Profilattici e valori familiari
di JACQUES SUAUDEAU
Ogni anno, verso la fine di dicembre, il mondo scopre di nuovo la realtà dell’epidemia dell’HIV/AIDS, nella sua crudezza, in occasione dell’annuale Conferenza Internazionale sul soggetto.
Quest’anno il resoconto dell’UNAIDS sull’evoluzione dell’epidemia è stato forse ancora più angosciante che negli anni passati, a causa, in particolare, delle gravi proiezioni che questa relazione implica per l’Africa subsahariana e per la sua sopravvivenza nel nuovo secolo.
Allorché il XX secolo giunge al suo termine, ci sono, secondo i dati forniti dall’UNAIDS, 2,6 milioni di persone che sono morte quest’anno nel mondo a causa dell’AIDS (1). È il totale più alto registrato dall’inizio dell’epidemia dell’HIV/AIDS, e questo malgrado lo sviluppo della terapia antiretrovirale che nei paesi ricchi ha rallentato la diffusione della malattia. 5,6 milioni sono i nuovi casi di infezione verificatisi quest’anno nel mondo.
Ci sono 32,4 milioni di adulti e 1,2 milioni di bambini contagiati dall’HIV/AIDS, oggi, nel mondo, dei quali il 95% vive nei paesi poveri, in via di sviluppo. Queste cifre sono particolarmente impressionanti quando si pensa che il dramma dell’AIDS si vive specificamente oggi nell’Africa subsahariana. La conferenza di Lusaka (Zambia), tenutasi dal 12 al 16 settembre 1999, ha messo in evidenza come la situazione si sia purtroppo aggravata (2).
Il 70% delle persone sieropositive nel mondo – cioè 23,3 milioni di persone – vive infatti nell’Africa subsahariana, e ciò tenendo conto che l’intera popolazione costituisce soltanto il 10% di quella del mondo. La maggior parte di essa morirà nei prossimi 10 anni. C’è una prevalenza nella popolazione adulta dell’8% (0,25% per l’Europa dell’Ovest, 0,13% per l’Africa del Nord e il Medio Oriente).
Dall’inizio dell’epidemia 34 milioni di persone nell’Africa subsahariana sono state contagiate dall’HIV. Di queste, 11,5 milioni sono già morte (l’83% delle persone morte a causa dell’AIDS dall’inizio dell’epidemia nel mondo).
Nell’anno 1998 l’AIDS è stato responsabile di 2,2 milioni di morti nell’Africa subsahariana – contro i 200.000 morti per la guerra (3). La speranza di vita alla nascita che era aumentata nell’Africa del Sud, da 44 anni di età negli anni 50 a 59 anni negli anni 90, scenderà a 45 anni tra gli anni 2005 e 2010 (4). Questi morti costituivano la parte giovane della popolazione, quella che aveva istruzione, formazione professionale, o che insegnava nelle scuole (5). Erano la speranza di questi paesi poveri. Molti di loro erano giovani madri con bambini piccoli.
Ne deriva oggi il terribile problema degli orfani dell’AIDS. Il 95% degli 11,2 milioni di orfani dell’AIDS sono africani (6). Se sette persone su dieci contagiate dall’HIV quest’anno vivono nell’Africa subsahariana, per quanto riguarda i bambini la proporzione aumenta a 9 su dieci. 570. 000 bambini di età inferiore ai 14 anni sono stati contagiati dall’HIV/AIDS quest’anno nell’Africa subsahariana, e di questi il 90% è nato da madri sieropositive.
Da questi dati emerge la realtà della tragedia: l’epidemia dell’HIV/AIDS sta devastando l’Africa, e mette in gioco il futuro stesso del continente. Recentemente, il 10 gennaio di quest’anno, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è riunito specificamente a tale proposito (7) e ha dichiarato l’epidemia di HIV/AIDS il più grave fattore di destabilizzazione economica e politica nell’Africa, «a security crisis» secondo le parole del Presidente A Gore (8): «L’epidemia è divenuta più devastante di una guerra» ha dichiarato il Dr Peter Piot, Direttore dell’UNAIDS.
Di fronte a questa situazione, la Chiesa Cattolica non è rimasta indifferente. Al contrario. Dall’inizio dell’epidemia, la Chiesa Cattolica è stata presente, con i suoi ospedali, i centri di cura, le parrocchie, il servizio dei religiosi e delle religiose, le organizzazioni locali di aiuto ai malati e l’attenzione nei loro riguardi, ed è stata, in Africa, in prima linea della lotta contro l’HIV/AIDS. Per questo, il Pontificio Consiglio per la Famiglia, in occasione di corsi su famiglia e questioni etiche con la collaborazione delle Conferenze Episcopali, ha tenuto diverse riunioni con i medici e gli infermieri impegnati nella lotta contro l’AIDS.
La maggioranza di tali riunioni sono state tenute nei paesi dell’Africa subsahariana interessati dall’epidemia. Occorre tener presente che l’impegno della Chiesa Cattolica è stato, come sempre, discreto ed efficace. Dobbiamo riconoscere, soprattutto, l’ammirevole dedizione e la singolare generosità delle tante persone che abbiamo visto visitare – in Uganda, Kenya, Tanzania, Ghana, Costa d’Avorio, Benin, Repubblica Centrafricana, Burkina-Faso – nelle loro case i malati di AIDS, portando loro assistenza umana, cura medica, e, spesso, bevande e cibo.
Per capire la realtà dell’AIDS in questi paesi si deve seguire, come abbiamo fatto, i volontari nel loro percorso di visite, mentre entrano nelle case buie, si chinano con gesti di compassione e tenerezza verso una povera donna emaciata, sulla soglia della morte, circondata da tre o quattro bambini che domani non avranno più niente, neanche la loro madre.
Dobbiamo tenere in giusta considerazione quelle religiose che hanno accolto tanti bambini orfani dell’AIDS, e hanno provveduto a dare loro un tetto, del cibo, l’istruzione e la formazione professionale, mendicando soldi a destra e a sinistra, e contando su un minimo aiuto pubblico e un bassissimo contributo delle istituzioni responsabili a livello internazionale. Dobbiamo considerare queste persone, laici e laiche, venuti spesso da altri continenti, che sono riusciti a dare speranza, dignità di vita e cibo a tante donne, contagiate dall’AIDS e respinte da tutti come «immonde».
Qui, sul posto, abbiamo visto Cristo sofferente, Cristo disprezzato, stigmatizzato, rigettato, Cristo malato e non visitato, Cristo moribondo per la fame e la sete. Abbiamo compreso l’orrenda solitudine e il terribile sentimento di chi sente di essere spacciato. Ma abbiamo anche visto Cristo che visita il malato, che consola il sofferente, che abbraccia il malato di AIDS, che si assume la responsabilità dei bambini ormai orfani.
Serbando nella nostra memoria i volti sereni e sorridenti di tante donne e uomini dell’Africa che abbiamo visto impegnati quotidianamente, senza pubblicità, in questa lotta dura contro le devastazioni dell’epidemia di HIV/AIDS, siamo stati rattristati dalle recenti dichiarazioni che alcune persone hanno rilasciato alla stampa, con tanto clamore, in occasione del loro breve viaggio in alcuni paesi africani.
In queste dichiarazioni, in sostanza, si accusa la Chiesa Cattolica di «indifferenza» di fronte alla tragedia dell’AIDS in Africa. È vero che, per una persona che per la prima volta si trova a costatare con i propri occhi la terribile realtà del problema dell’AIDS in Africa, lo «shock» è veramente forte e le reazioni d’indignazione che ne conseguono sono naturali.
Si cerca un colpevole di questa situazione, e, come accade spesso, si finisce con l’accusare proprio colui che, anche se non in modo perfetto, s’impegna concretamente per porvi rimedio, mentre gli altri si contentano di criticare. Dunque, la Chiesa Cattolica è stata accusata di mancare di senso di realtà e di essere poco responsabile di fronte all’epidemia di HIV/AIDS in Africa, a causa della sua posizione riguardo all’uso del profilattico nella prevenzione della contaminazione sessuale. Il Pontificio Consiglio per la Famiglia non ha cessato di ricordare, nei differenti incontri, il messaggio della Chiesa Cattolica circa questa questione difficile della prevenzione dell’HIV/AIDS.
Questo messaggio si basa, in poche parole, sul «valore familiare». Ciò che è in gioco qui è una visione dell’uomo e della donna, della loro dignità, del senso e significato del sesso, come presentato nel Documento di questo Consiglio dedicato alla sessualità umana (9).
Laddove c’è una vera educazione ai valori della famiglia, della fedeltà, della castità degli sposi, al retto significato della donazione reciproca – e ciò interessa anche e molto gli Stati – e laddove si riesce a superare le forme invadenti di promiscuità, l’uomo avrà una vittoria umana, anche su questo terribile fenomeno.
Nella prevenzione di qualsiasi epidemia, si possono distinguere mezzi propriamente preventivi e mezzi di «contenimento». Per la malaria, per esempio, che è una malattia paragonabile all’HIV/AIDS per la sua incidenza sulla popolazione e per il numero di morti che procura, le misure preventive sviluppate nel corso degli anni – specialmente nella lotta contro gli anofeli – sono state piuttosto misure di «contenimento», perché non hanno portato alle radici della malattia.
Teoricamente efficaci, queste misure si sono rivelate, nella pratica, poco effettive, perché è impossibile distruggere tutte le larve o prosciugare tutti i laghi o impedire alla popolazione di avere riserve d’acqua all’aperto. Un altro esempio è quello della febbre tifoide, per la quale la prevenzione è stata effettiva poiché si è riusciti a convincere la gente a fare attenzione alle sorgenti di acqua da bere. Questa è stata una vera prevenzione, perché è riuscita a correggere un atteggiamento sbagliato che era responsabile della contaminazione delle persone.
Per quanto riguarda l’AIDS, se si vuole attuare una vera prevenzione occorre convincere le persone a modificare il loro atteggiamento sessuale, che è il principale responsabile della diffusione dell’infezione. Finché non si compirà un vero sforzo in questo senso, non si realizzerà una vera prevenzione.
Il profilattico fa parte dei mezzi per «contenere» la trasmissione sessuale dell’HIV/AIDS, cioè per limitare questa trasmissione. Però tutti sono d’accordo nel riconoscere che la «perfezione» in questo campo, non c’è e non ci può essere. Senza parlare della possibilità di rottura o di spostamento dei dispositivi penici in lattice – sempre possibili durante l’atto sessuale – è chiaro che il profilattico è effettivo «quando è usato nel modo corretto» (10), e soltanto così: una condizione ottimale che lascia, di fatto, ampio spazio al non ottimale (11).
Il dettaglio dei numerosi casi di fallimento del profilattico è stato già ampiamente portato a conoscenza altrove (12). La realtà è che, per diversi motivi, si è equiparata la «prevenzione» al «buon uso del profilattico», senza che l’efficacia del profilattico sull’epidemia di HIV/AIDS sia stata statisticamente dimostrata e – in verità – sia dimostrabile, a causa dei molteplici fattori che intervengono nel corso dell’epidemia. Questa «decisione di principio», ha deliberatamente lasciato nell’ombra ciò che si sapeva già da molto tempo a proposito della relatività dell’efficacia del profilattico come contraccettivo (13).
In effetti, le statistiche in questo campo hanno evidenziato quasi quindici fallimenti su cento rapporti sessuali «protetti» dal preservativo. Si vorrebbe dunque far credere che, come per magia, il virus HIV, 450 volte più piccolo degli spermatozoi, potrebbe essere quasi sempre bloccato dal preservativo, senza tener conto che, invece, gli stessi spermatozoi sarebbero capaci di passare la barriera di lattice 15 volte su cento rapporti sessuali compiuti. L’unico studio statisticamente valido riguardo all’efficacia del profilattico nella lotta contro l’HIV/AIDS, è quello del «Groupe d’Etudes européen» (14).
Però questo studio prende in esame coppie stabili, sierodiscordanti (15), senza infezioni genitali, in base alla situazione dell’Europa dove, in ogni caso, la trasmissione sessuale del virus è più che contenuta. Altre statistiche – che devono essere interpretate con prudenza – mostrano sempre una percentuale di fallimento di almeno il 10% (dieci fallimenti su 100 profilattici usati) (16).
Infine, come hanno recentemente segnalato alcuni ricercatori dell’University College Medical School, di Londra (17), la pubblicità data al preservativo nella lotta contro l’HIV/AIDS potrebbe avere un effetto contrario a quello ricercato, nella misura in cui tale pubblicità porterebbe le persone ad atteggiamenti sessuali più rischiosi, a causa del senso di sicurezza che provano quando usano il profilattico.
Non si può dunque sperare di fermare l’epidemia di HIV/AIDS soltanto con il preservativo, allo stesso modo in cui non si può sperare di arrestare l’alluvione di un fiume servendosi di sacchi di terra quando le dighe principali sono ormai rotte. Si può soltanto sperare di contenerla. In ogni caso, la posizione della Chiesa, riguardo alla prevenzione dell’HIV/AIDS, non è a questo livello tecnico-sanitario. Si rivolge invece alla radice umana e antropologica del problema, cioè al livello del rispetto della sessualità umana, al livello dei valori che definiscono la crescita umana degli individui del genere umano.
Se l’epidemia di HIV/AIDS ha assunto tali proporzioni nei paesi dell’Africa subsahariana, è perché vi ha trovato le condizioni favorevoli per una tale diffusione: disoccupazione, miseria, condizione di profughi, guerre civili, carenza del potere politico, carenza delle strutture sanitarie, corruzione, concentrazione di popolazioni povere nelle grandi città, sviluppo di una prostituzione occasionale o permanente. Inoltre, la situazione della donna, sottomessa al volere del marito sotto pena di ripudio con gravissime conseguenze sociali, spiega in un certo modo perché sono le donne che, nei diversi paesi dell’Africa subsahariana, sono oggi le più colpite dall’infezione di HIV/AIDS (12- 13 donne contro 10 uomini) (18).
La frequenza delle malattie sessualmente trasmesse, che aprono la strada all’HIV nell’organismo femminile, (19) spiega il resto. È a questo livello originario, sociale e dei valori che la prevenzione dell’AIDS deve agire per essere efficace (20). La prevenzione più radicale dell’HIV/AIDS, quella che è efficace in assoluto e che nessuno può negare, è l’astinenza sessuale per gli adolescenti prima del matrimonio, e la castità coniugale nel matrimonio. Questo è il messaggio della Chiesa.
Limitarsi ad invitare gli adolescenti ad usare il profilattico nelle loro esperienze sessuali, significa continuare ad alimentare il vizioso circolo sessuale che sta all’origine della gravità della pandemia nell’Africa subsahariana. È una illusione equiparare l’efficacia della lotta contro l’HIV/AIDS al numero di profilattici distribuiti nell’ambito di una popolazione.
Oggi sono presentati, come casi esemplari, quelli dell’Uganda e della Tailandia (21), dove gli sforzi internazionali e nazionali a favore dell’uso del profilattico avrebbero portato frutti. Nel caso della Tailandia, lo sforzo delle autorità sanitarie si è rivolto verso le prostitute e i loro clienti. Benefici a seguito dell’uso del preservativo per queste persone ve ne sono stati specialmente per quanto riguarda la prevenzione delle malattie sessualmente trasmesse (22).
Non è chiaro, tuttavia, se la promozione del condom in questo paese ha avuto effetto sul corso generale dell’epidemia di HIV/AIDS (23). L’uso del profilattico in tale condizioni è effettivamente un «minor male», però non lo si può proporre come modello di umanizzazione e di sviluppo. Forse le autorità della Tailandia avrebbero potuto prima interrogarsi sulle ragioni che hanno determinato il particolare sviluppo della prostituzione in questo paese.
Il caso dell’Uganda ci sembra più esemplare, in considerazione del fatto che gli sforzi della lotta sono stati indirizzati verso tutti i fronti e hanno toccato effettivamente le radici stesse dell’epidemia. Nello studio presentato dall’UNAIDS (24), ci si interroga sui fattori che hanno portato al declino dell’epidemia in Uganda (25).
La diffusione dell’HIV è scesa dal 45% al 35% negli uomini esaminati nelle cliniche per malattie sessualmente trasmesse, a Kampala, e dal 21% al 5% nelle donne incinte esaminate a Jinja, tra 1990 e 1996. Se, dai questionari risulta che uomini e donne sessualmente attivi ricorrono ad un uso più frequente del profilattico, il fattore che ci sembra di importanza maggiore è il cambiamento nell’atteggiamento sessuale dei giovani, che ritardano i primi rapporti sessuali (il 56% dei ragazzi di 15-19 anni di età hanno dichiarato nel 1995 di non aver avuto rapporti sessuali, contro il 31% nel 1989, e il 46% delle ragazze hanno affermato la stessa cosa nel 1995 contro il 26% nel 1989), e rimandano l’età del matrimonio; fattore importante è anche la diminuzione dei rapporti sessuali fuori della coppia (dal 22, 6% nel 1989 si è passati al 18, 1% nel 1995 per gli uomini) (26).
Per concludere queste osservazioni a proposito della prevenzione dell’epidemia di HIV/AIDS nell’Africa Subsahariana e del ruolo che la Chiesa Cattolica ha sviluppato in questa lotta, occorre segnalare, tra molte altre, alcune esemplari iniziative realizzate per gli adolescenti e i giovani di questi paesi. Si sono formati, in Uganda, Tanzania e Nigeria, gruppi di giovani, promossi da religiose, sacerdoti e laici cattolici che si occupano di loro. Tali gruppi si dedicano alla lotta contro l’HIV/AIDS (27) e portano nomi significativi: «Youth alive», «Youth for Life».
In questi gruppi informali e indipendenti da qualsiasi organizzazione governativa o statale, ragazzi e ragazze di 16-18 anni di età si impegnano a lottare contro l’HIV/AIDS presso i loro compagni di scuola e ragazzi a loro vicini, cominciando da se stessi, con un impegno alla continenza sessuale fino al matrimonio e alla castità coniugale dopo il matrimonio.
Questi gruppi non sono proiezioni teoretiche. Esistono realmente, e da anni, con discrezione ed efficacia. Abbiamo avuto occasione di incontrarli e di parlare con queste ragazze e questi ragazzi, «normali», sorridenti, allegri, interessati alla musica e al calcio, amanti della vita ma non del profilattico. Tali gruppi non chiedono denaro: chiedono amore, pazienza, tempo, dedicazione e fede da parte di chi li segue. Non si può negare che sia questo il modello da applicare: certo non è un modello facile, ma è qualcosa di pienamente umano, basato sulla fede e la speranza, e non su un materiale in lattice, da distribuire.
Oggi, sembra che si preferisca il materiale da distribuire allo sforzo umano. Con i milioni di dollari spesi nell’industria dei profilattici, si sarebbe potuto fare molto di più per i giovani dell’Africa, per la loro educazione, per il loro sostentamento e per la prevenzione efficace contro il contagio da HIV/AIDS. La Chiesa Cattolica crede nel valore dell’uomo, nelle sue risorse. Crede che «l’uomo sorpassa infinitamente l’uomo», come diceva Blaise Pascal, perché è creato ad immagine di Dio, perché «Iddio creò l’uomo (e la donna) a sua immagine» (Gen. 1, 27).
Nel campo del HIV/AIDS abbiamo trattato l’uomo come se si trattasse di un animale sottoposto ad una visita veterinaria, dimenticandoci di tutte le energie che egli è capace di mettere in azione quando è convinto che vale la pena agire per una cosa necessaria. Allo stesso modo in cui Malthus si era sbagliato (28) nelle sue proiezioni perché non aveva pensato che l’uomo poteva moltiplicare le sue risorse grazie al suo genio, così si è compiuto un errore dedicando tutti gli sforzi al «contenimento» dell’HIV/AIDS, servendosi di una barriera meccanica, indegna della sessualità umana, indegna dell’uomo.
Si può capire il motivo che spinge le autorità sanitarie a diffondere il profilattico tra le prostitute e i loro clienti. Però la prevenzione dell’HIV/AIDS deve essere più di questo, deve spingersi ad un altro livello ed attaccare le vere radici sociali, economiche, politiche, morali, dell’epidemia. Questo non è impossibile, è necessario soltanto ampliare la visuale ed assicurare un maggiore rispetto delle persone. «Youth alive», «Youth for Life», hanno fatto questa scelta.
È una scelta per l’avvenire di un continente che potrebbe altrimenti perdere la sua speranza.
Note:
1) M. Balter, AIDS Now World’s Fourth Biggest Killer, Science, 1999, 284 (5417): 1101.
2) E. Favereau, Sida en Afrique: un bilan amer, Libération, 17/9/1999. N. Herzberg, Dans une immense solitude, l’Afrique meurt d’abord du sida, Le Monde, 14/9/2000, p. 1. N. Herzberg, L’épidémie de sida est sur le point d’anéantir les rares acquis du développement en Afrique, Le Monde, 16/9/1999, p. 4.
3) P. Benkimoun, N. Herzberg, Le sida est devenu la première cause de mortalité en Afrique, Le Monde, 14/9/1999, p. 6.
4) La speranza di vita, nello Zambia è scesa da 64 anni a 47 anni. In questo paese un ragazzo di 15 anni ha il 60% opportunità di morire di AIDS. D. Logie, AIDS cuts life expectancy in sub-Saharan Africa by a quarter, British Medical Journal, 1999, 319 (7213):806.
5) AIDS: Teachers Dying in Central Africa, Current Concerns, October 1999, n. 10/99, p. 7. A quoi sert-il de construire des écoles en Afrique si les professeurs meurent comme des mouches?, Le Monde, Economie, 14/9/1999, p. III.
6) N. Herzberg, Les orphelins de Cairo Road, Le Monde, 30/9/1999, p. 14.
7) Afsané Bassir Pour, Les Etats-Unis saisissent l’ONU du problème du SIDA en Afrique, Le Monde, 12/1/2000, p. 3.
8) Africa’s AIDS Crisis, Herald International Tribune, 13/1/2000, p. 8.
9) Sessualità umana: verità e significato. Orientamenti educativi in famiglia, Roma, 1995.
10) UNAIDS: Sexual behavioural change for HIV. Where have theories taken us?, UNAIDS Best Practice Collection/99. 27E, June 1999, WWW.unaids. org., p. 20.
11) Cates W., Hinman A. R., AIDS and absolutism – the demand for perfection in prevention, The New England Journal of Medicine, 327 (7): 492-494. Roper W. L., Peterson H. B., Curran J. W., Commentary: Condoms and HIV/STD Prevention – Clarifying the message, American Journal of Public Health, 83 (4): 501-503.
12) April K., Koster R., Fantacci G., et al., Qual è il grado effettivo di protezione dall’HIV del preservativo? Medicina e Morale, 1994, 44 (5): 903-905. Kirkman R., Condom use and failure, The Lancet, 1990, 336 (8721): 1009. Kuss R., Lestradet H., SIDA: communication, information et prévention, in «Le SIDA, propagation et prévention, Rapports de la commission VII de l’Académie Nationale de Médecine», Editions de Paris, 1996, pp. 12-55. Suaudeau J., Le «sexe sûr» et le préservatif face au défi du Sida, Medicina e Morale, 1997 (4): 689-726.
13) Grady W. R., Hayward, M. D., Yagi, J., Contraceptive failure in the United States: estimates from 1982 National Survey of Family Growth, Family Planning Perspectives, 1986, 18 (5): 200 – 209. Jejeebhoy S., Measuring contraceptive use-failure and continuation: an overview of new approaches, in «Measuring the Dynamics of Contraceptive Use», United Nations, New York, 1991, pp. 21-51, tables 3, 5. Potts D. M., Swyer G. I. M., Effectiveness and risks of birth-control methods, British Medical Bulletin, 1970, 26 (1): 26-32. Jones E. F., Forrest J. D., Contraceptive failure rates based on the 1988 NSFG [National Survey of Family Growth], Family Planning Perspectives, 1992, 24 (1): 12-19. Vessey M. P., Lawless M., Yeates D., Efficacy of different contraceptive methods, The Lancet, 1982, 1 (8276): 841- 842. World Health Organization, «Communicating Family Planning in Reproductive Health. Key Message for Communicators», WHO, 1997, p. 18.
14) De Vincenzi I., Comparison of female to male and male to female transmission of HIV in 563 stable couples, British Medical Journal, 1992, 304: 809- 813. De Vincenzi I., for the European Study Group on Heterosexual Transmission of HIV, A longitudinal Study of Human immunodeficiency virus transmission by heterosexual partners, The New England Journal of Medicine, 1994, 331 (6): 341-346.
15) In questa situazione di coppie HIV siero-discordanti, il fattore più importante che interviene nella trasmissione dell’HIV non sembra l’uso o l’assenza di uso del preservativo, ma l’atteggiamento sessuale dei partner, e l’esistenza o l’assenza di malattie sessualmente trasmesse. Nella sua statistica del 1987, N. Padian ha mostrato che il rischio di contaminazione da HIV è basilarmente funzione del numero dei partner e del numero degli atti sessuali attuati con un partner contagiato. Padian N., Marquis L., Francis D. P. et al., Male-to-Female Transmission of Human Immunodeficiency Virus, Journal of the American Medical Association, 1987, 258 (6): 788-790.
16) Gøtzsche, P. C., Hørding M., Condoms to Prevent HIV Transmission Do Not Imply Truly Safe Sex, Scandinavian Journal of Infectious Diseases, 1988, 20 (2), pp. 233-234. Hearst H., Hulley S., Preventing the heterosexual spread of AIDS. Are we giving our patient the best advice?, JAMA, 1988, 259 (16): 2428-2432. Kelly J., Using condoms to prevent transmission of HIV. Condoms have an appreciable failure rate, British Medical Journal, 1996, 312 (7044): p. 1478. Kelly, J. A., St. Lawrence, J. S., Cautions about condoms in prevention of AIDS, The Lancet, 1987, 1 (8258): 323. Vermund S. H., Editorial: Casual sex and HIV Transmission, American Journal of Public Health, 1995, 85 (11): 1488- 1489. Vessey J. T., Larson D. B., Lyons J. S. et al., Condom Safety and HIV, Sexually Transmitted Diseases, 1994, 21 (1): 59-60. Weller S., A meta-analysis of condom effectiveness in reducing sexually transmitted HIV, Social Science Medicine, 1993, 36 (12): 1365-1644.
17) Richens J., Inrie J., Copas A., Condoms and seat belts: the parallels and the lessons, The Lancet, 2000, 355 (9201): 400-403.
18) AIDS epidemic update: december 1999, UNAIDS, p. 16.
19) Cohen M. S., Sexually transmitted diseases enhance HIV transmissionno longer an hypothesis, The Lancet, 1998, 351 (suppl III): SIII5-SIII7.
20) Gli studi realizzati a Mwanza, Tanzania (Grosskurth et al. ) e, più recentemente, nel Rakai Districti dell’Uganda (Waver et al. ) hanno mostrato, in un modo impressionante, come l’infezione da HIV può essere controllata e prevenuta nelle popolazioni con l’unico trattamento delle malattie sessualmente trasmesse, senza altre misure contro l’HIV/AIDS. Grosskurth H., Mosha F., Todd J., Impact of improved treatment of sexually transmitted diseases on HIV infection in rural Tanzania, Lancet, 1995, vol. 346, pp. 530-536 Lancet, 1997, vol. 350, pp. 1805-1809. Waver M. J., Sewankambo N. K., Serwadda D., Etal., Control of sexually transmitted diseases for AIDS prevention in Uganda: a randomized community trial, Lancet, 1999, 353 (9152): 515- 535.
21) W. Phoolcharoen, HIV/AIDS Prevention in Thailand: Success and Challenges, Science, 19 June 1998, 280 (5371): 1873.
22) Hanenberg R. S., Rojanapithayakorn W., M Kunasol P., Sokal D. C., Impact of Thailand’s HIV-control programme as indicated by the decline of sexually transmitted diseases, The Lancvet, 1994, 344 (8917): 243-245.
23) Richens J., Imrie J., Copas A., Condoms and seat belts. . . , p. 401.
24) A measure of success in Uganda, UNAIDS Case Study, May 1998.
25) Asiimwe-Okiror G., Opio A. A., Musinguzi J., Madraa E., Tembo G., Carael M., Changes in sexual behavior and decline in HIV infection among young pregnant women in urban Uganda, AIDS, 1997, 11: 1757-1764.
26) Questi dati sono sostenuti da uno studio recente circa le differenze nell’atteggiamento sessuale della popolazione in quattro città africane che conoscono gradi molto diversi di prevalenza dell’HIV (dal 3. 3% a Cotonou, Benin, al 31. 9% a Ndola, Zambia). Questo studio evidenzia – tra altri aspetti – un rapporto tra la precocità nei primi rapporti sessuali delle ragazze e la prevalenza di HIV nel loro gruppo. Le adolescenti di Kisumu e Ndola hanno in particolare rapporti sessuali precoci con uomini di età più avanzata, e la prevalenza delle malattie sessuali trasmissibili tra loro è più elevata che nelle altre città studiate. Cohen J., AIDS Researchers Look to Africa for New Inbsighs 5, Science, 2000, 287 (5455), : 942-943. Differences in HIV Spread in four sub-Saharan African cities, UNAIDS, Lusaka, 14 September 1999.
27) McSweeny L., «AIDS, your responsibility», The ambassador Publications, 1991; McSweeny L., «Changing behaviour. A challenge to love», Ambassador Publications, 1995; Campbell I. D., Williams G., AIDS management: an integrated approach, ACTION AID, 1994.
28) D. B. Marron, Biology, economics, and models of humanity’s future: what we have learned since Malthus?, Perspectives in biology and Medicine, 1999, 42 (2): 195-206.