentro un coltello. Così, mi tenni mal di testa e abbozzai. L’indomani, in cortile, tutti in piedi, in squadra, attenti, riposo, fucile in spall’arm.
Tra noi c’era un sardo che il fucile lo teneva, sì, in spalla, ma con la canna rivolta verso basso, modello pastore zona Orgosolo specializzato in sequestri di persona. Ogni volta che il tenentino dava un ordine, quello si esibiva in un fischio da, appunto, pastore di montagna. Lacerante. Il tenentino gridava: «Chi è stato? Abbia il coraggio di uscire dai ranghi!». Naturalmente, quello se ne guardava bene. Né gli altri avevano voglia di beccarsi, se lo avessero indicato, un colpo di arburesa, resolza, resordza o arresoja (coltelli classici di Sardegna). Così, l’intera squadra finiva consegnata per colpa di quel vigliacchetto.
Sapete cos’è una “sbrandata”? Consiste in questo: si aspetta che una recluta dorma sulla sua branda di metallo, poi, in quattro o cinque, si afferra saldamente una sponda tubolare e, all’unisono, la si solleva con violenza, cosa che manda il malcapitato a sbattere, molti metri più in là, con la faccia sulla fila di armadietti (sempre di metallo), mentre intorno risuonano risate omeriche.
All’università, ai miei tempi, c’erano i cosiddetti scherzi goliardici, i più pesanti dei quali erano a carico delle cosiddette “matricole” (quelli appena iscritti al primo anno) all’ora della loro iniziazione, superate le “prove” della quale si veniva insigniti del cosiddetto “papello” (puro turpiloquio vergato in caratteri gotici). Ma mi fermo qui. La differenza tra il bullismo di ieri e quello di oggi semplicemente non c’è. C’è, questo sì, qualche novità. Una è la partecipazione a pieno titolo delle femmine: la parità conquistata dopo decenni di dure lotte ha permesso il loro ingresso in questo esaltante settore.
Prima il fidanzatine se lo contendevano a frasi, occhiate, maldicenze, bigliettini velenosi. Ora a pedate sul muso pure loro. Prima una era presa in giro, perché grassa o bruttina, a parole. Ora sono sempre parole, sì, ma diffuse in tutto il pianeta tramite web. Prima una non si faceva fotografare o filmare nuda o impegnata in amplessi le cui immagini possono diventare, in un volger di eventi, di dominio pubblico. Prima a nessun maschietto, a memoria d’uomo, veniva in mente di violentare, da solo o in branco, una compagna nel cesso scolastico o in un casolare o a una festicciola. Perché non usava? No, perché avrebbe dovuto affrontare la galera vera e una vita realmente rovinata (non esisteva l’affido in comunità di recupero). E la galera sarebbe stata ancora il danno minore. Quello maggiore, e preventivo, era la vendetta, sicura e puntuale, del padre della violentata. Il quale avrebbe avuto l’opinione pubblica dalla sua.
La differenza tra ieri e oggi sta tutta qui: oggi da un lato si espongono visivamente i giovani, fin dalla culla, a ogni sorta di libertinaggio; dall’altro, si ritiene di ovviare a un fenomeno vecchio come il mondo con corsi di “non discriminazione” nelle scuole. Che hanno lo stesso effetto delle scritte allarmanti sui pacchetti di sigarette.
Eh, si stava meglio quando si stava peggio.