Uno studio dell’Ocse e della Banca africana di sviluppo mette a fuoco le ragioni della debacle africana: il continente si è impoverito perché ha perso il contatto con l’economia mondiale. Adesso sono gli stessi governi africani a invocare l’aggancio alla globalizzazione. Ma il loro curriculum non è incoraggiante. Tanto che l’africano della strada preferisce chiedere una temporanea “ricolonizzazione”
di Rodolfo Casadei
Per la prima volta un sondaggio sull’argomento in buona e dovuta forma è stato svolto presso un gruppo di popolazione africana, e i risultati non lasciano spazio ad equivoci: il 70 per cento dei residenti di Freetown, capitale della infelice Sierra Leone, hanno espresso la loro preferenza per una temporanea ricolonizzazione del paese da parte della Gran Bretagna, la vecchia potenza coloniale che governò quelle terre fra il 1896 e il 1961.
L’orientamento della stragrande maggioranza dei sierraleonesi non è affatto sorprendente: dai giorni dell’indipendenza, il loro stato ha conosciuto prima tre decenni di malgoverno e poi una devastante guerra civile a partire dal 1991. L’intervento a sostegno del governo locale di un corpo di spedizione dei paesi africani della regione capeggiato dalla Nigeria e poi una imponente missione di peace-keeping delle Nazioni Unite non sono riuscite a impedire massacri, razzie e saccheggi fin dentro alla capitale da parte dei ferocissimi ribelli del Fronte rivoluzionario unito (Ruf).
Fino a quando, nel maggio 2000, l’ennesimo assalto alla capitale da parte di 10 mila guerriglieri è stato respinto dal provvidenziale arrivo di 800 parà di Sua Maestà. Da quel momento le cose sono cominciate ad andare meglio: la presenza dei militari britannici ha convinto i ribelli ad accettare le proposte di pace, ha rinfrancato l’esercito governativo, praticamente ricostruito da zero dagli istruttori mandati da Londra, e ha permesso ai caschi blu di tornare sul posto e attuare il disarmo dei combattenti senza timore di essere presi in ostaggio, come era accaduto la prima volta.
Non c’è da meravigliarsi che Freetown sia stata la tappa trionfale del recente viaggio di Tony Blair in Africa, dove ha toccato anche Senegal, Ghana e Nigeria.
Fra guerre interminabili e mancata globalizzazione
La Sierra Leone non è certo l’unico paese africano profondamente ferito dalla violenza armata. Anche senza contare i conflitti minori, gli scontri etno-religiosi (vedi la Nigeria) e i conflitti che conoscono una tregua (come quello fra Etiopia ed Eritrea), almeno un quinto degli abitanti dell’Africa nera (cioè 120 milioni su 600) sono oggi direttamente investiti da guerre sanguinose.
Si tratta di quelli che vivono in paesi come la Repubblica Democratica del Congo, il Sudan, l’Angola, il Ruanda, il Burundi, la Somalia, la Liberia, ecc. Secondo una statistica Onu, per ovvie ragioni il Consiglio di Sicurezza dedica il 70 per cento del suo tempo all’Africa. Ma pur essendo la ragione principale, lo sconvolgimento della vita a causa di guerre interminabili non è probabilmente l’unico motivo per cui un numero crescente di africani domanda interventi dall’esterno: l’andamento disastroso dell’economia (in parte dovuto alla mancanza di pace, ma non solo) ne è un altro.
Il 5 febbraio scorso esperti del Centro di sviluppo dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che riunisce 30 paesi altamente industrializzati) e della Bad (la Banca africana di sviluppo) hanno presentato uno studio dal titolo African Economic Outlook che analizza in dettaglio l’economia di 22 paesi e fa il punto sull’andamento economico dell’intero continente (Nordafrica incluso) nell’ultimo mezzo secolo.
Il responso è il seguente: «Il peso dell’Africa nell’economia mondiale è diminuito nel corso degli ultimi cinquant’anni in misura inquietante, sia dal punto di vista del Pil che delle esportazioni e degli investimenti dall’estero. L’unico ambito in cui la quota parte del continente continua ad aumentare è la sua popolazione». I dati statistici sono impietosi: fra il 1950 e il 2000 la popolazione africana è cresciuta dall’8 al 13 per cento del totale mondiale, ma il Pil è diminuito dal 3,5 a poco più del 2 per cento, le esportazioni dal 7 al 2 per cento e gli investimenti dall’estero dal 6 all’1 per cento.
La flessione delle esportazioni, con la perdita di due terzi delle quote di mercato detenute, è stata graduale. Quella degli investimenti molto più rapida: nel corso degli anni Settanta ed Ottanta la quota si è dimezzata una prima volta, per poi dimezzarsi nuovamente nel corso dei soli anni Novanta. Mentre i paesi del Sud-est asiatico si integravano all’economia mondiale, con conseguente aumento sia del Pil pro capite che dell’incidenza del Pil asiatico sul totale mondiale, l’Africa si deconnetteva, perdendo posizioni in entrambe le classifiche.
La diagnosi del male africano, dal punto di vista macroeconomico, è semplice: mancato aggancio alla globalizzazione. Spiega Roberto Longo, uno degli autori dello studio: «I benefici della globalizzazione non si sono ancora sentiti nel continente africano, sia perché la sua economia è sempre più isolata da quella del resto del mondo, sia per un’incapacità istituzionale e amministrativa di molti governi che per la mancanza di capitale umano».
Effettivamente il capitale umano è un altro fattore critico: più della metà delle donne africane sono analfabete e il 40 per cento dei bambini nell’età dell’elementari non frequenta le scuole. L’Aids, che colpisce in media l’8 per cento degli adulti (con punte del 15 per cento e oltre in certi paesi dell’Africa australe), provoca larghi vuoti proprio nelle ristrette classi medie istruite e lascia immensi plotoni di orfani: se ne calcolano ben 10 milioni, cioè più di tutti i bambini di un paese come l’Italia.
Nepad: un grande piano senza quattrini
Di fronte a questa situazione l’Africa ha accennato ad una reazione: 15 paesi guidati da Algeria, Nigeria, Sudafrica e Senegal hanno lanciato un’iniziativa che va sotto il nome di Nepad, Nuova partnership per lo sviluppo africano. Si tratta di un progetto per il rilancio economico del continente che propone piani di sviluppo sia a livello continentale che regionale in sette aree, e sui quali ci si propone di attirare 64 miliardi di dollari di investimenti all’anno.
Come? Realizzando quelle condizioni politiche e macroeconomiche che invogliano gli investitori (e che non dispiacerebbero di certo agli africani): buon governo, soluzione dei conflitti, Stato di diritto, stabilità macroeconomica, lotta alla corruzione e promozione del commercio intrafricano.
Tony Blair si è fatto avvocato dell’iniziativa in Europa, ma le critiche hanno già cominciato a fioccare. «In concreto -ha scritto il Financial Times- Nepad contiene ancora poco più che ammirevoli ambizioni. La maggior parte della preparazione è stata assorbita dalla creazione di nuove strutture e da chiacchere.
Non c’è segno di piani concreti. Naturalmente ci vuole del tempo per arrivare a decisioni unanimi, ma è vitale che Nepad non si impantani nel gigantismo burocratico». Al di là della fumosità del piano, quel che preoccupa è la non eccellente credibilità dei padrini di Nepad. Il progetto, infatti, nasce soprattutto dalle menti di Olusegun Obasanjo, presidente della Nigeria, e di Thabo Mbeki, successore di Nelson Mandela nel Sudafrica del dopo-apartheid.
Il nigeriano, primo presidente civile del suo paese dopo tredici anni di regime militare, ha già dissipato il credito di cui godeva e il suo governo è ormai impopolare come quelli dei dittatori che l’hanno preceduto. Obasanjo è stato per anni membro del consiglio di presidenza di Transparency International (TI), l’organizzazione non governativa che analizza il tasso di corruzione nel mondo e opera con campagne di opinione e interventi sui governi.
Nel 1998, cioè alla vigilia della sua ascesa al massimo vertice dello stato, la Nigeria era classificata 81ma su 85 paesi quanto a tasso percepito di corruzione; nel 2001, data dell’ultimo rapporto di TI, dopo tre anni di cura Obasanjo a base di trasparenza e rigore, il paese si ritrovava… 90° su 91! Nel frattempo oltre tremila nigeriani hanno perso la vita in sanguinosi massacri etnico-religiosi, a cui si aggiungono le 100 vittime di due settimane fa nella capitale economica Lagos prodotte da scontri fra yoruba e haoussa.
I cristiani rimproverano al presidente la sua cedevolezza nei riguardi dei musulmani, che hanno introdotto la legge penale di derivazione coranica in una dozzina di stati della federazione; i musulmani continuano a perseguire una politica di separatezza che mette a repentaglio la sopravvivenza dell’unità della Nigeria.
Ma nello Zimbabwe si inneggia a Osama
Non è molto migliore il curriculum di Thabo Mbeki, noto soprattutto come l’unico capo di Stato al mondo convinto che non sia il virus dell’Hiv la causa dell’Aids. Mbeki è a capo dell’unica media potenza economica e militare africana, ma finora non ha dato prova di saper esercitare un’influenza positiva sulle vicende continentali. Il Sudafrica fa la parte del leone nella Sadc, l’associazione di 14 paesi dell’Africa australe, ma nemmeno in quel circolo più ristretto riesce ad esercitare un’autentica leadership.
Sotto lo sguardo inorridito dell’Unione Europea e degli Usa, Mbeki ha lasciato che le recenti elezioni dello Zambia fossero decise da pesanti brogli, e che lo Zimbabwe del sempre più autocratico Robert Mugabe proseguisse la sua corsa verso il baratro.
L’anziano leader ha ormai silenziato la stampa indipendente, nominato i militari nella commissione elettorale, posto il veto alla partecipazione di 6 paesi alla delegazione degli osservatori Ue alle presidenziali di marzo (Regno Unito, Germania, Olanda, Danimarca, Svezia e Finlandia) e sta addestrando 100 mila giovani in campi paramilitari nella zona di Border Gezi incaricati di intimidire gli oppositori (che hanno già avuto decine di morti).
I «ragazzi» di Mugabe fermano per strada anche i pochi coloni bianchi ancora rimasti nel paese dopo l’esproprio di molte fattorie e li costringono a cantare «Viva Osama bin Laden, viva Robert Mugabe, abbasso i bianchi». Da tre anni a questa parte il Pil dello Zimbabwe crolla a colpi di – 5 per cento e gli investimenti esteri fuggono. Chissà perché.