27 Dicembre 2019
Il 24 dicembre si è ricordato un anniversario che segnò una svolta geopolitica all’interno del fatidico 1989
di Silvia Scaranari
Questo conflitto, che secondo molti ha dato un colpo mortale al già traballante governo di Mosca, è nato dalla volontà dell’URSS di portare sostegno alla Repubblica Democratica dell’Afghanistan nata nel 1978 con un colpo di Stato di Noor Mohammed Taraki (1917-1979), segretario del Partito democratico, contro il precedente Presidente e Primo Ministro Mohamed Daoud (1909-1978).
Questi, approfittando di una visita diplomatica del re Zahir Shah (1914-2007) in Italia nel 1973, aveva abolito la monarchia, proclamato la Repubblica e emanata una nuova Costituzione nel 1977.
L’opposizione islamica a Daoud era tuttavia forte e guidata – dal Pakistan – da tre dirigenti: il centrista Burhanuddin Rabbani (1940-2011), l’antifondamentalista Ahmad Shah Massud (1953-2001) e il fondamentalista Gulbuddin Hikmatyar (n. 1949).
Daud aveva cercato di governare venendo a patti con la fazione comunista Parchan di Babrak Karmal (1929-1996), e nel 1977 si era recato a Mosca per incontrare Leonìd Il’ìč Breznev (1906-1982) e ottenere un aiuto per pacificare il Partito Democratico, ma l’anno successivo era stato barbaramente trucidato per ordine di Taraki.
Il nuovo governo lancia subito una serie di riforme tra cui la riforma agraria, l’abolizione del velo, il divieto per gli uomini di portare la barba, l’abolizione dei tribunali tribali, la costruzione di ospedali e scuole, la nascita di sindacati, il diritto di voto alle donne, l’abolizione delle leggi tradizionali sostituite da altre di chiara ispirazione marxista.
A lui si contrappone il mondo religioso che accusa il nuovo governo di tradire la patria e di essere ateo, e proclama il jihad. Molti scendono in campo. L’URSS, che aveva già appoggiato il Governo con aiuti tecnici e finanziari per la costruzione di strade, scuole e caserme, manda aiuti per addestrare e armare l’esercito.
L’aiuto esterno non basta e nel 1979 i Sovietici invadono l’Afghanistan, eliminano il presidente khalq, Hafizullah Amin (1929-1979), e installano al suo posto il comunista Babrak Karmal (1929-1996).
Nei successivi dieci anni, al prezzo di un milione e mezzo di morti, la composita alleanza mujaheddin – che comprende tutto l’islam politico e le minoranze etniche –, con l’aiuto del Pakistan e degli Stati Uniti, scaccia i sovietici dal paese, e nel 1992 abbatte il regime comunista di Najibullah (1947-1996), succeduto a Karmal nel 1986.
Il primo presidente mujaheddin dell’Afghanistan è il moderato sufi Sibghatullah Mujaddedi (1925-2019), cui fa seguito nel 1993 il centrista Rabbani, con un governo a forte presenza tagika, che pone come capo dell’esercito il tagiko Massud.
Di fatto, Rabbani non riesce a controllare l’intero territorio nazionale: le minoranze etniche diverse dalla tagika sono tutte in rivolta, e l’area pashtun è spezzettata in piccole zone ciascuna di fatto governata da un «signore della guerra» spesso legato alla malavita.
La complessità dell’Afghanistan
Uno dei grandi problemi dell’Afghanistan è la composizione variegata della popolazione, frutto di plurisecolari invasioni. L’Afghanistan unisce l’Asia orientale con l’Asia centrale e con l’Asia meridionale rappresentando, dall’antichità ad oggi, un crocevia di popolazioni, merci, lingue e vie di comunicazione.
Per questo è stato oggetto di continue invasioni straniere, ribellioni, nascita di potentati locali e nuove invasioni fino ad essere tra il XIX e XX sec. il centro del Grande Gioco fra Russi e Inglesi per il controllo dell’area persiana e del sub continente indiano.
È evidente che questa complessa storia è all’origine di uno dei maggiori problemi attuali: la compresenza di diverse etnie (la Costituzione del 2004 ne riconosce 14: Pashtun, Tajik, Hazara, Uzbek, Baloch, Turkmen, Nuristani, Pamiri, Arab, Gujar, Brahui, Qizilbash, Aimaq, and Pashai) ognuna con il suo bagaglio di lingue, tradizioni, costumi e talora anche appartenenza religiosa.
Nel Paese la lingua ufficiale è il dari (o persiano afghano) usato dal 77% degli abitanti, accompagnato da pashtu (48%), uzbeko (11%) e, a calare, inglese, turkmeno, urdu, pashayi, nuristan, arabo e beluci. Nell’Ottocento il Paese, pur rimanendo indipendente, fu luogo di scontro nel Grande Gioco fra Britannici e Russi nella loro corsa all’espansione e al controllo dell’area persiana e indiana.
Due guerre videro gli Afghani resistere alle pretese britanniche di dominare l’area e da qui nacque la leggenda sulla sua impossibile conquista. Nonostante l’eroica lotta, nel 1880 Shir Alì (1825-1879) fu sostituito dal più conciliante Abdur Rahman Khan (1844-1901) che accettò il controllo britannico in politica estera e la definizione condivisa con i Russi dei confini ancora attuali dello Stato.
Neutrale durante la Prima guerra mondiale, nell’agosto 1919 il nuovo re Amanullah Khan (1892-1960) firmò con gli Inglesi (dopo ennesimi scontri che vanno sotto il nome di terza guerra anglo-afghana) il Trattato di Rawalpindi, in cui si riconobbe la completa indipendenza dello Stato.
Tra il 1919 e il 1929 Amanullah Khan, ammiratore di Mussolini (1883-1945) e soprattutto di Mustafà Khemal Ataturk (1981-1938), cercò di modernizzare e occidentalizzare il suo Paese: nel 1921 vara la Costituzione con uguali diritti per uomini e donne, promulga un nuovo “statuto personale” (diritto di famiglia) con cui vieta il matrimonio delle bambine e le doti troppo costose, introduce un tribunale a cui possono ricorrere le donne vittime di torti in famiglia, rende obbligatoria la scolarizzazione anche per le donne fino alla quinta classe, abolisce l’uso del velo e costruisce alcuni ospedali.
Questa mentalità aperta e occidentalizzante gli aliena le simpatie di larga parte del popolo conservatore e quindi è costretto ad abdicare e andare in esilio a Roma dove poi morirà nel 1960. Sul trono sale il cugino Mohammed Nadir Khan (1883-1933) che abolisce le riforme di Amanullah e tenta una via più dolce alla modernità, ma nel 1933 uno studente di Kabul lo uccide.
Gli succede il giovanissimo figlio Zahir Shah (1914-2007), che cerca di continuare la via delle riforme ma subisce continue contestazioni. Nel 1953 sceglie come primo ministro suo cognato Mohammed Daoud, che avvicina il Paese all’URSS ma è costretto a dimettersi nel 1963.
Nel corso dell’anno successivo, il sovrano promulga una nuova costituzione per dare un parlamento al popolo (un terzo dei deputati di nomina regia, un terzo eletto dal popolo maschile, un terzo nominato dalle assemblee tribali).
Questo atto, ben visto da tutta la politica occidentale, permette la nascita di diversi partiti con le più diverse posizioni. Tra questi il Partito Democratico Popolare infeudato a Mosca ma ben presto diviso in due branche per le lotte intestine e plurisecolari fra l’etnia durrani e quella ghilzai: la fazione Khalq (“Popolo”) capeggiata da Nur Muhammad Taraki e da Hafizullah Amin (1929-1979) e sostenuto da elementi interni all’esercito, e la fazione Parcham (“Bandiera”) guidata da Babrak Karmal molto legato alla Russia.
E così si torna alla fine degli anni ’70 quando l’URSS decide di entrare direttamente sul territorio generando una vera e propria guerra civile che si trascinerà ben oltre il ritiro delle loro forze armate.
La lunga lotta con l’occupazione sovietica ha un doppio risultato. Se da un canto riesce a liberare il territorio, ridando autonomia politica al popolo afghano, dall’altro ha un risvolto più internazionale. Il socialismo sovietico a cui molti governi mediorientali e maghrebini avevano guardato come interlocutore e protettore internazionale contro l’Occidente, si è tradito violando il suolo islamico con le armi.
L’occupazione sovietica ha rotto l’incantesimo, i governi filo-socialisti cambiano interlocutore rivolgendo le proprie aspettative all’interno dello stesso mondo arabo e cercando di ricostruire un’identità, anche politica, islamicamente corretta: più sharī‘a e meno modernità. In questo meccanismo anche la divisione fra sunniti e sciiti, che non è mai stata un problema in Afghanistan, innesca una ulteriore lacerazione causa il radicalizzarsi delle posizioni religiose di alcuni gruppi jihadisti.
Su questo gioca anche il tentativo da parte dell’Iran di chiamare a raccolta tutti gli sciiti in un’ideale contrapposizione al mondo sunnita solidale con l’Arabia Saudita e, per suo tramite, con gli Stati Uniti; ma questa non è più storia bensì cronaca dei nostri giorni.