Francesco Agnoli
La manifestazione a difesa della 194 che si svolgerà sabato a Milano ha l’aria di essere una sfilata mesta, lontana dalla realtà. Alcuni partiti porteranno, è vero, da tutta Italia i loro aderenti: ma le persone, quelle di tutti i giorni, e soprattutto le donne, sono altrove.
Sono troppe, dopo ormai trent’anni, le donne che hanno abortito, perché l’aborto sia sentito come espressione di libertà, come la possibilità di eliminare solo «un grumo di cellule e di sangue chiamato embrione», secondo le conoscenze sbrigative mostrate da Mariuccia Ciotta in un editoriale del Manifesto (29 dicembre 2005).
Sono troppe anche le donne che hanno vissuto il trauma del post aborto, dopo aver creduto a un medico che minacciava possibili malformazioni, o perché qualcuno aveva spiegato che l’operazione è facile «come togliere un neo».
L’indagine conoscitiva promossa dal Parlamento sull’applicazione della 194, invece, forse ha il merito di costringere l’opinione pubblica a rifare i conti, almeno un poco, con una legge rimasta ostaggio, sino a ora, di approcci ideologici, nonostante alcune improvvise incursioni come quella, assai celebre, di Giuliano Amato nel 1988.
Amato ebbe a definire la 194 una «legge tutta fondata sull’ipocrisia« (Panorama, 15 maggio), scatenando una polemica rovente. Oggi è venuto il momento di guardare a questa ipocrisia, o almeno di capire in cosa consista la distanza che esiste tra lo spirito della legge e la sua corretta applicazione. Abbiamo riassunto le tante domande in sette punti. Eccoli.
1. La 194, all’articolo 1, afferma che l’aborto «non è mezzo per il controllo delle nascite», né per la «limitazione delle nascite». Eppure sappiamo che in molti casi non è così, dal momento che vi sono diverse coppie che abortiscono da due sino a sei volte: «Nel 2002 gli aborti ripetuti sono stati il 24,2% del totale… il 17% circa delle donne sono alla seconda esperienza, il 4,7% alla terza, l’1,5% alla quarta, lo 0,8 alla quinta o più» (Corriere della Sera, 11 settembre 2004). Forse, allora, occorre fare qualcosa, dal momento che non è facile credere che in tutti i casi di aborto ripetuto si possa parlare di «serio pericolo per la salute fisica o psichica», con un aborto ogni quattro gravidanze.
2. Bisogna ricordare che, contro lo spirito della legge, sono sempre più numerosi gli aborti selettivi, eugenetici. Secondo Franco Chiarenza, vicepresidente della Fondazione Einaudi, esisterebbe un vero e proprio «dovere» dei genitori di eliminare «un feto certamente destinato a divenire un essere umano condannato a menomazioni e sofferenze» (Il Foglio, 12 luglio 2005). I risultati di questa forma mentis sono sotto gli occhi di tutti.
Afferma il dottor Claudio Giorlandino, direttore scientifico di Artemisia, favorevole all’aborto legale, di aver visto «coppie scegliere l’aborto solo perché il feto aveva sei dita ai piedi [operabilissime, ndr]»: abortivano «ogni volta che le analisi segnalavano la presenza della malattia [recessiva grave, ndr], per portare poi a termine solo la gravidanza del bimbo sano». Si vuol far qualcosa, dunque, per evitare che succeda tutto questo e che, come in Inghilterra, si finisca con l’assurdo di eliminare un figlio per un semplice labbro leporino, spacciandolo per aborto terapeutico?
3. La legge 194 all’articolo 2 prevede che i consultori contribuiscano a «far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione di gravidanza»: eppure vi sono moltissimi casi in cui i consultori si limitano a distribuire certificati per abortire, senza svolgere compiutamente il loro ruolo, a volte anche per mancanza dei mezzi necessari. Inoltre allo stesso articolo è previsto che i consultori possano «avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità dopo la nascita»: perché allora c’è chi alza barricate contro la valorizzazione di queste risorse?
4. La legge 194, si diceva, eviterà il ricorso all’aborto clandestino. Oggi invece l’aborto clandestino rimane vivo e vegeto, perché è la mentalità abortista a essersi diffusa: di conseguenza, come racconta Chiara Valentini sull’Espresso (10 novembre 2005), questo fenomeno, benché volutamente ignorato, non cessa di esistere. È anzi in continua crescita, sia tra le immigrate che tra le nostre giovanissime.
A ciò si aggiungano i casi di cui si è occupata la cronaca in cui, violando la legge, talune cliniche compiacenti fanno passare per aborto spontaneo un aborto chirurgico provocato, o violano i limiti di tempo previsti dalla 194. Né mancherebbero gli episodi, infine, in cui operatori ospedalieri o dei consultori avrebbero consigliato donne che avevano oltrepassato i termini legali per abortire di recarsi in cliniche in cui gli aborti venivano fatti, senza scrupolo alcuno, sino al settimo-ottavo mese, contra legem.
5. L’articolo 7 della 194 prevede che quando il feto è potenzialmente vitale fuori dell’utero l’aborto possa essere praticato solo e soltanto «quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna»: poiché oggi, a differenza del passato, vi sono feti che sopravvivono anche a 23 settimane, occorre di norma evitare l’aborto oltre questa data, nel rispetto della legge stessa e per impedire che si verifichino casi di bambini che nascono dopo un tentato aborto, con tutte le conseguenze che ne derivano.
Il problema è stato sollevato in più occasioni, senza alcun risultato, ad esempio dal dottor Danilo Morini, del Consiglio Superiore di Sanità: «Pur non volendo dare giudizi sulla legge e sulla opportunità o meno di modificarla, si ha la fondata sensazione che l’ultimo comma dell’articolo 7 non abbia avuto in questi anni la dovuta attenzione applicativa».
6. Sempre rimanendo all’interno della 194, occorrerebbe rendere più chiaro il concetto di informazione alla coppia e alla donna: viene realmente spiegato cosa sia l’aborto, quale sia la realtà del feto, quali gli effetti dell’operazione sul fisico e sulla psiche di chi vi è coinvolto?
7. Infine, l’uso della pillola abortiva Ru 486 appare in aperto contrasto con tutto lo spirito della legge 194, nata – si disse – con lo scopo di socializzare l’aborto, di evitare che rimanesse un evento privato, solitario, clandestino. Inoltre il ricorso all’aborto farmacologico urta spesso con la disposizione dell’articolo 5 che prevede sette giorni di ripensamento: infatti la Ru 486 può essere utilizzata entro 49 giorni, ma talora la donna, a quella data, non è neppure consapevole di essere incinta.
Come potrà, allora, incalzata dalla fretta, avere il tempo per riflettere bene sulla sua decisione? Infine, la legalizzazione della pillola abortiva contrasterebbe con l’articolo 15 della 194, che prevede l’adozione delle tecniche «più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna, e meno rischiose per l’interruzione di gravidanza»: la Ru 486, come ampiamente dimostrato su queste pagine nelle ultime settimane, è assai più pericolosa e dolorosa, sia per il fisico che per la psiche della donna, dell’aborto chirurgico.