Ai confini della vita

Conferenza che si è svolta a Marina di Pisa l’11 marzo 2005
organizzata dalla Circoscrizione 1 e dal Centro Cattolico di Documentazione

Hanno partecipato:

prof. Antonio Boldrini Direttore U.O. Neonatologia – Pisa

dott.sa Laura Guerrini U.O. Neonatologia – Pisa

rianimazione

– Trascrizione riveduta dai relatori –

Antonio Boldrini:

Darò un taglio più pratico a questo argomento che riguarda il nostro mestiere che ci pone ai confini della vita, creandoci grossi problemi che non risolveremo stasera, ma dei quali discuteremo assieme a voi. Una cosa che volevo far presente è che un obbiettivo primario dell’Organizzazione Mondiale della Sanità è quello di cercare di garantire il miglioramento qualitativo della vita della mamma e del bambino.

Ma noi sappiamo anche com’è la situazione nazionale, attualmente, che cosa è successo negli anni ’60 quando vi erano circa 1 milione di nati all’anno fino agli anni 2000 quando c’è stato il crollo di quasi il 50% della natalità. Gli effetti di questo crollo li abbiamo visti tutti e specialmente gli insegnanti lo sanno bene.

Questo ha fatto sì che il neonato sia diventato un bene ancora più prezioso, lo è sempre stato, ma ora è preziosissimo, se si può dire così. Questo ha comportato anche un’aspettativa di vita e di qualità della vita stessa sensibilmente maggiore; pensiamo a certe frasi che si sentivano 50-60 anni fa: “siete giovani, ne farete altri”.

Adesso si accentuano sempre più le esigenze, per chi si appresta ad affrontare una gravidanza, ad avere delle garanzie. Ora è altrettanto chiaro che da quando ci siamo posti il problema di cercare di capire meglio il neonato, questo ha portato non solo a considerare questo individuo un soggetto che non poteva essere pensato come un piccolo bambino; da anni, da circa un secolo, il bambino non era più considerato un piccolo uomo, ma un’entità a sé degna di un’attenzione particolare al punto che chi si occupa di questo individuo ne ha preso anche il nome di neonatologo.

Tutta questa cultura ha portato poi anche alla traduzione in pratica di tecnologie particolarmente avanzate che hanno consentito sopravvivenze fino a qualche anno fa addirittura impensabili. Una nostra paziente, che adesso ha quasi 3 anni, nacque di 23 settimane, fino a qualche anno fa si considerava la possibilità di sopravvivenza non al di sotto delle 28 settimane, si parla di una bambina piccolissima le cui dimensioni superavano di poco quelle di un comune termometro. Questo è l’aspetto per noi gratificante, migliore, che, però, ci deve far riflettere.

Di fronte a queste situazioni splendide bisogna stare attenti ai trionfalismi, perché i trionfalismi si portano dietro quello che è poi il rovescio della medaglia. Rovescio della medaglia rappresentato dal fatto che, di fronte a questi successi, si instaurano aspettative di vita tali per cui, accettare l’eventuale fallimento come la morte o la sopravvivenza con gravi handicap e sequele neurologiche, diventa sempre più difficile.

Allora quando ci si presenta un neonato ai confini di quella che è la nostra possibilità e anche la nostra conoscenza, è chiaro che ci si pongono tante domande. Una delle domande che ci poniamo è anche questa: «se in tutti i casi l’intervento medico rappresenti sempre il miglior interesse per questo paziente particolarissimo, per questo neonato». Ci possono essere tanti comportamenti, da quello più classico dell’eutanasia, all’astensione completa dall’assistenza (“guardo ma non intervengo” o addirittura “lasciamolo morire in pace”).

Ci può essere un altro modo di comportarsi che invece è tipicamente “aggressivo”: non si accetta in nessun modo la morte, la si affronta al punto tale da dimenticarsi che il paziente sta diventando un campo di battaglia, è il classico accanimento terapeutico. Ma c’è anche un altro modo che può essere quello di considerare la vita, sicuramente un bene supremo, ma non un valore assoluto per cui possiamo accettare la possibilità, l’inevitabilità della morte. Noi la traduciamo nell’attivarci per una rianimazione, ma disponibili anche a interromperla. Cosa dice la legge. Noi viviamo in una nazione che ha le sue leggi, magari discutibili, ma che ci sono.

Innanzitutto sappiamo che è vietata l’eutanasia dal codice penale e anche dal codice deontologico che riguarda noi sanitari. Codice che dice, a noi medici, che dobbiamo proseguire una terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile, cioè fino a quando non sia accertata la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo, quella che si chiama la morte cerebrale.

Abbiamo accennato all’accanimento diagnostico. Questo come si esprime: sempre secondo il codice deontologico si configura l’accanimento diagnostico quando ci ostiniamo in trattamenti dai quali non si può fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della qualità della vita.

Com’è che si può realizzare nel nostro settore. In tanti modi, sicuramente quando io sono consapevole che l’atto che sto per compiere è di comprovata inefficacia. Oggi sempre di più, nel nostro settore, cerchiamo di orientarci verso le evidenze, le prove. Quando addirittura io col mio agire provoco una sofferenza a questo paziente, ancora maggiore di quella che poi è una sua situazione già grave.

Quando voglio dare impressione di esagerata efficienza, o per compiacere le richieste pressanti dei parenti di far di tutto pur sapendo che non otterremo nessun risultato. Fortunatamente quest’ultimo punto non si verifica più: quando si vogliono sperimentare terapie senza vantaggio alcuno per il paziente stesso all’insaputa dei genitori. Da qualche anno ci vogliono le autorizzazioni e, soprattutto, ci vuole il consenso informato dei genitori.

Però c’è da dire che allo stato attuale in Italia non c’è nessuna normativa che consenta di interrompere l’assistenza a un neonato. Anche quando si configura la possibilità di una grave, gravissima compromissione della qualità della vita. Questo perché il Codice Penale tutela la vita, tutela la salute, ma demanda allo Stato di occuparsi della qualità della vita di un uomo.

Quindi noi non possiamo interrompere niente; allora alla luce della realtà legislativa nella quale ci troviamo, è chiaro che quegli atteggiamenti che avevo richiamato, l’eutanasia, l’omissione di soccorso, l’accanimento terapeutico, sicuramente non sono praticabili. È giustificabile accettare l’inevitabilità, l’ineluttabilità della morte? Come viene considerato il nascituro dal Codice Civile?

Il Codice riconosce per il concepito alcuni diritti che però sono subordinati alla nascita. Praticamente il diritto civile considera la vita prenatale una speranza di vita reale, però, alcuni diritti sono riconosciuti; ad es. quello di successione, non solo al nascituro, ma addirittura la nascituro non concepito. Di fatto pre acquisire la capacità giuridico occorre che questo signore sia nato e sia vivo, anche senza vitalità.

Cos’è la vitalità: è la possibilità di sopravvivenza extrauterina. Ci sono dei grossi problemi ai quali ci troviamo di fronte quando, per esempio, siamo chiamati per una interruzione volontaria di gravidanza. La famosa legge 194 consente alla gestante, nei primi 90 giorni, di interrompere volontariamente la gravidanza quando questa comporti serio pericolo per la sua salute fisica o psichica.

Ma l’IVG è concessa anche dopo i 90 giorni. È concessa quando la gravidanza comporti grave pericolo per la vita della donna oppure quando siano accertati processi patologici o stati malformativi del nascituro che determinino grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.  L’art.7 della stessa legge recita che “ quando sussiste la possibilità per il nascituro di una vita autonoma allora l’IVG può essere fatta nel caso della lettera A”, mentre se il feto è malformato, ma ha possibilità di sopravvivenza, il medico è tenuto ad adottare ogni misura idonea a salvaguardare la sua vita.

Quindi è evidente che questa legge sposta l’equilibrio madre-feto nei primi 90 giorni a favore della madre, ma man mano che procede la gravidanza lo sposta a favore del nascituro, fino a imporre a noi di salvaguardare la sua vita quando vi sia possibilità, sottolinea la legge, di vita autonoma.

Questo ci introduce a un altro grosso problema, forse il punto focale, il concetto di vitalità: quand’è che c’è questa possibilità di vita autonoma? Quali sono i limiti e se esistono dei dati oggettivi per definirla questa potenzialità di sopravvivenza. Dobbiamo dire che questo della vitalità è un concetto tempo-luogo dipendente, molto condizionato da queste famose risorse umane e tecnologiche.

Parliamoci chiaro, se Giorgia, che è nata tre anni fa in un centro di terzo livello di terapia intensiva a 23 settimane e del peso di ca. 500 grammi, è sopravvissuta, sarebbe sopravvissuta se fosse nata in un ospedale a Malindi in Kenya dove non ci sono risorse umane ma, soprattutto, non ci sono risorse tecnologiche disponibili? Non possiamo dire che a 23 settimane sopravvivono tout-cour, ma bisogna dire anche dove c’è la possibilità che questo avvenga. Diventa difficile, se non impossibile, la stessa definizione normativa, rigida e che possa avere una validità generale, del concetto di vitalità.

Certamente ci sono dei fattori pesantemente condizionanti, uno lo abbiamo già nominato, è quello dell’età gestazionale e poi la concomitanza della presenza di malformazioni. E allora cosa possiamo dire su questo problema che poi è il problema: ci sono tante indicazioni in letteratura.

I giapponesi hanno posto il loro limite di vitalità a 22 settimane completate, la stragrande maggioranza della letteratura americana e europea riporta nessuna possibilità di sopravvivenza al di sotto dei 154 giorni (qualche anno fa si parlava di 180), 22 settimane. Si dà una possibilità per quelli che nascono tra la 21 e la 22ma settimana e 6 giorni (154-160 giorni); cominciano a comparire delle percentuali di sopravvivenza ad età gestazionali successive.

Nel 1978 i “sacri testi” che per noi medici sono quelli americani, ci dicevano che se nasceva un bambino sotto il chilo di peso era addirittura non etico cercare di farlo sopravvivere, di rianimarlo, perché quasi tutti morivano e se non morivano avrebbero avuto senz’altro dei gravi handicap.

Port Royale a Parigi, uno dei più importanti centri europei di Neonatologia, non accettava bambini sotto il chilo. Se noi fossimo stati così rigidi una nostra cara amica che pesava 710 grammi nel 1978, e adesso è una brava scrittrice, sarebbe rimasta sotto la mannaia di questo cut off. La mentalità latina è molto meno rigida di quella anglosassone riguardo ai limiti entro i quali intervenire.

Questi sono problemi enormi e allora permettetemi di citare una frase di Stan Lee, l’ideatore dell’Uomo Ragno, che fa dire al suo acerrimo nemico: « … da un grande potere derivano grandi responsabilità». Noi non abbiamo questo grande potere, ma sicuramente abbiamo grandi responsabilità.

Laura Guerrini:

Quello che vorrei proporvi è il frutto di  alcune riflessioni scaturite da questi anni di lavoro in un reparto di Terapia Intensiva Neonatale durante i quali ho sentito l’esigenza di approfondire alcune tematiche. Il professor Boldrini ha terminato la sua relazione mettendo in evidenza come da un grande potere derivino grandi responsabilità; bene, riprendendo questo passaggio finale credo che si possa dire che non esiste un neonatologo (spero) che si senta un supereroe ma ciascuno di noi è sicuramente consapevole di dover affrontare dei superproblemi.

Infatti, se andiamo a vedere quali sono le questioni di tipo etico con le quali ci dobbiamo confrontare nel nostro lavoro ci rendiamo conto che queste rappresentano veramente un fardello molto pesante da portare sulle spalle, fardello col quale ci dobbiamo raffrontare praticamente ogni giorno e che, a mio avviso, sono ulteriormente aggravate da nuove difficoltà.

Queste nascono in parte dal progresso scientifico (e quindi dalla possibilità di far sopravvivere bambini di dimensioni fino a qualche anno fa impensabili), in parte anche dalla trasformazione degli ospedali in aziende, cosa che può diventare un problema nel momento in cui si sviluppa una mentalità troppo manageriale con conseguenti calcoli economici a volte difficilmente compatibile con la tipologia dei nostri pazienti.

Non va sottovalutato poi il fatto che è cambiata anche la figura del medico e dalla vecchia concezione paternalista, nella quale era solamente il medico a decidere quale fosse il miglior atteggiamento terapeutico nei confronti del paziente, si è passati a quella che viene definita come alleanza terapeutica nella quale deve essere dato ampio spazio alle richieste dei pazienti, chiedendo quindi ai medici di creare relazioni interpersonali significative.

Nell’ambito della Neonatologia tali relazioni assumono un carattere particolare perché oltre a doverci riferire al piccolo paziente, il neonato, dobbiamo comunicare  anche con la famiglia, che in realtà è la prima referente per i neonati. Proprio dalla famiglia però possono nascere altre difficoltà perché essa può avere delle aspettative non adeguate, essendoci oggi un po’ di confusione su cosa si può chiedere alla medicina o su cosa ci si può aspettare o non aspettare da essa e anche perché i genitori sono spesso in possesso di informazioni (ricavate da Internet o da riviste più o meno specializzate)  non sempre corrette.

La società inoltre aggiunge ulteriori ostacoli con la crescente mentalità di una “medicina dei desideri”: oggi non solo si tende a pensare che tutto ciò che uno desidera debba essere esaudito ma in più i modelli da cui si derivano i desideri sono quelli della perfezione, del assoluto benessere psico-fisico e, purtroppo, non possiamo garantire per i nostri bambini l’adeguamento a tali modelli.

Non va poi sottovalutato l’aspetto legale, ovvero la maggiore facilità con cui oggi si ricorre a pratiche legali nei confronti dei medici, perché questo può causare una minore serenità nel lavoro. Se queste sono delle difficoltà comuni a tutta la medicina, credo che la Neonatologia abbia una peculiarità che la rende una disciplina unica perché è l’unico reparto in cui ci troviamo ogni volta a dover convivere con i due confini della vita: la nascita e la morte e purtroppo anche nello stesso paziente. Questi due aspetti devono allora diventare un punto fondamentale della nostra riflessione.

Mi sembra allora che possiamo partire da una domanda: nell’epoca in cui viviamo, i cambiamenti significativi che si sono verificati nella medicina hanno come conseguenza anche un cambiamento della nostra vita?

Per rispondere a questa domanda vorrei partire da una definizione della bioetica un po’ diversa da quella che conosciamo e che presenta la bioetica come un’attività filosofica: “La bioetica è la coscienza critica della società tecnologica…. Il termine “coscienza critica” indica il livello di chiarificazione e di valutazione morale dello specifico contenuto pratico e teorico introdotto dalle tecnoscienze… la bioetica si configura come un’attività filosofica… poiché le domande (oggetto formale) che investono le tecnoscienze (oggetto materiale) sono di natura filosofica e riguardano il significato della costruzione dell’identità umana all’interno della azione tecnologica”(1).

La bioetica cioè non è una valutazione delle azioni compiute ma deve essere una coscienza critica cioè una filosofia che pone alle tecnoscienze le domande di senso legate alla figura di uomo che si vuole raggiungere in questa società tecnologica.  Questa definizione presenta, a mio avviso, una grande novità: passa dal “come ci si deve comportare” al “perché” è bene fare certe scelte.

Il come comportarci è un po’ la filosofia della bioetica nordamericana: il principialismo, che di fatto nasce come  una specie di manuale di istruzioni: di fronte a situazioni limite fornisce indicazioni su come poter agire in concreto. Chiedersi il perché significa invece fare un’attività di tipo speculativo e credo che in medicina, soprattutto nel terreno dell’emergenza qual è quello in cui operiamo, sia fondamentale domandarsi come è coinvolta la persona umana, perché le azioni che noi compiamo mettono proprio in evidenza l’idea che abbiamo della persona, la dignità che le attribuiamo e il valore che ha per noi.

Ma attenzione perché quando parliamo di persona non parliamo solo del paziente, a cui rivolgiamo le nostre attenzioni, ma anche di noi stessi (2). Infatti le persone coinvolte nel nostro lavoro sono varie: il neonato, la sua famiglia, gli operatori sanitari e, se è sicuramente difficile conciliare i bisogni di tutti, diventa fondamentale interrogarci su qual è la nostra visione dell’uomo, sia esso il paziente, sia l’operatore sanitario che con lui si deve confrontare. Vi propongo allora la visione dell’uomo secondo il modello “personalista” nel quale la persona è il punto di riferimento di tutto il nostro agire ed ogni individuo appartenente alla specie umana è persona.

Da questa premessa deriva che ciò che costituisce il valore della persona è semplicemente il fatto di esserci e non la capacità che può avere di esprimere la sua umanità, la quale in genere coincide con quella che viene definita la razionalità.  A mio avviso ciò è fondamentale, perché senza questo presupposto possiamo correre il rischio di dire “uomo” pensando in realtà ad un corpo, il quale però può evolvere o ammalarsi.

Quello che rimane sempre invece è l’umanità, anche quando può essere difficile da percepire (e nei nostri pazienti ci dobbiamo confrontare non eccezionalmente con questo dato). Ribadisco allora che la vita è un valore fondamentale ma non assoluto. Fondamentale perché rappresenta la base per poter godere degli altri valori ma non assoluto, poiché assoluto è il rispetto della persona.

Si potrebbe allora introdurre un concetto un po’ nuovo per la medicina: la reciprocità, che non significa semplicemente “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, ma in maniera molto più profonda palesa l’assoluta uguaglianza fra io, operatore sanitario, e il mio paziente riconoscendo che non esiste una differenza di valore.

Il medico allora cambia decisamente il suo ruolo; non è più un tecnico ma prima di tutto è un uomo. Se è vero che le macchine ci curano, sicuramente è solo l’uomo che può prendersi cura di noi; allora avviene l’evoluzione tipica della medicina contemporanea dal preoccuparsi, che vuol dire curare ma che può sfociare nel fare semplicemente tutto il possibile, al prendersi cura.

In netto contrasto con la visione personalistica troviamo quella utilitaristica, in realtà molto presente oggi. Secondo l’utilitarismo ciò che attribuisce dignità alla persona è l’autocoscienza e il desiderio, quindi – e queste sono parole di Singer che è uno dei pensatori più conosciuto di questo modello – vecchi, handicappati, neonati, anziani che non hanno reale autocoscienza non sono persone.

Esistono allora esseri umani che non sono persone ed esseri non umani che lo sono. Sempre secondo Singer può essere più grave uccidere uno scimpanzé piuttosto che un essere umano gravemente handicappato. Egli sottolinea ancora come una vita di sofferenze fisiche, non riscattata da qualsiasi forma di piacere e da un livello minimo di autocoscienza, non sia degna di essere vissuta.

Appare chiaro allora come scegliere una visione di uomo piuttosto che un’altra cambi radicalmente il modo col quale possiamo vivere la nostra professione.  Dopo queste premesse vorrei passare ad alcune delle argomenti fondamentali, sempre partendo dal tema di questa sera: i confini della vita.  Come ha già accennato il professor Boldrini la vita è tutelata dallo Stato e non è un caso che proprio la legge 194 ribadisca questo concetto nel suo primo articolo (3).

Il codice di deontologia medica (4) ci richiama al dovere di tutelare la salute, la vita e la salute psichica e anche la Convenzione dei diritti dell’infanzia (5) ribadisce il concetto, mentre Jonas (1979) scrive in maniera poetica e a mio avviso molto bella che “il neonato con il solo suo respiro rivolge inconfutabilmente un DEVI all’ambiente circostante affinché si prenda cura di lui”.

Esistono poi molti altri documenti ma tra questi credo sia significativo quello del Comitato Nazionale di Bioetica (6), che affronta il problema della gravidanza e del parto da un punto di vista bioetico mettendo in evidenza come guardando questo momento dalla parte del nascituro c’è solo una risposta: il nascituro ha il diritto di nascere e c’è un dovere di aiutarlo per tutti coloro che sono in grado di farlo.

Questo diritto di nascere, una volta raggiunta la capacità di vita autonoma, deve essere riconosciuto a chiunque, ritenendo improponibile una selezione tra esseri umani in base al loro grado di salute.

Viene anche messo in evidenza come sia impossibile decidere della vita di un feto vitale se questo è malformato e presumibilmente destinato ad una cattiva qualità della vita. Dando la priorità al diritto del nascituro alla vita, questo documento sottolinea come nel momento in cui si verifichino delle situazioni in cui l’ambiente materno diventa ostile per il bambino è consigliabile anticipare il momento della nascita.

Esistono anche delle sentenze interessanti ed in particolare cito quella dell’agosto 2004 (7), che mette in evidenza come non vi sia un diritto a non nascere se non si è sani. Certo che non mi permetto di sminuire la drammaticità di certi eventi ma come medico mi interrogo sul ruolo che posso giocare in queste situazioni, cioè quando devo comunicare il sospetto (o la certezza) di uno stato malformativo.

A questo proposito vi propongo la riflessione del Comitato siciliano di bioetica:  “Nella comunicazione della diagnosi il medico trasmette il suo vissuto nei confronti dell’handicap. Se non ha una formazione umana tale da riconoscere il valore di ogni persona al di là della sua “efficienza”, trasmetterà un senso di sconforto e di fallimento, la certezza di trovarsi davanti a una condizione di “subumanità” improduttiva” (8).

Nella comunicazione quindi mettiamo in gioco il nostro vissuto e, ancora una volta, la visione che abbiamo dell’uomo, del suo valore al di la della sua efficienza. Ho accennato prima al concetto di qualità della vita, di cui tanto sentiamo parlare, anche a sproposito, e che può essere interpretato in maniera diversa. Il criterio utilitaristico porta addirittura a quantificare la qualità della vita con formule matematiche, stabilendo dei limiti al di sotto dei quali tale qualità non è più significativa e la vita non è più degna di essere vissuta.

In genere i criteri che vengono chiamati in gioco sono la mancanza di autonomia, di coscienza e la presenza di dolore, ma oggi sempre più si affacciano interrogativi di tipo economico: quanto costa alla società far vivere questi bambini?

Come già messo in evidenza si tratta di domande che a noi sembrano un po’ lontane ma se ci guardiamo intorno ci rendiamo conto che basta andare anche poco oltreconfine per constatare che si tratta di problemi reali e ben presto saremo obbligati ad affrontarli anche noi, in un contesto, quello della Neonatologia appunto, in cui la valutazione economica si scontra con la notevole incertezza diagnostica: difficilmente, specialmente nelle primissime fasi di vita dei nostri bambini, siamo in grado di poterci esprimere con una prognosi assolutamente certa (da cui chiaramente dipendono le “conseguenze economiche” della cura, o forse sarebbe meglio dire della care, di questi bambini).

Se invece lo stesso concetto lo valutiamo secondo il modello personalista il neonato è uomo e lo è anche quando è fatto di membra contorte, anche quando la sua espressione storica non avverrà mai in maniera completa. Anzi, se fossimo tentati di attribuire l’umanità in base alla relazionalità, si potrebbe riflettere sul fatto che entrare in relazione non significa semplicemente avere una socialità ma significa comunque farsi riconoscere dall’altro come una persona dotata di propria individualità.

Per assurdo, allora, proprio i bambini con handicap sono quelli che maggiormente richiedono l’attenzione della società e perciò hanno un potenziale relazionale più alto di altri (9). Inoltre se un criterio di civiltà può essere l’amore per i sofferenti (10) è chiaro che la società deve farsi carico dell’accoglienza e della protezione dei bambini sofferenti e, aspetto ugualmente molto importante, dell’accoglienza della sofferenza dei genitori: questi problemi non devono diventare le preoccupazioni della singola famiglia ma devono “ricadere” su tutta la società che dovrebbe essere capace di farli propri. In contrasto con l’aspetto della vita vi è la morte.

La morte di un paziente, ed a maggior ragione di uno dei nostri piccoli pazienti, è sicuramente uno dei momenti peggiori nella nostra professione. Essa è comunque una eventualità che rimane al di là del progresso tecnico e scientifico. E’ sicuramente un dramma per la famiglia ma posso assicurare che è sempre causa di sofferenza anche per il medico.

Io sono convinta che nel momento in cui uno di noi si accorgesse di rimanere assolutamente indifferente ad un evento come la morte di un bambino dovrebbe valutare l’eventualità di cambiare tipo di lavoro. E’ chiaro che la nostra sofferenza non è minimamente paragonabile al dramma della famiglia, però la morte è ugualmente difficile da accettare e può essere vissuta come un fallimento professionale.

Credo che un passo da fare sia di riuscire a “vivere la morte”. Può sembrare un’espressione strana, però questo “vivere” significa il riuscire a non proiettare sui bambini le nostre angosce legate all’esperienza della morte, perché solo così potremo conservare quella lucidità che ci consente di operare nel migliore dei modi e cioè con il massimo rispetto per il piccolo paziente.

Se si perde di vista questo elemento il rischio può essere, da un lato, di banalizzare il morire riducendolo ad una statistica biologica, dall’altro di drammatizzarlo  lasciandolo nel non senso (11) Mi sembra molto bella l’espressione, usata nella della Carta degli operatori sanitari (12) perché inserisce la morte nella vita, richiamando al fatto che anche nella morte abbiamo una responsabilità terapeutica importante: uguale a quella che dobbiamo esercitare in ogni altro momento del vivere umano.

Se si riuscisse a vivere la morte anche il concetto della “sospensione delle cure” assumerebbe secondo me un carattere diverso, più facilmente conciliabile con la nostra professione.

Si tratta di capire che quando la morte è ormai inevitabile e non possiamo fare altro che prolungarla in maniera precaria e penosa allora è lecito, in coscienza, rinunciare a proseguire nei trattamenti. Questo perché il dovere di salvare la vita non può entrare in collisione con il dovere di rispettare la persona e rendersi conto che non c’è più la possibilità di curare un paziente e che quindi può essere lecito sospendere le cure, può diventare addirittura un atto di umiltà.

E’ chiaramente un giudizio molto delicato, che non può essere sostituito da dati statistici o da linee guida.  Io sono molto scettica e critica sull’imposizione di linee guida e protocolli perché nella nostra professione il grosso rischio, a mio avviso, è che il nostro operato venga ingabbiato entro confini difficilmente conciliabili con la professione.

Ribadisco inoltre che sospendere le cure non significa abbandonare le terapie, ma per quello che dicevo prima, significa riuscire a conservare un atteggiamento terapeutico anche laddove in realtà abbiamo l’impressione di non servire più a nulla.

Collegato a questo tema non posso non dire due parole riguardo all’eutanasia per riflettere insieme su quanto è successo in Olanda. Nell’agosto 2004 è stato approvato un protocollo che estende la possibilità di praticare l’eutanasia ai bambini minori di dodici anni e anche ai neonati. In questo protocollo il ruolo decisionale è esclusivamente del medico curante, che deve avere il parere favorevole di un medico referente; i genitori sono tenuti completamente fuori da tutto l’iter decisionale.

Ciò che ha detto il dott. Verhagen (13) (il medico olandese promotore di questo protocollo) è secondo me degno di riflessione. Dopo aver sottolineato il fatto che in Olanda già da tempo veniva praticata l’eutanasia sui bambini il medico afferma che ogni anno circa 800 bambini vengono liberati con la dolce morte dal dolore; di questi una ventina hanno una esistenza terribile e insopportabile. La domanda che mi è affiorata spontanea dopo aver letto questa cosa è: “E gli altri 780?”. Se solo 20 su 800 avevano una simile esistenza, gli altri con quale criterio sono stati accompagnati alla morte?

D’altra parte se andiamo a vedere la legge olandese sull’eutanasia, denominata “Controllo della Cessazione della Vita a richiesta e Assistenza al Suicidio” (Aprile 2002),  vediamo che è molto particolare, perché c’è solo un articolo in cui è specificato che la richiesta di morire deve essere spontanea e ponderata, le sofferenze devono essere insopportabili e senza speranza di miglioramento e viene richiesta la necessità di un consulente; viene anche specificata una diversità di comportamento in base all’età del richiedente, dopodiché ci sono ben altri 23 articoli che non parlano più della persona che deve morire ma di quello che il medico deve fare per adempiere in maniera corretta alla legge.

L’impressione è dunque che questa non sia tanto una legge a tutela della persona che chiede un procedimento del genere, quanto una legge a tutela del medico, in modo che sappia come comportarsi per evitare qualsiasi implicazione di tipo legale. In Italia, per quanto riguarda i bambini, si può fare riferimento ad un documento molto recente (14) dove si mette in evidenza che non è lecito, né a livello clinico né etico, qualsiasi intervento di tipo eutanasico e viene anche condannata l’eutanasia a carico di bambini con handicap, proprio perché la qualità della vita non può essere un criterio per decidere se un bambino deve sopravvivere o meno.

Si sottolinea anche un aspetto che ritengo molto importante: un atteggiamento di tolleranza nei confronti di pratiche di questo tipo potrebbe limitare la ricerca nel campo della prevenzione e della cura ma anche attenuare il dovere di solidarietà sociale verso i portatori di handicap. Questo è un particolare sul quale credo che non si rifletta abbastanza e cioè la ricaduta che le leggi hanno sul comportamento sociale. Non è forse vero che oggi se una donna in gravidanza riceve una diagnosi di malformazione del feto e nonostante ciò si rifiuta di abortire viene considerata una “persona incosciente ed asociale”?

Sono allora convinta che dovremmo riuscire ad essere artefici di una vera “cultura della vita”, capace cioè di rispettare l’altro nella sua umanità. In questo contesto, resistere alla volontà di una persona che vuole essere aiutata a morire non significa venire meno al rispetto alla sua autonomia quanto piuttosto mandarle il messaggio che la sua presenza per noi è preziosa.

E’ chiaro che tutto ciò non può ricadere solo sulle singole famiglie, altrimenti si va incontro a fatti come quelli che ci  mostrano le cronache (15), ma non credo neppure che sia un impegno da supereroi dei fumetti: dovrebbe essere un assunzione di responsabilità di tutti i cittadini, ovvero di tutte le persone che vogliono vivere nella società.

Per quanto riguarda la nostra esperienza in questi anni sono stati veramente pochissimi i genitori che ci hanno chiesto di interrompere le cure. Quello che ci chiedono sempre, soprattutto quando siamo costretti a comunicare l’inevitabilità della morte, è che i loro bambini non soffrano.

Ed a conferma di come questo sia un pensiero ricorrente nei genitori vi propongo la pagina di un libro (secondo me è molto bello e da cui ho tratto numerosi spunti per un mia personale riflessione) scritto da una giornalista che ha vissuto in prima persona l’esperienza della nascita di un bambino prematuro, il suo secondogenito; una esperienza che l’autrice ha raffigurato come un vivere sulle “montagne russe” per il continuo alternarsi di ansie, speranze, crolli che caratterizzano le degenze (nel caso specifico di circa tre mesi) in un reparto di Neonatologia.

L’autrice scrive: “…Nina compie trentuno giorni e siamo di nuovo sulle montagne russe. Si ricomincia con la flebo di antibiotico. Se la glicemia non scende, dovranno farle l’insulina. –la bambina ha una ricaduta legata ad una complicazione di tipo infettivo  n.d.r.– Le hanno infilato un ago nel braccio sinistro, ma Nina ha le vene sottili come un filo da rammendo, e la cannula è uscita. Le è venuta una flebite, proprio come la mia.

Ha il polso gonfio e rosso. Che pena. Ora cercheranno una vena più robusta. La bucheranno dappertutto, come hanno fatto già altre volte. Non mi capacito di come un essere così piccolo riesca a sopportare tutto questo. Nina non si lamenta mai. Incassa iniezioni, esami, rimescolamenti, tubi in gola. Soltanto, da quando ha la febbre alta, le sono venute due occhiaie così.

Sono scure e profonde. Ho l’impressione che mi guardi e supplichi: adesso basta mamma. Lasciami andare. Non ce la faccio più a lottare in questo modo. Vorrei risponderle: hai ragione, amore mio. Adesso basta. Invece non le permetto di andarsene. Non che mi illuda di possedere il controllo sulla vita e sulla morte di mia figlia. Semplicemente mi siedo accanto all’incubatrice – non posso neppure toccarla in questi giorni -, la guardo e le ordino: «Resisti!»” (16).

E’ una maniera molto bella e molto vera di rappresentare come i genitori vivono il rapporto con questi bambini. All’inizio di questo mio intervento avevo raffigurato il neonatologo schiacciato dal peso di tutte le problematiche etiche,  ma in realtà quello che spero e credo è che, ciascuno di noi, facendo un lavoro su sé stesso, possa diventare un astronomo, in grado cioè di scrutare il cielo dove le stelle sono comunque ancora le problematiche etiche che ho schematizzato all’inizio (e che rimangono i problemi con i quali dobbiamo confrontarci e che non possiamo far finta non esistano) ma con uno strumento ben preciso e cioè il cannocchiale che nel nostro caso ha una lente particolare e cioè quella dell’antropologia: con questa lente che ci consente di avere un’idea del concetto di uomo, tutte le problematiche che abbiamo davanti diventano un po’ più chiare.

Non è semplice, però la mia esperienza mi porta a dire che quando si conosce il mondo della neonatologia succede un po’ quello che il poeta Marquetz dice accadere ad un babbo: “Ho imparato che quando un neonato stringe con il suo piccolo pugno, per la prima volta, il dito di suo padre, lo tiene stretto per sempre.” (17)

Anche noi, nel momento in cui entriamo in contatto con questo mondo, così affascinante e problematico, siamo un po’ presi per mano da questi bambini. Concludo con un passo tratto dal libro (già citato) pubblicato lo scorso anno, che raccoglie una indagine condotta a Milano in alcuni reparti di rianimazione.

Anche se sono escluse le rianimazioni neonatali, il messaggio che emerge è, secondo me, oltre che molto bello, applicabile anche alla mia realtà: “Con la vita e con la morte non si scherza. E ci sono argomenti che vanno trattati con estrema cautela, perché sono in gioco la sofferenza, il dolore, la speranza, la disperazione.[…] E quando ci si trova all’interno di situazioni di confine, anche se sono situazioni ricorrenti, nelle quali ogni scelta può determinare il futuro della vita altrui, è necessario, prima di tutto, comprendere. Che cosa richiede da un punto di vista morale, l’esercizio di un’attività così delicata e spesso anche così amara, com’è quella di un rianimatore? Non è una domanda retorica! La professionalità, la competenza, l’abilità, l’esperienza, sono sufficienti a determinare un approccio alle singole situazioni che non lasci spazio al dubbio, o a ripensamenti, se non addirittura a pentimenti? Forse, ciò che a volte viene a mancare è il tempo e lo spazio per pensare” (18).

Io vi ringrazio per la pazienza, ma soprattutto per avermi obbligato a trovare lo spazio e il tempo per pensare su queste cose. Grazie.

Note

1) A. Pessina, Bioetica – L’uomo sperimentale, Milano 2000

2) cfr. Scelte di confine in Medicina” a cura di A. Pessina , Milano 2004, 18: “Prima di procedere alla discussione sul che cosa fare o sul chi deve agire nelle situazioni cliniche di confine, quando tutto è sospeso tra la vita e la morte, è necessario ritornare a pensare sul chi è l’uomo, sia quell’uomo che ci si trova di fronte come paziente, sia quell’uomo che, come agente morale, interviene su di lui, spesso con la mediazione di vari e complessi strumenti”.

3) La Legge 194, la cui denominazione completa è “Legge per la tutela della maternità ed interruzione della gravidanza” inizia proprio dicendo all’Art. 1 che “Lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio”.

4) Infatti nel CODICE DI DEONTOLOGIA MEDICA (1998) all’ Art. 3 troviamo: “Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza discriminazioni di età, di sesso, di razza, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace come in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera.”

5) Nell’Art. 6 della “Convenzione Internazionale sui diritti dell’Infanzia” proclamata dall’ONU il 20 Novembre 1989 troviamo: “Gli Stati parti riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto inerente alla vita. Gli Stati parti assicurano in tutta la misura possibile la sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo”. (Art. 6)

6) CNB, La gravidanza e il parto sotto il profilo Bioetico, 1998

7) CORTE DI CASSAZIONE, Sentenza n. 14488, Agosto 2004:  “Sostenere che il concepito abbia un diritto a non nascere, sia pure in determinate situazioni di malformazioni, significa affermare l’esistenza di un principio di eugenesi o di eutanasia prenatale, che è in contrasto con i principi di solidarietà dell’articolo 2 della Costituzione”.

8) S. Leone; M. Lo Giudice, Maxima debetur puero reverentia ,  ISB – Acireale 2002: 43

9) Ibid.: 48-49

10) Giovanni Paolo II, Messaggio per la giornata Mondiale del Malato, 1992.

11) cfr. Scelte di confine in Medicina” a cura di A. Pessina , Milano 2004 : 14 ss

12) PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA PASTORALE PER GLI OPERATORI SANITARI, Carta degli operatori Sanitari, n° 116: “Il morire appartiene alla vita come sua ultima fase. Va perciò curato come suo momento. Interpella dunque la responsabilità terapeutica dell’operatore sanitario come e non meno di ogni altro momento del vivere umano”

13) “Già adesso l’eutanasia olandese è applicata anche ai bambini. Ogni anno la dolce morte libera dai dolori circa 800 bambini olandesi. Di questi almeno una ventina hanno un’esistenza talmente terribile, insopportabile, disperata da fare preferire la morte” (ndr: questo è quanto è stato riportato da tutti i giornali)

14) COMITATO NAZIONALE DI BIOETICA, Mozione sull’assistenza a neonati e a bambini afflitti da patologie o da handicap ad altissima gravità e sull’eutanasia pediatrica, (28/01/2005): “Ogni intervento di carattere intenzionalmente eutanasico nei confronti dei minori non è lecito né giuridicamente, né bioeticamente (…). Merita una  particolare ferma condanna l’eutanasia a carico di bambini nati con handicap, anche particolarmente severi, dato che la compromissione della cosiddetta qualità della vita, non ne giustifica in alcun caso la soppressione (…). Un diffuso atteggiamento di tolleranza nei confronti della soppressione di neonati con handicap,  e ancora di più la legalizzazione di tale prassi, oltre a costituire obiettivamente una pratica selettiva, potrebbe anche demotivare la ricerca nei confronti della prevenzione dell’handicap medesimo e potrebbe attenuare il dovere di solidarietà sociale verso i portatori di handicap e le loro famiglie” (n. 5).

15) Si fa riferimento alla vicenda apparsa sui giornali nei giorni precedenti questo incontro relativa ad un collega medico che sapendo di avere un male incurabile ha ucciso il figlio gravemente disabile ed il cui accudimento era a totale suo carico.

16) A. Sartorio, L’Arca di Nina, TEA, Milano 2003: 123.

17) G. Marquetz , Lettera di addio

18) cfr. Scelte di confine in Medicina” a cura di A. Pessina , Milano 2004: 8.