A uccidere il P.I.L. non sono i dazi la Von der Leyen

La Verità 7 Aprile 2025

A uccidere il P.I.L. non sono i dazi ma le 13.000 norme della Von der Leyen

Tutti urlano alle tariffe ma gli industriali puntano il dito sulle migliaia di vincoli creati dalla Commissione europea. Orsini, presidente di Confindustria: «L’U.E. ha scelto l’ideologia non i posti di lavoro». Per competere partire da qui e dal non al green deal. Prosegue: «Dobbiamo dialogare con gli Usa. Poi bisogna fermare la burocrazia europea: le regole sulla privacy da sole ci costano l’8% dei ricavi».

di Carlo Cambi

In tempi di citazioni evangeliche che si sono sprecate sia dagli ultras bellici sia dai pacifisti per la crisi ucraina, viene buona, osservando il congresso della Lega Nord a Firenze, la parabola della pagliuzza e la trave: perché guardate le inezie dei distinguo di Matteo Salvini rispetto al governo e non vedete il palo di grida manzoniane a cui l’Europa impicca l’economia?

Nel corpaccione imbolsito dall’arroganza burocratica del Polifemo di Bruxelles, la trave l’ha piantata il presidente di Confindustria Emanuele Orsini. Intervistato sul palco leghista ha fatto un discorso della montagna sì ma di carte che soffocano le imprese. Ha detto il capo degli industriali: «Abbiamo costruito a livello europeo 13.000 norme in cinque anni. Nello stesso periodo gli Stati Uniti ne hanno fatte 3.500. La Gdpr, la legge per la privacy, è importante ma», ha denunciato Orsini, «costa l’8% dei ricavi. Siamo in un mercato dove dobbiamo competere geo-politicarnente con gli Stati Uniti, con i cinesi, con i Paesi emergenti. Vogliamo la responsabilità sociale, ma se lottiamo con quelli che non l’hanno o noi siamo in grado di cambiare loro, oppure siamo finiti». E i dati vengono proprio dall’Ue, ovvero dal rapporto Draghi per la competitività. Faro anche sul problema del costo dell’energia, tanto che Orsini ha detto che il nucleare «va fatto subito e ci vuole coraggio» perché quello delle bollette è «il tema dei terni». Poi ha chiesto un piano strategico per le imprese, «potenziando da subito l’aiuto».

Più chiaro di così non si può. Meglio lo dice Giorgia Meloni che dal congresso leghista insiste: «Torneremo a chiedere in Europa di rivedere le normative ideologiche del green deal e l’eccesso di regolamentazione in ogni settore, che oggi costituiscono dei veri e propri dazi interni». Il centro studi di Confindustria ha peraltro stimato che l’incidenza dei dazi comporta un ribasso di crescita del Pil al -0,6% quest’anno e all’1% il prossimo. Un’ulteriore guerra dei dazi innescata da una contromossa europea però aggraverebbe il quadro di un ulteriore -0,4%. Viale dell’Astronomia avverte: il primo fattore di debolezza restano la crisi tedesca e la bassa quota di investimenti.

Ma la baronessa Ursula von del Leyen non si dà per intesa. Ieri, in una telefonata col premier britannico Keir Starmer, ha confermato: «L’U.E. è pronta a difendere i propri interessi attraverso contromisure proporzionate, se necessario anche se siamo pronti a trattare».

Se ne parlerà con tutta probabilità mercoledì al Consiglio europeo che si occupa formalmente di Ucraina. Insomma lei non molla l’idea di misure per colpire prima di tutto le Big tech americane. Che come minaccia è assai spuntata. Quattro – come ha scritto Claudio Antonelli ieri su La Verità – sono le misure possibili, una sola forse senza ricadute sui consumatori: chiedere alle big-techi di pagare un affitto sull’utilizzo delle strutture. Tutto il resto sarebbe affetto da eterogenesi dei fini: per colpire Trump pagano gli europei!

E infatti da quel che si sa a Washington i telefoni bollono. Il segretario all’agricoltura Brooke Rollins alla Cnn ha detto: «Ci sono già 50 Paesi che ci chiedono di trattare». Lo conferma anche il segretario al Tesoro Scott Bessent che era stato – si era detto in Europa – molto critico sula strategia tariffaria di Trump. Non si sa quali sono i Paesi che hanno avviato i negoziati, ma tutti confermano che ci sono.

Tutto ciò mette a nudo le fragilità dell’Ue. È sicura Ursula von der Leyen – continua a dirsi profondamente turbata – che l’Irlanda che pratica il 12,5% di tasse alle Big tech e che così ha raddrizzato i suoi conti diventando di fatto una piattaforma fiscale offshore, sarebbe con­tenta? E l’Olanda che si accontenta del 24% di tasse tace? Giusto per avere un’idea sulle società di capitali, la tassazione in Italia oltrepassa il 53%. Ecco un tema che Orsini ha appena sfiorato: la distorsione di mercato che c’è in Europa in forza delle diverse aliquote fiscali

Le cronache si sforzano di testimoniare con alti lamenti i dazi trurnpiani. Cosi – per dirne una – dal Vinitaly aperto ieri giunge l’eco di un piagnisteo dei vignaioli (in effetti gli Usa sono il nostro primo mercato estero). Non è del tutto cosi e comunque l’Irlanda, senza che nessuno protesti, mette un’accisa di 3,9 euro a bottiglia, la Germania lo fa sugli spumanti e la stessa Von der Leyen vuole una tassa anti-alcol per finanziare il Rearm. I dati sui dazi interni all’Ue sono incontrovertibili. Mario Draghi – assai rispettato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che esige una risposta ferma a Trump, forse per contrapporgli in maniera felpata Giorgia Maolini, che invece chiede una trattativa ragionata – nel suo stra-famoso rapporto scrive: «Finora l’Europa si è concentrata su obiettivi singoli o nazionali senza calcolarne il costo collettivo. Il denaro pubblico è servito a mantenere la sostenibilità del debito e la diffusione della regolamentazione è stata progettata per proteggere i cittadini dai nuovi rischi tecnologici. Agire così non ha portato né benessere agli europei, né finanze pubbliche sane, né autonomia nazionale».

La rampogna di Draghi parte da uno studio del Fmi in cui Kristalina Georgkva evidenzia «il ruolo fondamentale dell’eliminazione delle barriere intraeuropee per migliorare il dinamismo delle imprese e rilanciare la produttività: gli ostacoli interni all’Ue equivalgono a dazi del 44% sui beni e del 110% sui servizi».

E se avercela con Trump servisse all’Ue per celare le proprie colpe? ….