Agire sugli stock anziché sui flussi.
di Oscar Giannino
Partiamo dai numeri, dunque. Segnatevi per cominciare questo indirizzo internet, dal portale del Tesoro: www.dt.tesoro.it/it/cartolarizzazioni/patrimonio_pa/ , dove troverete gli estremi normativi e i criteri in base ai quali dal 2009 il ministero dell’Economia ha attivato una procedura di consultazione estesa a oltre 9 mila – novemila! – soggetti diversi della pubblica amministrazione centrale e periferica per compiere ogni anno una rilevazione sempre più accurata delle diverse componenti dell’attivo: crediti, immobili e terreni, concessioni, partecipazioni.
È una ricognizione che affonda le sue radici e metodologie in proposte e criteri avanzati molti anni orsono da economisti come Gianfranco Imperatori e giuristi come Stefano Rodotà e Franco Bassanini (gli interessati possono utilmente trovare i ragguagli più esaustivi a mia conoscenza nella corposa opera La finanza locale nello scenario globale, edizioni Gianfranco Imperatori onlus, 2010).
A questo indirizzo troverete invece l’ultimo rendiconto dei beni immobili censiti al 31 marzo 2011, poiché questa è la data in cui ogni anno gli oltre novemila diversi soggetti pubblici dovrebbero inoltrare al Tesoro la ricognizione completa dei loro asset. Naturalmente non avviene.
Lo Stato è inflessibile quando siamo noi cittadini-contribuenti a non ottemperare la legge, ma chiude gli occhi quando sono pezzi di Stato a sottrarsi al rispetto della legge. Troverete dunque che a marzo 2011 era solo il 53 per cento delle amministrazioni pubbliche ad aver risposto. Il che comunque ha consentito di censire oltre 530 mila unità immobiliari, per una superficie complessiva di oltre 222 milioni di metri quadrati, e quasi 760 mila terreni, pari a oltre 13 miliardi di metri quadrati.
Nel documento si esprime la metodologia attraverso la quale, seguendo i criteri dell’Orni (l’Osservatorio del mercato immobiliare dell’Agenzia del territorio), e dell’Agea (l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura), si giunga a una stima approssimativa tra i 239 e i 319 miliardi di euro per gli immobili, e fino a 49 miliardi per i terreni. Ripeto. Si tratta di una primissima valutazione relativa a poco più del 50 per cento dell’intera pubblica amministrazione.
Un tesoro di cui nessuno si cura
Per una primissima valutazione complessiva del totale dell’attivo, invece, andate a quest’altro indirizzo: per scaricare un pdf denominato “Patrimonio Pubblico”, che contiene le 19 pagine di slide presentate da Edoardo Reviglio al seminario sullo stesso tema tenutosi al Tesoro il 30 settembre scorso.
La stima è ancora del tutto conservativa e per difetto – come spiega correttamente l’autore, che su questo lavora indefessamente da anni, ora presso la Cassa depositi e prestiti (Cdp) -, comunque il totale dell’attivo è stimato in 1.815 miliardi, dunque poco meno del debito pubblico italiano, che ha superato quota 1.900.
Di quei 1.815 miliardi, i cui valori oggi sono sicuramente diversi, 276 erano cassa disponibile, 240 crediti e anticipazioni attive, 78 intangibles, in buona sostanza le concessioni, 132 partecipazioni, 420 immobili (la stima resta molto modesta, se sei mesi prima arrivavamo a 320 per metà della pubblica amministrazione), 386 infrastrutture, 176 risorse naturali, 37 beni culturali, 70 beni mobili.
Ora i problemi, poi le soluzioni. Il primo problema abbastanza scandaloso è l’arretratezza con cui lo Stato risponde – a distanza di anni dalla legge – all’obbligo di sapere che cosa ha in pancia. Oltretutto, per uno Stato il cui rischio d’insolvenza è salito drasticamente negli ultimi 7 mesi, avere una cognizioni tanto modesta di ciò che garantisci il proprio debito è assolutamente intollerabile.
Per non parlare della cura inesistente, visto che tale patrimonio costa più di quanto rende (i così per l’intero patrimonio immobiliare, a cominciare dal milione e mezzo di unità immobiliari in carico agli ex lacp locali). Il seconde problema è la misura del valore “vero”, cioè di mercato, di questo patrimonio. Ma la soluzione a questo c’è; lo deve calcolare chi è del mestiere: non lo Stato.
Che cosa farne? Dice il Corriere della Sera che nel governo sarebbe maturata l’idea di proporre uno scambio: trasferire dal Tesoro alla Cdp quote di controllo per una cinquantina di miliardi di euro, abbassando così di 3 punti di Pii il debito pubblico, poiché gli esborsi di Cdp non configurano in Eurostat debito pubblico, e col ricavato il Tesoro pagherebbe buona parte dei 70 miliardi di euro che lo Stato deve a imprese fornitrici, che stanno morendo strangolate visto che lo Stato non ti paga a propria discrezione, ma le tasse e i contributi li pretende con puntualità assoluta.
Sono contrarissimo. Primo, perché in Eurostat ci sparerebbero addosso. La Cdp grazie all’apertura del suo capitale al 30 per cento in mano alle fondazioni bancarie e con peso rilevante nella sua governance, figura per questo come soggetto di mercato nel quadro contabile europeo. Ma se si usa raccolta postale – una passività, cioè debito pubblico – per una partita di giro al Tesoro, allora l’operazione non è affatto di mercato.
È oltretutto un regalo improprio alle fondazioni bancarie: penso all’ipotesi che il Tesoro giri a Cdp non solo quote di partecipate, ma anche concessioni, magari a cominciare da quelle televisive. Infine, è un modo travestito – ma neanche troppo – per dire che del recinto pubblico in realtà non si cede un bel nulla. Né ora né mai. Sai che affare.
Il dovere dell’efficienza
La mia proposta è molto diversa. L’intero mattone di Stato – per cominciare cioè almeno 400 miliardi, che sono circa 27 punti di Pii – va girato in dotazione patrimoniale a un fondo immobiliare chiuso costituito come veicolo di mercato, gestito tramite gara da privati, che lo valuteranno e lo cederanno nei tempi più adeguati al miglior realizzo.
Un simile fondo, anche se usa una leva finanziaria bassa, cioè non superiore a 3, con tutti gli abbattimenti e le cautele del caso potrebbe emettere obbligazioni pari a una volta e mezzo almeno la stima iniziale del patrimonio, e concedere ai detentori di titoli pubblici italiani uno swap volontario col quale si inizierebbe da subito ad abbattere debito, con abbattimento progressivo per la quota totale di patrimonio negli anni necessari alla sua alienazione totale.
Ecco in che cosa consiste la strada alternativa per la quale abbattiamo il debito con le cessioni pubbliche, e nel frattempo tagliamo però anche la spesa pubblica per un equilibrio di entrate a ben più basso livello di quello immaginato con la manovra triennale del governo Monti. Di mezzo, tra le due ipotesi, c’è la sopravvivenza economica dell’impresa e del lavoro italiani. Oltre a uno Stato molto più magro, e per questo costretto a diventare più efficiente.