La Verità Giovedì 18 maggio 2017
Il prestigioso ateneo americano ha organizzato una cerimonia di consegna dei diplomi riservati agli studenti di colore. Motivo? «Fare ammenda per il passato razzista». Il risultato, però, è una discriminazione raziale
di Adriano Scianca
La parabola della questione razziale americana va dall’apartheid all’apartheid. Sì, perché una volta c’era la segregazione razziale cattiva, che era quella di Rosa Parks, per capirci, mentre adesso ce n’è una «buona». Non possiamo intendere altrimenti la decisione del prestigioso ateneo di Harvard, una delle eccellenze dell’istruzione globale, che il 23 maggio ospiterà una cerimonia di laurea esclusivamente per studenti neri. Interverranno 170 studenti e 530 ospiti. Per Harvard è una prima assoluta, mentre le università di Stanford e la Columbia hanno già dato vita a manifestazioni simili. «È un’occasione per celebrare l’eccellenza nera di Harvard», ha dichiarato Michael Huggins al sito The Root.
Huggins, che si è laureato con un master alla Harvard Kennedy School, ha aggiunto: «È un evento dove ci confrontiamo l’uno con l’altro, e i nostri genitori e la nostra famiglia ci vedono come un gruppo collettivo, una comunità». Non esistevano solo studenti, ragazzi, esseri umani, a prescindere dal colore della pelle e dalle origini di ciascuno? Che significa, del resto, «eccellenza nera»? Ce n’è una nera e una bianca? I neri hanno specifiche qualità culturali e intellettive proprie della loro razza? Quindi ora la razza esiste? Un bel rompicapo.
Sta di fatto che, a quanto pare, la visione inclusiva dell’antirazzismo è ormai superata da un aggiornamento che sembra rendere la nuova political corretnes pericolosamente simile al razzismo di un tempo, che per l’appunto voleva tenere le razze separate. Ma all’epoca era per discriminare, oggi è per valorizzare.
Alla base di certe iniziative c’è ovviamente il solito ricatto ideologico: «La fondazione di Harvard è in conflitto diretto con le esigenze degli studenti neri», ha dichiarato Courtney Woods, spiegando che «c’è un’eredità di schiavitù, razzismo scientifico e colonizzazione ad Harvard, istituzione fondata per formare leader imperialisti».
L’anno scorso, Harvard ha ammesso il suo numero di studenti afro-americani più alto di sempre, anche se essi rappresentavano ancora solo il 14 per cento della popolazione studentesca del 2016. Capite bene che bisogna rimediare. Anche perché un antirazzismo non troppo zelante potrebbe causare sempre nuove accuse, viste anche le origini impure dell’ateneo sopra ricordate.
Bisogna quindi accettare di tutto, abbassando pericolosamente la soglia del ridicolo. L’anno scorso, per esempio, Harvard ha abolito il titolo di master con cui venivano tradizionalmente chiamati i rettori dei collegi. Master deriva da una contrazione di magister, ma alle sensibilissime orecchie degli antirazzisti universitari ricordava troppo il concetto di «padrone».
E se accettiamo che nelle università ci siano dei «padroni», si farà presto a ritenere che debbano esserci anche degli «schiavi». O almeno questo è ciò che credono le vestali del politicamente corretto. Sul sito di Harvard è del resto tutt’ora presente, anche in lingua italiana, la pagina di Project Implicit, in cui è possibile svolgere l’Implicit Association Test, che dalla metà degli anni Novanta monitora le associazioni di idee tra volti e concetti. Il test si divide in 8 sezioni, ciascuna delle quali affronta un tema di pregiudizi: età, razza, nazionalità, genere, disabilità, colore della pelle, peso, orientamento sessuale. In base al tempo che ci mettiamo nell’associare volti e concetti a categorie morali si dovrebbe provare la quota di «pregiudizi impliciti» che ciascuno di noi cova in sé.
Già perché ai pasdaran del pensiero unico non basta dare la caccia alle discriminazioni esplicite, bisogna scovare anche i riflessi inconsci, scandagliare il cervello in tutti i suoi anfratti, perché si sa, il razzismo è mimetico e ubiquitario, può essere ovunque.
Nel 2014, poi, una serie di associazioni denunciarono Harvard, così come l’Università del North Carolina, per presunte discriminazioni nell’accesso all’ateneo. La cosa curiosa è che, in quel caso, insieme ai bianchi, fra le categorie privilegiate nei test d’ammissione furono inseriti anche gli ispanici e gli stessi afroamericani, mentre la discriminazione sarebbe avvenuta a solo danno degli asiatici.
In un comunicato, le associazioni spiegavano che «Harvard pratica una poco invidiabile politica di discriminazione. La preferenza è accordata ai bianchi, ai neri e agli ispanici, a detrimento di studenti asiatici meglio qualificati. Le politiche discriminatorie nell’ammissione all’università sono espressamente vietate dal quarto emendamento e dalle leggi federali sui diritti civili».
Nel 2002, poi, l’intera facoltà di «studi afroamericani» rischiò di abbandonare Harvard per la rivale Princeton, quando il presidente (bianco) dell’ateneo Lawrence Summers, accusò Cornei West, l’autorità indiscussa dei «black studies», di essere più interessato a «fare politica invece che cultura», oltre che di favorire sistematicamente gli studenti di colore. Erano accuse vere? Erano calunnie? Poco importa: i colleghi del «barone nero» minacciarono la secessione in favore dell’università rivale, tanto bastò a far rientrare la polemica.
Situata a Cambridge, nel Massachusetts, nell’area metropolitana della città di Boston, Harvard (dal nome del benefattore John Harvard che nel 1636 fornì i primi contributi privati necessari alla fondazione dell’ateneo) è una vera e propria istituzione, negli Usa e nel mondo: 8 presidenti degli Stati Uniti sono stati laureati dell’università, e 75 premi Nobel sono stati studenti, insegnanti o affiliati. Senza che nessuno si chiedesse di che razza erano.