Informazione Cattolica
3 Settembre 2021
Afghanistan: la “rieducazione” delle donne avanza a grandi passi: chiuse in casa, spedite in Pakistan e costrette alla schiavitù sessuale. Ma la sorprendente velocità con la quale i talebani hanno completato la rioccupazione del paese non ha suscitato molti commenti e reazioni per denunciare la violazione dei diritti e della dignità femminile a seguito dell’isituzione del nuovo “Emirato islamico”
di Giuseppe Brienza
La sorprendente velocità con la quale i talebani hanno completato la rioccupazione dell’Afghanistan ha innescato molte reazioni internazionali, con toni e taglio diverso. Non abbiamo letto però, almeno sui grandi media italiani, commenti specificamente diretti a denunciare la violazione dei diritti e della dignità delle donne conseguente all’imposizione della Shari’a nel Paese asiatico. Anzi, come testimoniato da un recente servizio televisivo, diversi musulmani intervistati che frequentano la moschea di Tor Pignattara (Roma), hanno dichiarato di approvare e sostenere i comportamenti segregazionisti che stanno mettendo in atto i Talebani.
La partecipazione alla vita politica, sociale, culturale del Paese, per le donne, è stata abolita e, anche per questo, la prima direttrice di orchestra afgana, la ventiquattrenne Negin Khpalwak, è stata costretta a scappare. Ma allora come mai questa disattenzione verso la situazione delle donne afghane da parte dei nostri paladini dei “diritti civili”? Eppure è sotto gli occhi di tutti che con il ritiro dei vari organismi internazionali dall’Afghanistan, inesorabilmente, è avanzata l’erosione dei più elementari diritti fondamentali dei quali hanno goduto prima i circa 38 milioni di cittadini.
Dopo la presa della capitale Kabul da parte degli “studenti” coranici, annunciata al mondo il 16 agosto 2021, fra gli editoriali internazionali che hanno messo a fuoco le conseguenze sui diritti umani della fondazione del nuovo Emirato islamico, va segnalato quello pubblicato dall’autorevole rivista statunitense Foreign Policy, di proprietà del Washington Post.
Su questa testata dedicata alle relazioni internazionali, fondata nel 1970 dal grande politologo americano Samuel P. Huntington (1927-2008) [assieme all’editore e diplomatico Warren Demian Manshel (1924-1990)], è uscito infatti un articolo firmato dalla giornalista australiana Lynne O’Donnell, intitolato Nel nuovo Emirato Afghano le donne sono diventate invisibili.
Nel pezzo si rileva anzitutto un fatto inequivocabile: man mano che i Talebani consolidano il loro controllo sul territorio, per le donne la conseguenza è una sola, ovvero scomparire letteralmente dai luoghi pubblici. Tutte sono infatti, direttamente o indirettamente, state costrette a lasciare il loro impiego chiudendosi in casa, e così «ponendo fine a 20 anni di progressi verso la libertà e l’uguaglianza» (Lynne O’Donnell, In Taliban’s New Afghan Emirate, Women Are Invisible, August 27, 2021).
Per le donne afghane sarà possibile d’ora in poi uscire solo se accompagnate da un parente maschio o “tutore” (mahram) e solo se completamente bardate con il burqa. Ritornano in pratica alla situazione già vista con il regime talebano del 1996-2001, quello abbattuto dalle truppe occidentali, insomma. Il “Ministero per gli Affari Femminili”, una struttura istituzionale che negli scorsi anni aveva operato grazie al supporto e alla presenza degli Stati Uniti, non riaprirà più ma, allo stesso tempo, come denuncia la O’Donnell, anche «il sostegno internazionale per i programmi di promozione delle donne è stato sospeso, e fonti del settore non sanno dire se e quando riprenderà».
La maggior parte delle nomine del nuovo Emirato islamico sono andate a mullah, ovvero religiosi islamici di estrazione tribale privi di qualsiasi competenza giuridica e, com’è intuibile, sprovvisti di esperienza nella gestione di ministeri, province e persino alberghi. Prima del 2001, aggiunge Foreign Policy, quelle ragazze che in Afghanistan erano ammesse a studiare (una esigua minoranza), potevano frequentare le sole scuole “segretate” e, comunque, «venivano picchiate per strada anche per “trasgressioni” minime come quella di indossare le scarpe sbagliate – l’unico indumento visibile sotto il burqa -.
Dopo l’intervento militare statunitense, invece, l’istruzione è stata aperta a 360 gradi, con più di 9 milioni di studenti avviati alle scuole pubbliche, più di un terzo dei quali ragazze». Ora in alcune parti del Paese molte donne cui è preclusa la scolarizzazione sono costrette a sposarsi con i combattenti talebani che le ricevono come ricompensa, una sorta di “bottino di guerra” per intenderci.
Come riportato da Open (24 agosto 2021), quando a inizio luglio l’avanzata dei Talebani era già a buon punto, è partito un ordine dai capi ai leader religiosi locali che avevano preso il controllo delle province di Badakhshan e Takhar: dovevano fornire loro un elenco di ragazze di età superiore ai 15 anni e vedove con meno di 45 anni per costringerle a sposare i combattenti barba e turbante.
Ma neanche alle future mogli dei miliziani è stato riservato un trattamento di favore… Condotte con la forza nel Waziristan, regione montagnosa del Pakistan che confina con l’Afghanistan, sono state “rieducate” secondo i dettami dell’Islam radicale, come spiegato dall’attivista e docente Vrinda Narain sull’Independent. Munera Yousufzada, una politica afghana già governatrice di Kabul (2018) ed ex Viceministro della Difesa nel precedente Stato, ha dichiarato a chiare lettere che, da quando gli occidentali sono partiti, «tutte le donne afghane hanno una sola paura: i Talebani».
E questo proprio nello stesso momento in cui il portavoce del nuovo Emirato islamico, Zabiullah Mujad, si è permesso di chiedere alle autorità italiane di riconoscere il nuovo regime riaprendo l’ambasciata di Kabul! Soprassedendo sulle frustate a chi indossa abiti occidentali, sulle percosse ai collaboratori delle Ong, sull’esecuzione a colpi di arma da fuoco di chi sventola la bandiera afgana e così via dicendo.