24 maggio 2022
Nuovo allarme delle maggiori Ong, come Oxfam e Save the Children, per il pericolo denutrizione nei Paesi dell’Africa orientale. Le cause sono identificate nel Covid, nella guerra in Ucraina e nel taglio degli aiuti. Ma questi Paesi vivono di aiuti. E nessuno si pone la domanda del perché tutti quei miliardi finiscano in nulla.
di Anna Bono
Nei giorni scorsi un quotidiano italiano ha rilanciato l’allarme delle Nazioni Unite per la fame che minaccia gli abitanti di alcuni paesi dell’Africa orientale, Somalia, Etiopia e Kenya, affidandosi per descriverne le cause alle analisi di Oxfam e Save the children, due organizzazioni non governative internazionali.
La denutrizione potrebbe uccidere una persona ogni 48 secondi, sostengono le due Ong, il numero delle persone che soffrono la fame è passato dai 10 milioni del 2021 agli attuali 23 milioni e oltre.
All’origine del brusco peggioramento registrato sarebbero il Covid-19 e la guerra in Ucraina, oltre a un lungo periodo di siccità. Questi fattori, dicono ancora le Ong, si assommano ai “mali endemici” che affliggono quei paesi che vanno “dal debito insostenibile alla sordità dei paesi ricchi che tagliano sugli aiuti”.
L’assoluta, diffusa incapacità di riconoscere le cause dei problemi economici e sociali dei paesi africani non smette di stupire, tanto sono evidenti.
C’è un solo fondamentale “male endemico” in Africa, da cui derivano tutti i problemi, ed è l’incuria di governi e amministrazioni. La stessa siccità, così come le inondazioni nella stagione delle grandi piogge, ne è una conseguenza, pur dipendendo da fattori atmosferici, perché mancano adeguati strumenti di controllo e gestione delle acque piovane.
Analogamente, l’indebitamento estero “insostenibile” deriva dall’uso disinvolto, irresponsabile di prestiti chiesti e ottenuti per infrastrutture, servizi pubblici, piani di sviluppo mal concepiti o neanche del tutto realizzati.
“Il mondo non fa niente” denunciano Oxfam e Save the Children. Ma l’accusa è smentita dalle stesse Ong quando affermano che i paesi donatori nel 2017 hanno dato ai tre paesi 1,9 miliardi di dollari e ad aprile hanno promesso 1,4 miliardi di aiuti per fronteggiare la crisi alimentare, “solo” 378 milioni dei quali già consegnati.
Altri fondi sono già arrivati o stanno per essere consegnati. Per citarne alcuni, la Banca mondiale ha approvato un finanziamento di 300 milioni di dollari per aiutare l’Etiopia a riparare i danni della guerra scatenata nel 2020 dal Fronte popolare di liberazione del Tigré contro il governo federale.
Quasi 700 milioni di dollari per aiuti alimentari sono stati stanziati dal Dipartimento Usa dell’agricoltura e dall’Agenzia Usa per lo sviluppo internazionale in favore oltre che di Etiopia, Somalia e Kenya, anche di Sudan, Sudan del Sud e Yemen.
I tre stati dell’Africa orientale beneficeranno inoltre del miliardo di dollari che a fine marzo la Banca africana di sviluppo, con il sostegno del Fondo monetario internazionale, si è impegnata a mettere a disposizione per lo sviluppo dell’agricoltura alimentare del continente africano.
Dei tre, la Somalia è quella che con più evidenza smentisce le accuse rivolte al resto del mondo.
Ha anche appena ottenuto dalla Gran Bretagna all’inizio di maggio un pacchetto di aiuti pari a 25 milioni di sterline e gli Stati Uniti hanno appena annunciato che invieranno quasi 500 militari per rafforzare la difesa del governo somalo minacciato dagli al Shabaab, i jihadisti affiliati ad al Qaeda, germinati dalle Corti islamiche alle quali nel 2006 un numero crescente di somali avevano aderito e che l’intervento militare dell’Etiopia ha sconfitto.
Quello britannico è un piccolo contributo che si aggiunge ai miliardi di dollari donati al governo somalo nel corso degli anni.
Anche i soldati Usa integreranno le consistenti forze militari straniere già presenti, tra cui dal 2007 la Amisom, una missione dell’Unione africana, forte di oltre 20mila effettivi, tutti africani così come i comandanti che si sono avvicendati, tutti pagati però dall’Unione Europea.
La Somalia è in guerra dal 1991 quando, caduto il regime del dittatore Siad Barre, è iniziato un conflitto di potere tuttora in corso tra i clan in cui la popolazione è divisa.
Solo dopo lunghe trattative tra i capi clan, finanziate dalla comunità internazionale che pagava persino i conti degli alberghi di Nairobi, Kenya, dove risiedevano le delegazioni intente a discutere i termini di un possibile cessate il fuoco, sono stati creati in esilio, nel 2004, dei simulacri di istituzioni democratiche: un capo di stato, un governo e un parlamento, frutto di un accordo in base al quale dei 275 seggi della Assemblea 61 sono stati attribuiti a ciascuno dei quattro clan maggiori e 31 ai clan minori.
Da allora, anche quando due anni dopo le istituzioni politiche, peraltro recalcitranti, sono state trasferite in Somalia, lo scontro tra i clan somali è continuato: politico per la spartizione di cariche di governo, amministrative e militari; armato, tra truppe governative, e soprattutto i militari delle forze straniere, e gli al Shabaab che, espulsi dalla capitale Mogadiscio, riescono a mettervi a segno continui attentati dinamitardi e controllano estesi territori nel sud del paese.
La Somalia si è anche frantumata: Somaliland, Puntland e Gibuti non ne fanno più parte.
Il governo, in permanente stato di instabilità e tensione, dipende interamente per esistere, e svolgere le sue limitatissime attività, dai finanziamenti e dalla protezione militare stranieri. Gli aiuti finanziari e militari avrebbero dovuto servire a realizzare una road map che prevedeva entro il 2011 il passaggio alla democrazia, ma non è mai stata sostanzialmente completata.
Manca tuttora un censimento della popolazione, la costituzione attuale, che una Assemblea costituente non è stata in grado di redigere, è un testo scritto su una traccia fornita dagli incaricati delle Nazioni Unite ed è stata adottata senza sottoporla a referendum popolare, i capi clan continuano a eleggere i membri dell’Assemblea che a loro volta scelgono il capo dello stato.
Il 15 maggio è stato eletto il nuovo presidente. Si tratta di Hassan Sheikh Mohamud, già in carica dal 2012 al 2017.
Lo scontro politico tra le varie cordate, espressione di clan e sottoclan, ha ritardato per mesi il voto finché il Fondo monetario internazionale ha minacciato di sospendere i finanziamenti al paese.
Dieci anni fa il Gruppo di monitoraggio sulla Somalia delle Nazioni Unite ha rivelato che il 70% del denaro affidato al governo di Mogadiscio negli anni precedenti non era mai arrivato nelle casse dello stato: “nulla viene fatto dalle istituzioni somale – si leggeva nel rapporto – senza che qualcuno pronunci la frase ‘che cosa ci guadagno io?’”
In precedenza anche un documento della Banca Mondiale denunciava lo smarrimento del 68% degli aiuti internazionali stanziati tra il 2009 e il 2011.
Nel 2018 la Somalia avevano un debito estero di 5,2 miliardi di dollari. Si può fare una stima di quanti di quei miliardi siano svaniti dalle casse statali o non vi siano mai neanche entrati.
Tuttavia il governo somalo beneficia di un programma di cancellazione del debito, grazie ai contributi di una serie di paesi donatori, tra i quali l’Italia che nel 2020 ha ridotto il debito a 3,7miliardi ed entro quest’anno dovrebbe portarlo a 560 milioni.
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