di Giorgio Israel
Le cronache quotidiane sulla scuola ci consegnano le solite giornate di ordinaria follia. Un professore acconsente volentieri a farsi una canna con i suoi studenti e a farsi riprendere per Youtube. Viene sospeso ma i suoi allievi lo difendono e le famiglie al più bofonchiano. Una professoressa viene messa sotto accusa perché “troppo severa” e “stressa” i poveri figlioletti e le famiglie sollecitano accanitamente un’ispezione ministeriale, mentre il preside e i colleghi tacciono.
Al contrario, sulle statistiche fatte mediante “somministrazione” di test che non sono affatto al riparo da critiche, bisognerebbe andarci cauti. D’altra parte, qualsiasi buon insegnante sa da un pezzo che la scuola e l’università italiane sono ridotte a colabrodi da cui filtrano migliaia di ignoranti tanto crassi quanto presuntuosi e arroganti. Ma pare che questi pareri non contino. Fanno testo soltanto le statistiche, anche se fatte da incompetenti filtrati dal colabrodo di cui sopra.
Come non interessa affatto approfondire le cause dello sfacelo: il permissivismo, l’assenza di disciplina e di rigore, le norme che consentono di andare avanti senza essere mai penalizzati o fermati e di scegliersi un paio di materie da non studiare (tra cui, manco a dirlo, la matematica), l’afflusso di docenti sempre più impreparati come conseguenza delle infornate di “precari” imposte dai sindacati, l’indecente sistema di reclutamento mediante le ineffabili Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario, le pessime “indicazioni nazionali”, il crollo del livello dei contenuti dell’insegnamento, la qualità decrescente dei libri di testo come conseguenza della delega di fatto della stesura dei programmi alle case editrici, ecc. ecc.
Soprattutto non si dice, a chiare note, che per nutrire qualche speranza di far riemergere a galla la scuola occorrerebbe spezzare con decisione la perversa triade che la tiene sotto controllo: i sindacati, la burocrazia ministeriale e le confraternite dei pedagogisti che occupano trasversalmente il ruolo di consulenti indipendentemente dai governi al potere.
Sono anche numerosi i libri che hanno denunciato questa catastrofe, hanno analizzato le cause e indicato dei rimedi. A parte il mio recente Chi sono i nemici della scienza? (Lindau, 2008) – cortesemente recensito qui da G. O. Longo – va ricordato l’ottimo libro di Lucio Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola? (Feltrinelli, 2001). Ed è facile constatare che gli stessi mali si producono nello stesso identico modo in altri paesi europei.
Si legga, ad esempio il libro di Liliane Lurçat, Vers une école totalitaire, La destruction de l’enseignement élémentaire et ses penseurs (F.-X. De Guibert, 2001) che denuncia il rischio di una «scuola di massa disegnata dai pedagogisti che ispirano le decisioni ministeriali con l’ambizione di rivoluzionare la società iniziando con i bambini».
Il mezzo per realizzare questo fine, dice Lurçat, è appunto «il pedagogismo, cioè la pretesa di fare della pedagogia un “in sé” superiore a tutte le discipline». Assieme al celebre matematico Laurent Lafforgue, Lurçat ha scritto un altro interessante libro: L. Lafforgue, L. Lurçat, La débâcle de l’école. Une tragédie incomprise (F.-X. De Guibert, 2007). Sul fronte della Spagna, si legga A. Delibes Liniers, La gran estafa. El secuestro del sentido comun en la educación (Madrid, Grupo Unisón ediciones, 2006). Stessi problemi, stesse analisi, stesse proposte per iniziare a rimediare.
Niente. Si preferisce lo scandalo banale, il clamore, le chiacchiere e il ricorso ai soliti luoghi comuni impartiti proprio da coloro che hanno combinato il disastro. Nel dedicare una paginata alla catastrofe educativa il Corriere della Sera non ha trovato di meglio che dare spazio a una proposta proveniente dall’Inghilterra e cioè di liberare i ragazzi dai compiti a casa perché, poveretti, sono stressati… Sul medesimo Corriere della Sera (16 novembre 2007) Massimo Piattelli Palmarini aveva descritto molto bene la situazione. Vale la pena di citare per esteso:
«Il caso della matematica è esemplare. Dopo aver tentato di tutto per renderla più accessibile ed intuitiva, compresa la sciagurata riforma chiamata New Math, nella quale tutto si basava sulle nozioni (supposte) elementari dell’insiemistica, e dopo aver introdotto nella classe di matematica bilancette, palloni gonfiabili, forbici e cartone (la tanto incensata manualità), si è dovuto constatare che i risultati erano modesti. Allora si pensò di espellere completamente le operazioni aritmetiche e far leva sulle calcolatrici tascabili.
Ne uscivano ragazzi schiavi dell’elettronica e incapaci di ragionare in astratto. Molte piccole e grandi riforme ne sono seguite, ma si constata ancora oggi, nei principali dipartimenti universitari di matematica, la strapresenza di giovani studiosi provenienti dall’India, Giappone e Corea. Più della metà dei dottorati superiori in matematica nelle università americane vengono conseguiti da cittadini di altri Paesi, in prevalenza del lontano Oriente.
Durante una mia recente visita a Seul ho constatato che ragazzi e ragazze di dieci o dodici anni trovano perfettamente normale stare a tavolino cinque o sei ore al giorno, dopo la scuola, per fare i compiti. Da noi e negli Stati Uniti, invece, è emerso il concetto che non bisogna mettere mai un ragazzo di fronte a un insuccesso. La resa di conti, inevitabile, viene rimandata a sempre più tardi, magari agli inizi della professione.
Anche nei nostri porti si accumulano i container e forse qualche matematico inventerà un modo costruttivo di utilizzarli. L’alternativa a un vasto e vigoroso impegno, infatti, è quella di rassegnarci ad essere consumatori di prodotti inventati in Occidente e fabbricati in Oriente. Fino a quando anche l’invenzione non passerà di mano. Fino a quando quei brillanti scolari dagli occhi a mandorla raggiungeranno l’età per essere progettisti».
Ben detto. Basta consultare i programmi di matematica indiani per rendersi conto che gli studenti indiani sono avanti di tre anni rispetto ai nostri, semplicemente perché studiano la matematica come facevamo noi trent’anni fa. Ma invece di prenderne atto e ricavarne le dovute conseguenze, dalli in direzione contraria, con l’abolizione dei compiti a casa, per la felicità dei pargoletti. Felici e asini, come i ragazzi del Paese dei Balocchi di Pinocchio.
E invece di stare a sentire chi dice cose sensate si ricomincia a intervistare e a cercare la salvezza presso i protagonisti della catastrofe, i soliti pedagogisti che ormai sembrano aver fatto propria la parola d’ordine di Veltroni: far finta di essere sempre stati all’opposizione. Il caso vuole che costoro siano stati consulenti da tempo immemorabile di ministri di centrosinistra e di centrodestra (e quasi sempre loro con pochi cambiamenti) e in tale veste abbiano redatto tutte le Indicazioni nazionali incluse quelle informate all’idea della scuola “olistica” e alle scempiaggini zapateriste dell’educazione alla Convivenza civile.
Intervistati dalla stampa, a commento della catastrofe che avveniva sotto i loro occhi “innocenti”, ripropongono con una pertinacia degna di miglior causa la stessa ricetta: basta con i programmi, pensiamo all’“educazione”, basta con le materie, pensiamo alla formazione “globale”. Da quando mondo è mondo ogni civiltà degna di questo nome ha coltivato la cultura strutturandola in forma disciplinare, sia pure con l’evidente mutazione storica dei confini e anche delle definizioni delle discipline.
Costoro vogliono introdurre una rivoluzione epocale: ridurre la cultura a una melassa indistinta in cui le conoscenze sono soltanto un sottoprodotto accidentale dell’ “educazione”, manco a dirlo impartita secondo i precetti dei pedagogisti, supercasta trasversale che sarebbe stata preposta – non si sa in nome di quale diritto naturale – al controllo complessivo del processo di formazione.
La lettura dei programmi delle varie formazioni politiche che si presentano alle elezioni è alquanto deludente sul tema della scuola. A quanto pare, un tema che è centrale per il futuro della nostra società non appare degno di considerazione. Sarebbe tuttavia bene che al mondo politico e al futuro governo fosse chiaro che, ove venisse riproposta – su consiglio dei soliti noti – la solita indigesta zuppa pedagoghese, a base di autoapprendimenti con contorno di educazione all’affettività in un contesto invariato di dittatura burocratico-sindacale, non ci si dovrà stupire di trovarsi di fronte a un malcontento e a una disaffezione senza fondo, la cui dimensione sfugge a causa del filtro nei confronti della realtà esercitato dalla confraternita dei consiglieri di cui sopra. E le critiche saranno senza sconti.
(A.C. Valdera)