Oggi in sala il film tratto dal suo primo libro. L’autore di “Bianca come il latte, rossa come il sangue” si racconta. Le prime letture, la vocazione, il rapporto con Dio e con gli altri. E con il dolore.
Giovanni Ferrari
Sono le dieci e quaranta di mattina, prendiamo un caffè nel bar della scuola. Corridoi vuoti, aule piene. Immediatamente ci immedesimiamo in uno dei tanti ragazzi e chiediamo di farlo anche ad Alessandro. «Mi ricordo perfettamente i due giorni e mezzo passati ininterrottamente a leggere Lo Hobbit di Tolkien, il primo libro che ha aperto in me la magia della letteratura», confida. «Ero in quinta elementare e mi ricordo in che stanza lo leggevo, e che musica ascoltavo. Lì ho capito che la realtà non è solo quella che si vede ma, come direbbe Montale, ogni immagine, ogni cosa dice “più in là”».
Una lotta continua, vorace, con i libri, «per strapparne segreti, verità». Inizia così per lui una sfida radicale, un ininterrotto cercare il segreto delle cose, che lo porterà a intraprendere la nuova avventura della scrittura. «Noi a volte pensiamo di dover parlare con Dio in una maniera straordinaria, cercando di inventare chissà che cosa, mentre l’alfabeto che Dio ci ha prestato per parlare con Lui sono i talenti che abbiamo», racconta con il suo accento inconfondibile, metà siciliano e metà milanese.
«Per me scrivere e insegnare vogliono dire vivere, perché io so fare questo. È dove mi sento a casa, nel posto giusto all’interno del mondo; è una maniera di parlare con Dio, quindi di pregare e vivere, perché la preghiera è vita».
Custodire e coltivare
È chiaro fin da subito che in ballo non ci sono lezioni scolastiche più o meno seducenti o metodi di scrittura più o meno accattivanti: entra in gioco un concetto più ampio, che coinvolge ogni sottile sfaccettatura della vita. Come quello della vocazione. «Si tratta semplicemente di rinascere ogni giorno», racconta il Prof2punto0 (questo il suo nome su twitter). «Mi viene sempre in mente la scena originaria della vocazione dell’uomo, quella di Adamo, posto nell’Eden per custodirlo e coltivarlo».
Custodire e coltivare sono due verbi che ama particolarmente, soprattutto nella loro singolare sequenza: «Custodire significa amare: tu vedi il seme della rosa e, siccome sai che diventerà una rosa, fai di tutto perché si creino le condizioni per cui questo accada». Una lotta quotidiana per aiutare le cose a compiersi.
«Coltivare vuol dire che non tutto è già detto, ma che il Creato ha delle possibilità, tutte da scoprire». Come io ogni giorno custodisco le ventiquattro ore, le persone e le cose che incontro? Come coltivo i miei talenti, il mio stare al mondo, in quelle ventiquattro ore? «Se uno fa questo – spiega –, si mette in vera relazione con le persone e con le cose: in questo modo, inevitabilmente, la realtà ha un rimando fortissimo, e diventa più semplice comprendere quale posto puoi occupare nel mondo».
Così, le testimonianze di molti della storia (dal cantante del momento all’amico di sempre, dal poeta di centinaia di anni fa al professore incontrato durante un’ora di supplenza) diventano fondamentali per una crescita personale. Un valore aggiunto che non possiamo permetterci di perdere.
«Noi siamo sin dal grembo delle nostre madri degli esseri che costruiscono sé stessi nel tempo: siamo storici. Ci servono le storie per capire qual è la nostra, la quale però non possiamo sapere in anticipo. Quindi, c’è questo equilibrio instabile di desiderio di sapere come va a finire, accompagnato dal fatto che non lo possiamo veramente prevedere». Un rischio continuo. Esiste però qualcosa che lega migliaia di uomini, un enorme fil rouge storico: si tratta della «sete di destino, del desiderio di destinare la propria esistenza».
Ma attenzione: «Il relativismo culturale in cui siamo immersi ha un effetto devastante su questo, perché per esso non esistono storie più valide di altre. È interessante, invece, vedere che lo stesso cristianesimo è una storia: è la storia di Gesù Cristo, non è chissà quale teoria. È l’unica storia di cui sappiamo che, nonostante le cadute e le ferite, andrà bene».
Bianca come il latte, rossa come il sangue è diventata subito un bestseller internazionale; tradotto e distribuito in oltre venti paesi. Ma per D’Avenia il successo non è sinonimo di quel milione di copie vendute. È invece un continuo amore, dato e ricevuto, soprattutto dopo la pubblicazione del romanzo.
«Tra tutte le storie di lettori e persone intraviste e conosciute ne ho una che mi è rimasta particolarmente impressa. Una ragazza malata di anoressia mi ha scritto il giorno in cui è stata dimessa dall’ospedale. Una dottoressa le aveva lasciato sul comodino il mio libro che, rimasto chiuso per molti giorni, le ha fatto inaspettatamente compagnia in una notte insonne. Vedere raccontato il dolore con speranza ha sbloccato in lei qualcosa, spingendola a reagire».
Nasce così uno scambio di mail che interroga e accompagna entrambi. Ma dopo un mese di silenzio, D’Avenia riceve un messaggio dalla madre della ragazza: «Mi aveva scritto per dirmi della morte della figlia. Nel ringraziarmi, ricopiava una pagina del diario della figlia dedicata al mio libro e alla corrispondenza con me». Alla fine di questa pagina, una frase del romanzo: «Proprio quando ci sentiamo più poveri, la vita, come una madre, sta cucendo per noi il vestito più bello». La conferma che quel libro andava scritto.
Una ricerca personale
Ne è valsa senza dubbio la pena, dice D’Avenia, anche se tutto ciò comporta una enorme responsabilità. «Essere responsabili vuol dire provare a essere all’altezza di quello che la realtà ti chiede: la realtà chiama e tu devi rispondere». In uno dei suoi libri più conosciuti, Diario di un dolore, C. S. Lewis afferma che «il dolore è una crepa in mezzo alla parete uniforme della razionalità umana». È un vuoto, un qualcosa di difficile da ricostituire, come emerge dalla storia tra Leo e Beatrice (protagonisti di Bianca come il latte, rossa come il sangue), segnata da una ferita a volte insopportabile e insostenibile.
Ma il dolore «va letto in chiave di compimento. Io credo ci sia un dolore buono, quotidiano, – dice D’Avenia – che è il doversi un po’ espropriare di noi stessi, vincendo il proprio egoismo, il proprio limite nella capacità di amare». Così, cambia anche il modo di entrare in classe, di presentare un autore. Un modo più faticoso di affrontare il quotidiano, ma decisamente più affascinante.
Per quanto riguarda l’altro tipo di dolore (quello che non ci scegliamo noi), «non ci sono uomini che lo abbiano risolto. C’è solo un fatto, che è quello della resurrezione di Cristo, dove morte e dolore non hanno l’ultima parola». Si tratta, secondo D’Avenia, dell’unica vera possibilità di integrare il dolore e la morte all’interno di un fatto dove «a vincere è l’amore». Questa è una ricerca che «ciascuno fa personalmente e autonomamente, a cui io mi aggrappo con tutte le mie forze perché altrimenti non saprei gestire e affrontare sconfitte e dolori».
Dopo una lunga operazione di produzione e riprese (condivisa dallo stesso D’Avenia con molti lettori, attraverso un continuo aggiornamento sui social network), è ora nelle sale di tutta Italia il film prodotto da Lux Vide e Rai Cinema tratto dallo stesso romanzo.
Un lavoro certosino
Un lavoro che ha affascinato l’autore, che racconta: «Mi sono goduto lo spettacolo di gente che apportava a qualcosa di mio la sua capacità di prendersi cura del proprio pezzo di giardino dell’Eden». Una storia che, nata privatamente, si ricrea dal contributo di molti collaboratori. «La cosa più bella è stata vedere che una storia che avevo inventato metteva in moto la vita interiore e la professionalità di tante altre persone. Non era più una cosa solo mia, ma si arricchiva dello stare al mondo degli altri. Ho sofferto perché molte volte vedevo “il mio territorio” invaso, ma si trattava semplicemente di ripensare i personaggi dandogli nuove sfumature».
Tantissimi dettagli che solitamente non si notano, nascono invece da un lavoro certosino di molti, come quello della scenografa che «ha trasformato una città intera con questo gioco di colori». Bianco e rosso. Ma anche la scelta degli attori non è stata fatta in modo casuale: ognuno aveva un motivo che l’ha portato in quella storia. L’attrice francese Gaia Weiss, non ancora particolarmente nota nel Belpaese, ha perso la cugina a causa di una feroce leucemia e, per prepararsi a interpretare la rossa Beatrice, ha letto e riletto le sue annotazioni giornaliere, regalatele dallo zio per l’occasione.
Come riconosce D’Avenia, «quando ci prendiamo cura (ossia custodiamo e coltiviamo) del nostro pezzo di giardino, inevitabilmente succede che quel pezzo diventa casa anche di tanti altri. Immagina che posto potrebbe essere il mondo!».