L’Africa vuole le colture geneticamente modificate. Non lo dicono le multinazionali, ma gli scienziati e gli agricoltori del Vecchissimo continente
di Antonio Gaspari
Eppure la gran mole di lavoro che è stata prodotta in convegni, studi, dibattiti (si ricordi, tra l’altro che nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa il decimo capitolo tratta “L’uso delle biotecnologie”) è stato ignorato dai mass media. E’ bastato però che l’Instrumentum laboris per la seconda Assemblea speciale continentale del Sinodo dei vescovi accennasse una critica agli ogm, per far dire a Mario Capanna e ad alcune associazioni verdi che la Santa Sede e Benedetto XVI condannano le biotecnologie vegetali.
Che ne pensano i diretti interessati, gli africani? Florence Wambugu è una delle più qualificate scienziate del Vecchissimo continente in materia di biotecnologie vegetali. Sesta di nove figli, proviene da una famiglia povera. Da bambina ha lavorato nei campi per la raccolta delle patate con la sua famiglia e ha personalmente sperimentato la fame.
Nonostante gli ostacoli culturali che non favoriscono la scolarizzazione femminile, la Wambugu è stata la prima donna in Kenya a frequentare l’Università di Nairobi, dove ha conseguito una prima laurea in botanica e zoologia, poi la specializzazione in virologia e patologia delle piante. Dopo un master in patologia vegetale nella North Dakota State University, ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’università di Bath (Gran Bretagna). Ha continuato i suoi studi specializzandosi nelle biotecnologie vegetali ed è nota per il suo impegno sociale nella ricerca e nell’utilizzo delle medesime per incrementare la produzione alimentare in Africa.
Madre di tre figli, ha fatto parte di innumerevoli centri di ricerca pubblici e privati, ed è anche membro del comitato scientifico del Grand Challenges in Global Health, iniziativa della Bill and Melinda Gates Foundation.
Professoressa Wambugu, nell’Instrumentum laboris per la seconda Assemblea speciale continentale del Sinodo dei vescovi è scritto che le biotecnologie vegetali «rischiano di rovinare i piccoli coltivatori e di sopprimere le loro semine tradizionali rendendoli dipendenti dalle società produttrici di Ogm». Cosa ne pensa?
L’esperienza degli agricoltori africani che, fino ad ora, non hanno utilizzato sementi Ogm, dimostra che i piccoli coltivatori sono i più attivi nella richiesta e utilizzazione di nuove tecnologie agricole. Dalla nostra stretta collaborazione con gli agricoltori è emerso che essi chiedono la libertà di poter scegliere il meglio tra le offerte tradizionali e le nuove biotecnologie. Sementi di varietà ibride di mais sono state distribuite in Africa già negli anni Sessanta. Da questa esperienza i piccoli coltivatori hanno realizzato che l’alto rendimento delle sementi ibride compensa le spese dell’acquisto e permette di moltiplicare la produzione.
È interessante notare che, nonostante gli eccellenti risultati delle sementi ibride, gli agricoltori hanno mantenuto anche una parte delle sementi tradizionali. Ci sono tante conoscenze indigene in Africa circa la variabilità delle piante tradizionali che potrebbero essere molto utili per incrementare la ricerca e lo sviluppo di biotecnologie vegetali. Simili alle sementi ibride, le colture geneticamente modificate offrono un rapporto reciprocamente vantaggioso per le imprese e per gli agricoltori. Osservazioni e commenti da parte dei piccoli coltivatori del Sudafrica rivelano che sono entusiasti per la tecnologia Ogm, anche perché la produttività è maggiore di quella con i semi ibridi e si utilizzano meno fitofarmaci.
Dunque gli Ogm possono aiutare l’Africa?
Nell’Africa subsahariana, circa il 50-70 per cento dei posti di lavoro e il 30-50 per cento del Pil sono direttamente legati al settore agricolo. Pertanto, anche un modesto miglioramento in tale settore è in grado di fornire un significativo aumento del reddito delle economie nazionali e incide sulla qualità della vita di molte persone, non solo degli agricoltori. Le biotecnologie vegetali dispongono di grandi potenzialità per migliorare l’agricoltura non solo attraverso un aumento della produttività, ma anche delle qualità nutrizionali. E i governi africani, attraverso la New Partnership for Africa’s Development (Nepad), hanno dichiarato che il continente deve avere la libertà per operare e scegliere le tecnologie più appropriate al suo sviluppo.
Di che cosa ha bisogno l’Africa per uscire dal sottosviluppo alimentare?
Di certo l’Africa ha bisogno di poter utilizzare le nuove biotecnologie vegetali, ma all’interno di uno sviluppo infrastrutturale più ampio. Fattori come la costruzione di bacini per raccogliere e captare l’acqua, programmi per contrastare gli attacchi dei parassiti e delle malattie delle piante, l’adattamento alla variabilità climatica, il rinnovamento della fertilità del suolo, la formazione e l’informazione degli agricoltori, la gestione e la commercializzazione dei prodotti, la costruzione di strade e infrastrutture, l’accesso ai finanziamenti e al credito, la fornitura di attrezzature e la meccanizzazione sono decisivi per migliorare i rendimenti agricoli, ottimizzare l’efficacia nell’utilizzo delle biotecnologie e per uscire dal sottosviluppo. Tuttavia, sono necessari anche fattori politici come il buon governo e la garanzia della giustizia e dello stato di diritto, al fine di creare l’ambiente che favorisca e consolidi lo sviluppo.
Nell’ambito della lotta contro la denutrizione lei è coinvolta in un progetto di ricerca “Africa biofortified sorgo (Abs)” per la produzione di sorgo Ogm. Può parlarcene?
Il progetto mira a sviluppare un tipo di sorgo più nutriente e più facilmente digeribile. Stiamo lavorando per incrementare nelle sementi e nella pianta il livello di aminoacidi essenziali, specialmente la lisina, quelle della vitamina A e anche la percentuale di zinco e ferro. Il sorgo è la sesta coltura più diffusa al mondo, con oltre 100 milioni di ettari coltivati ogni anno ed è la principale fonte alimentare per più di 300 milioni di persone in Africa.