Il Requiem “per gli anni Settanta” di Maurice Bignami
Ubaldo Casotto
Premessa. Maurice Bignami, per chi non ha avuto la (s)ventura di vivere gli anni Settanta del secolo scorso, è un ex terrorista. Comandante militare di Prima linea, gruppo armato della sinistra che predicava rivoluzione e seminava terrore e morte emulando e nello stesso tempo distinguendosi dalle Brigate rosse, è stato condannato a vent’anni anni di carcere. In cella si è dissociato dalla lotta armata, ha organizzato un congresso per sciogliere la sua organizzazione, si è sposato e ha iniziato a collaborare con la Caritas di Roma, con la quale, da libero, si è legato per più di vent’anni.
Rileggendo, l’avevo già ricevuto in bozze, il suo “Addio rivoluzione – Requiem per gli anni Settanta”, appena pubblicato da Rubbettino, mi sono spontaneamente risaliti alla mente i versi di “San Martino del Carso” di Giuseppe Ungaretti, che mando a memoria dalla terza media: “Di queste case/ non è rimasto/ che qualche/ brandello di muro/ Di tanti/ che mi corrispondevano/ non è rimasto/ neppure tanto/ Ma nel cuore/ nessuna croce manca/ È il mio cuore/ il paese più straziato”.
Giuseppe Ungaretti è morto nel giugno 1970, Maurice Bignami è rinato nel febbraio 1981, il giorno del suo arresto. Perché era morto, esistente in vita, come dice un assurdo certificato della burocrazia italiana, ma morto.
Lo dice lui stesso: “L’uso reiterato della violenza fino alla morte nostra e a quella altrui – un uso diventato sistema, mestiere, quotidiano – schiacciò in poco tempo la nostra umanità. Senza alcuna indulgenza. […] Lo sapevamo fin dall’inizio che il prezzo sarebbe stato altissimo. E non era il carcere e forse nemmeno la morte la parte peggiore della faccenda. Era, comunque la mettessimo, il ritrovarsi con l’umano a brandelli e farci l’abitudine. Continuavamo a parlare di politica, di relazioni, di sentimenti. Come prima. Forse anche più di prima. Per contrasto, per una forma di resistenza simile a quella che per un po’ mantiene in vita alcuni organi in un corpo ormai defunto. […] Vivi, ma già morti. Morti, ma ancora vivi. In noi rimaneva un nocciolo irriducibile – una estrema consistenza dell’essere – ma blindato, inviolabile, nascosto, inaccessibile. Un tesoro che ci apparteneva, ma di cui non eravamo più padroni. Ritrovarlo sarebbe stata l’impresa degli anni di prigionia”.
Rievocando il giorno dell’arresto oggi Bignami scrive: “Finalmente. Non ne potevo più”. E racconta di come, nel corso della sua ultima rapina per finanziare Prima linea, in un istante decise di non sparare ai poliziotti che aveva di fronte, di non usare le granate che aveva con sé, di appoggiare a terra il mitra.
Lì – penso – il suo cuore, il “nocciolo irriducibile” che dà “consistenza” al nostro “essere”, il “tesoro” che ci costituisce e ci accomuna, ha ripreso a funzionare e a informare di sé il pensiero e la vita. Ungaretti c’entra a questo livello “blindato, inviolabile, nascosto, inaccessibile”, quella profondità in cui ognuno di noi prende coscienza di sé stesso. Anche i terroristi. Anche gli assassini.
Ne ho avuta evidenza certa il giorno in cui nel supercarcere di Voghera nel 1993 intervistai per Rai2 Vincenzo Andraous, il “killer delle carceri”. Eravamo io e lui in una stanzetta, dietro di me il cameraman, e mentre mi raccontava dei suoi delitti, di sua figlia e del suo cambiamento. Io gli guardavo le mani, magre, nervose, forti, con le quali aveva ucciso, e il collo segnato dai segni dei lacci con i quali avevano tentato di ucciderlo.
E, in diretta, gli ho chiesto: “Ma lei come può pensare che chi ci sta ascoltando in questo momento le creda? Creda che lei è veramente cambiato?”
“Non mi serve che mi credano, nessuno sa che cosa può succedere nel cuore di un uomo”. Questo nucleo di evidenze ed esigenze originali con cui ognuno di noi è entrato nel mondo non fa sconti. Con cuore, “il paese più straziato”, dobbiamo fare i conti. E Bignami in questo libro li fa.
Non si tratta solo del pentimento per le azioni commesse – cosa che ha già praticato in altri libri – si tratta della resa dei conti con ciò, paradossalmente più grave, che si è pensato. Il percorso duro e doloroso che ti distacca dall’entusiastica militanza giovanile, dalle speranze che hai coltivato, dai libri che hai letto, dai maestri che hai avuto, da tuo padre.
Quel padre partigiano che “aveva fatto dell’engagement una ragione di vita” e che gli aveva trasmesso una “eredità bella e tosta”. Con lui – e che cuore ci vuole – Maurice ebbe un ultimo “accenno di discussione” pochi giorni prima che morisse, nel 2000: “Mio padre mi disse che le idee erano buone, erano gli uomini ad avere sbagliato tutto. Pensai che quella era forse l’opinione che più ci divideva. Le idee erano veramente pessime, sono sempre state idee del cazzo”.
Bignami non vede soluzione di continuità tra il pensiero e la prassi, non c’è un salto illogico tra l’uno e l’altra: “La lotta armata fu semplicemente l’acme (e il punto definitivo di non ritorno) che mostrò nella sua assoluta povertà la totale inconsistenza delle premesse”.
Una constatazione giunta dopo un percorso – che, come la rivoluzione, non è stato certo un pranzo di gala (arresto, carcere, dissociazione, consegna delle armi, misconoscimento da parte dei vecchi compagni di strada) – al termine del quale afferma: “È comunque meglio una sana democrazia malata che un nefasto comunismo in buona salute”.
Bignami rivendica la “nobiltà dell’abiura”, come scrissero lui e il suo gruppo di dissociati al manifesto il 1° maggio 1987. “È proprio dall’idea stessa di rivoluzione che noi oggi ci distacchiamo. […] Noi ripudiamo l’atto puro, l’idea stessa, quel pensiero rivoluzionario da cui proprio per coerenza, per necessaria conseguenza e per condizioni oggettive – sempre esistite e sempre esistenti – deve scaturire l’atto violento”.
Vittorio Mathieu sostiene che “la considerazione delle conseguenze a cui portano i princìpi è uno degli esercizi che ripugnano di più”, ma un’idea la si capisce solo se si ha il coraggio, possibilmente già a livello teorico, di condurla sino alle sue ultime conseguenze.
Bignami scrive: “Portando alle estreme conseguenze il pensiero rivoluzionario, la lotta armata nell’Occidente capitalistico ha disvelato il trucco ideologico, sciolto il malinteso storico”.
Purtroppo non finirà qui. Purtroppo questo libro non sarà, come auspica il sottotitolo, il “requiem per gli anni Settanta”. Purtroppo ha ragione Peppino Sottile e l’adagio siciliano che ci citava spesso in redazione al Foglio, “l’ossessione è peggio della malattia”. Però, almeno, le quattrocento pagine di Bignami possono aiutare a riconoscerle entrambe: la malattia e l’ossessione.