La Stampa 2 Aprile 2017
di Maurizio Molinari
A oltre due mesi dall’insediamento di Donald Trump nello Studio Ovale, Washington si presenta come una città divisa, specchio dei bruschi cambiamenti in corso in America dall’Election Day. Nei dicasteri più importanti la maggioranza degli incarichi di medio ed alto livello è vacante perché il Presidente dopo aver nominato i ministri esita a completare gli organici, diffondendo una sensazione di incertezza e rappresentando un’idea di governo basata sul legame diretto con il popolo che lo ha eletto, restia agli intermediari.
Il risultato è uno scontro quotidiano, lampante, fra il Presidente e ciò che resta dell’establishment della capitale: con funzionari spaesati da una logica che non comprendono, giudici che contestano la legittimità dei provvedimenti adottati – a cominciare dai migranti – e i media protagonisti di uno scontro aspro che evoca il precedente di Richard Nixon, facendo lievitare copie vendute e ricavi.
Il tutto nel segno di un immanente «Russiagate» che vede l’Fbi indagare sullo staff del Presidente per verificare i sospetti di contatti illeciti con il Cremlino che, se confermati, porterebbero la democrazia americana a navigare in acque inesplorate. Senza contare che il Dipartimento di Stato è guidato da Rex Tillerson circondato da «vice ad interim» in quanto le nomine anche qui tardano e feluche di lungo corso come Victoria Nuland e Dan Freed hanno optato per il pensionamento anticipato.
Ecco perché a prima vista Trump appare come un Presidente isolato, se non assediato, in una Casa Bianca che ha subito il primo smacco da parte del suo stesso partito – i repubblicani – sul terreno che più avrebbe dovuto unirli, l’azzeramento della riforma sanitaria di Barack H. Obama.
Ma visto dall’interno del 1600 di Pennsylvania Avenue lo scenario è assai diverso. I più stretti collaboratori di Trump addebitano la sconfitta sulla Sanità alle pressioni di Paul Ryan, presidente della Camera dei Rappresentanti, e di Reince Priebus, capo di gabinetto, per voler andare al voto in fretta con un testo troppo moderato che avrebbe in parte salvato l’Obamacare. Trump la vive dunque come una sconfitta frutto del cedimento all’establishment repubblicano, che lo ha convinto a smussare lo slancio anti-sistema, condannandolo all’umiliazione per mano dell’ala destra del partito. Da qui la volontà, d’ora in avanti, di essere più innovatori, rivoluzionari, a cominciare dai prossimi appuntamenti con il Congresso: taglio delle tasse, piano nazionale per le infrastrutture e soprattutto giudici alla Corte Suprema.
Lo scontro fra la volontà di Trump di imprimere cambiamenti radicali e la difficoltà nell’ottenerli è quotidiano. Si respira al Dipartimento di Stato come al dicastero del Commercio. Sul terreno della politica estera il Presidente ha esitato a confermare la presenza al summit della Nato, suggerendo l’invio di Pence al suo posto e generando onde di incertezza sui due lati dell’Atlantico fino a quando il consigliere per la sicurezza nazionale, H.R. McMaster, lo ha convinto dell’utilità di sedersi con gli alleati per scongiurare sconquassi e spingerli ad impegnarsi di più nelle spese militari «tornando all’equilibrio 50-50 della Guerra Fredda mentre ora noi ne sosteniamo il 70 per cento e loro appena il 30».
Sono tali contrasti a spiegare perché Trump ricorre a Twitter per comunicare con il movimento che lo ha eletto e con il quale vuole restare in contatto scavalcando un sistema dell’informazione che considera visceralmente ostile.
Ma i veterani di Washington, conservatori e liberal, invitano alla prudenza quando i visitatori stranieri – europei in testa – si affrettano a dedurre che tutto ciò potrebbe portare ad una fine anticipata dell’amministrazione Trump, a causa di un eventuale impeachment o addirittura della decisione di dimettersi d’istinto, lasciando lo Studio Ovale al vice Pence. «Non bisogna sopravvalutare Trump ma neanche sottovalutare il governo che ha messo assieme» spiega Joseph Nye, politologo dell’ateneo di Harvard, osservando che «sebbene Trump, eletto con una minoranza del voto popolare, abbia scelto di non governare al centro come in queste situazioni in genere avviene» la realtà è «che si è circondato di ministri di indubbio valore come Mattis al Pentagono, Kelly alla Sicurezza Interna, Mnuchin al Tesoro, Ross al Commercio e Tillerson al Dipartimento di Stato» assicurando «guida ferma all’amministrazione» e «continuità con il passato».
Insomma, Trump è un leader di rottura nel rapporto con gli elettori ma assai pragmatico nella composizione del governo. E Ben Bernanke, già presidente della Federal Reserve scelto da George W. Bush, aggiunge: «E’ bene tener presente che Trump è stato eletto a causa del disagio della classe media per l’impatto della globalizzazione» testimoniato da eventi drammatici come «il picco di mortalità fra i bianchi senza titolo di studio» negli stessi Stati industriali e rurali dove ha battuto Hillary Clinton.
A ben vedere il rispetto per la genesi della rivolta della tribù bianca che ha eletto Trump si respira un po’ ovunque a Washington: fra i repubblicani che lavorano ad un taglio delle tasse «non solo a favore dei ricchi come fecero Reagan e George W. Bush», fra i conservatori come Robert Kagan che spiegano l’approccio di Trump alla politica estera con il fatto che «la Russia non è avversaria del ceto medio mentre la Cina sì» a causa della competizione commerciale, ed anche fra i democratici del dopo-Hillary impegnati alla ricerca di un nuovo leader capace di guidarli in fretta a riconquistare gli elettori bianchi perduti.
A fotografare tale urgenza è Stan Greenberg, il pollster preferito dei Clinton, autore di una ricerca dai risultati spietati: la maggioranza degli elettori di Obama del 2008 e 2012 che nel novembre 2016 hanno scelto Trump «non sono affatto pentiti» a conferma che la rabbia del ceto medio impoverito è ancora lì fuori, nello sterminato entroterra dove i liberal hanno perduto il polso della nazione. Un veterano della campagna di Obama lo spiega così: «Siamo andati troppo avanti, c’è un’America per la quale i bagni nelle scuole per i bambini transgender sono davvero troppo».
Ecco perché il senatore dell’Arkansas Tom Cotton, classe 1977, è una delle voci più ascoltate. Non è un grande oratore, sui contenuti bada al sodo e non ama gli aggettivi. E’ stato fra i pochi a sostenere Trump sin dalle primarie, spiega il pensiero del Presidente in maniera cristallina e ne interpreta fedelmente lo spirito di rottura: il suo credo è «la classe media», difende il muro con il Messico «necessario contro i clandestini», parla del protezionismo come «arma di riserva per farci rispettare nel commercio globale» e vede all’orizzonte «possibili accordi di libero scambio fra i Cinque Occhi».
Il riferimento è ai «Five Eyes» – Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti – che già costituiscono l’anglosfera dell’intelligence e potrebbero trasformarsi nell’ossatura di un nuovo mercato planetario, sfruttando a proprio favore l’impatto della Brexit. A raffigurare i nuovi equilibri di potere nella Washington di Trump è il rispetto con cui John Negroponte, già direttore nazionale dell’intelligence con George W. ed ex protagonista della Guerra Fredda, si rivolge in pubblico proprio a Cotton con cui non ha nulla in comune.
Una veterana del «Grand Old Party» al Senato lo spiega così: «Cotton ha ambizioni presidenziali» e rappresenta il nuovo potere. Sono i fedelissimi di Trump ad avere il vento a favore. Altri due volti di questo firmamento politico ancora tutto da costruire sono il segretario al Tesoro Steven Mnuchin, ex banchiere di Goldman Sachs, che ha la missione di portare la crescita del pil ad almeno il 3 per cento entro il 2020, e Nikki Haley, l’ambasciatrice Onu di origine indiana che viene dalla South Carolina ed incarna un modello di donna in politica opposto a Hillary: sfoggia femminilità, affronta con grinta i nemici dell’America, difende senza esitazione gli alleati – a cominciare da Israele – e crede che il suo ruolo al Palazzo di Vetro sia «parlare con chiarezza» e «never back down», mai indietreggiare.
Sul Medio Oriente d’altra parte Trump sta accelerando: l’aumento della pressione militare contro Isis e i moniti a Teheran coincidono con l’arrivo nello Studio Ovale del presidente egiziano Al-Sisi dopo il principe saudita Mohammed bin Salman e prima del re giordano Abdullah segnando una netta inversione di rotta a favore del fronte sunnita a cui Obama aveva voltato le spalle. Ecco perché Washington si riflette nella descrizione di Paula Dobriansky, ex vice segretario di Stato con George W. Bush scartata da Donald, quando riassume: «Viviamo una stagione di grandi cambiamenti politici» perché dalle urne è uscita vincitrice una coalizione «che nessuno pensava esistesse». Con cui tutti, in un modo o nell’altro, dovranno fare i conti.