Che in via Padova a Milano, affianco a manifesti conclamando alla “lotta proletaria contro l’imperialismo yankee”, vi sia in bella mostra un enorme graffito “Bush assassino!”, non sorprende più di tanto. Fa parte della sottocultura d’una certa sinistra rivoluzionaria, che proprio in quel quartiere ha dato vita a svariati gruppi anarchici, in primis il famigerato centro sociale Leonkavallo. Quando, però, una rivista come Famiglia Cristiana si permette di contrapporre alla figura di Giovanni Paolo II quella del presidente Bush, chiedendo ai suoi lettori di prendere posizione per l’uno contro l’altro, allora vuol dire che l’anti-americanismo ha scavalcato i limiti dell’estrema sinistra e comincia a infettare ambienti cattolici ritenuti moderati.
Dicono che il comunismo sia morto. L’anti-americanismo, però, continua impavido. Viene il sospetto che la macchina propagandistica sovietica sia sopravvissuta alla caduta del Muro.
Il sospetto volge a certezza quando consideriamo che l’anti-americanismo ha un chiaro contenuto ideologico. Screditando gli Stati Uniti si cerca di colpire alcuni principi da essi rappresentati: il diritto di proprietà privata, la libera iniziativa, le disuguaglianze sociali, il sano consumismo, il concetto di cultura occidentale, e via dicendo. Cioè proprio quei principi che si contrappongono all’ideologia comunista.
Negli ultimi tempi, la campagna anti-americana ha fatto segno soprattutto in ambienti cattolici, al punto che una rivista ha potuto titolare il servizio di copertina “Si può essere buoni americani e buoni cattolici?” [Tempi, 12-20 marzo 2003] È chiaro che i fautori della campagna vorrebbero che la risposta fosse negativa. Manipolando alcuni valori cari ai cattolici, come l’amore al prossimo e la solidarietà, questa propaganda dipinge la posizione americana come fondamentalmente non cattolica e, di conseguenza, gli USA come “l’impero del male”, rovesciando pertanto la situazione precedente che vedeva l’URSS in questo ignobile ruolo.
Questo risultato è reso possibile perché, purtroppo, è proprio in campo cattolico che si risente di più la mancanza di punti di riferimento, di criteri oggettivi per analizzare il problema americano, lasciando molti fedeli inermi davanti a tale propaganda.
D’altronde, l’incompleta comprensione del problema americano è causa di discrepanze in certi ambienti di centro-destra.
Sempre attenti ad offrire ai nostri lettori criteri per analizzare l’odierna situazione alla luce della dottrina cattolica e delle grandi categorie spiegate dal prof. Plinio Corrêa de Oliveira nel suo capolavoro Rivoluzione e Contro Rivoluzione, nonché ai fenomeni che, in un modo od altro possano interessare alla grande lotta fra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, abbiamo scelto di dedicare questo numero di Tradizione Famiglia Proprietà ad un’analisi approfondita del problema americano. Vista l’enorme importanza assunta dagli Stati Uniti nella scacchiera internazionale, questa analisi riveste un’importanza capitale.
Come è che lo spirito americano come è oggi reagisce di fronte ai problemi attuali? In quale direzione si muove la naziona americana? Il presente articolo è basato su diverse riunioni tenute dal prof. Plinio Corrêa de Oliveira nell’ambito della Commissione di Studi Americani da lui costituita nel 1986.
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Quando, nel 1776, le tredici colonie americane proclamarono la loro indipendenza dalla Corona britannica, pochi fra gli abitanti dubitavano che spuntasse una grande nazione. Espressioni come “missione provvidenziale”, “destino manifesto”, “grande disegno”, frequenti nei discorsi pubblici del tempo, trapelavano l’anelo generalizzato che gli Stati Uniti fossero destinati a svolgere una grande missione in un futuro forse non tanto lontano. Lo stesso panorama geografico, sconfinato e grandioso, sembrava rispecchiare questo destino.
Alle radici della mentalità americana
La maggior parte degli uomini pubblici nonché, in modo più diffuso, della popolazione, intendevano questa missione nella prospettiva storica che aveva suscitato l’indipendenza degli Stati Uniti, figli d’una rivoluzione liberale. Nello staccarsi dalla Metropoli, l’antica colonia non aveva fatto altro che applicare in ambito socio-politico i postulati del protestantesimo e dell’illuminismo. La confluenza di entrambe correnti, sommate a importanti resti di tradizione britannica ancora presenti sul suolo americano, formarono ciò che possiamo chiamare lo spirito nazionale originario.
Il liberalismo americano assunse, però, un carattere nitidamente diverso da quello europeo. Mentre in Europa il liberalismo mostrava soprattutto la sua faccia giacobina, radicale e violenta, rappresentata dalla Rivoluzione francese, negli USA esso esibiva invece un carattere piuttosto sorridente, ottimista, moderato, amico dei lenti processi anziché dei bruschi sussulti, eminentemente pragmatico e avverso ai grandi entusiasmi ideologici.
Questa diversità proveniva anche dai rispettivi contesti storici. Mentre in Europa il protestantesimo e il liberalismo avevano dovuto debellare resti ancora possenti di Cristianità medievale, imponendosi per mezzo di aspre polemiche e sanguinose rivoluzioni, negli Stati Uniti il terreno era già spianato, non essendovi mai esista una Cristianità. Il liberalismo riuscì quindi a prosperarvi nella pace e nella concordia, evitando frette inutili, smorzando le controversie religiose e ideologiche, foggiando gradualmente un ampio consenso tendente a un peculiare stile di relativismo religioso, morale e filosofico.
D’altronde la stessa governabilità del paese esigeva questo tipo di consenso. In effetti, in campo politico gli USA costituivano una confederazione di tredici stati virtualmente indipendenti e non sempre d’accordo fra loro. In campo religioso incorporavano un’infinità di sette protestanti, nessuna delle quali poteva vantare l’egemonia. In più, i settori monarchici erano ancora sufficientemente forti da poter opporre importanti reazioni nel caso la situazione fosse scivolata troppo velocemente a sinistra. I sentimenti monarchici erano, infatti, così robusti che più d’una volta si considerò la possibilità di incoronare George Washington come re. [Cfr. Minor Myers, Liberty without anarchy, The University Press of Virginia, Charlottesville, N.C., 1983, p. 84.]
Qualsiasi scontro fra le sette protestanti, o fra loro e la Chiesa Cattolica, oppure fra le diverse fazioni politiche o ideologiche, poteva compromettere la fragile stabilità istituzionale della giovane nazione. La creazione di un ambiente di mutua comprensione, di libertà religiosa e politica, di prudenza nel governare, era dunque necessaria per la manutenzione dell’unità nazionale, a sua volta conditio sine qua non per il compimento della grande missione alla quale gli americani vedevano destinato il loro paese.
L’American way of life
Da questo risultò non propriamente una filosofia, ma piuttosto un way of life (modo di vita) affabile e ricettivo, che considerava con distacco i contrasti di opinione, come essendo tipici di società arretrate; un way of life ottimista e irenico che prediligeva il pragmatismo e schivava la disquisizione teorica, sempre pericolosa in quanto facilmente suscita idee assolute e, quindi, perniciose divisioni ideologiche.
Questo way of life permise di stabilire un clima di tranquilla convivenza distante anni luce dall’ambiente europeo, endemicamente dilacerato da polemiche e da guerre. La Guerra Civile fra Nord e Sud (1861-1864), seppur cruenta, costituì appena una parentesi in questa lunga storia di concordia nazionale.
Concessivo per natura, questo stato di spirito poteva facilmente degenerare in un liberalismo sfrenato, atto a suscitare reazioni che avrebbero potuto dilacerare il tessuto nazionale, dando perfino vita a movimenti di tipo contro-rivoluzionario. Per evitare questo, lo Stato assunse la difesa della religione cristiana in genere, quale fondamento dell’ordine morale e sociale. Donde il paradosso di uno Stato costituzionalmente aconfessionale che si proclamava tuttavia apertamente cristiano, perfino incorporando nella sua vita pubblica alcune manifestazioni religiose.
Più tardi, questo way of life fu rinforzato dalla Rivoluzione industriale che, proprio perché non dovette superare gli ostacoli caratteristici delle società tradizionali di tipo europeo, si diffuse negli Stati Uniti come in nessun altro paese, suscitando una sorta di adorazione del pratico-pratico e un rigetto del pensiero teorico come essendo un non-movimento e quindi una non-vita.
Dopo alterne vicende, nelle quali non mancarono episodi marginali di persecuzione religiosa, l’American way of life finì per infettare perfino gli ambienti cattolici, dando origine al cosiddetto Americanismo, formalmente condannato da Leone XIII nel 1899.
“Nazione redentrice”
Già dagli inizi dell’ottocento, alcuni settori più radicali cominciarono a identificare la diffusione di questo way of life, nonché della filosofia liberale e relativista ad esso soggiacente, col proprio ruolo storico degli Stati Uniti. Secondo questi settori, gli USA sarebbero una nazione prescelta dalla Provvidenza per espandere il dominio della democrazia liberale [La dottrina cattolica insegna che la democrazia è di sé legittima e secondo l’ordine naturale. Quella liberale o rivoluzionaria, invece, è ugualitaria e distrugge le sane tradizioni del popolo], “liberando” il mondo dalle “oppressioni” imposte dalla civiltà medievale, e aprendo così per l’umanità una nuova era di libertà, di uguaglianza e di felicità. Sarebbe questo il novus ordo seculorum superbamente inciso sullo stemma nazionale.
Si fa largo la convinzione che gli Stati Uniti erano chiamati ad essere una redeemer nation, una nazione redentrice, missionaria cioè a livello mondiale della democrazia liberale, considerata l’unico sistema compatibile con i tempi moderni. [Cfr. Ernest Lee Tuveson, Redeemer Nation: The Idea of America’s Millennial role, University of Chicago Press, Chicago, 1968; A. Frederick Merk, Manifest Destiny and Mission in American History, Alfred a. Knopf, New York, 1963.] In varie sfumature, questa idea cominciò a stimolare interventi americani come, per esempio, in Messico nel 1836, nel 1846-1848 e poi nel 1867, che contrastarono l’influenza europea e, nella fattispecie, quella del cattolicesimo di stampo ispanico.
Il carattere missionario liberale si affermò poi con la guerra USA-Spagna del 1898, con la quale venne cancellata l’ultima significativa presenza europea nel Nuovo Continente, dando anche il colpo di grazia a ciò che restava del vecchio impero spagnolo. A questa crescente presenza politica e militare americana si aggiungeva l’invadente proselitismo di missionari protestanti che, con l’appoggio ufficiale o ufficioso del governo di Washington, cominciarono a diffondere le dottrine di Lutero nei paesi a maggioranza cattolica.
Negli stessi Stati Uniti, nonostante il clima genericamente distensivo, non mancarono episodi di intolleranza religiosa nei confronti dei cattolici ritenuti “ultramontani” o “intransigenti”. Non c’è quindi da stupirsi che gli Stati Uniti cominciassero ad essere considerati da molti europei, e particolarmente dai cattolici, un fattore sovversivo dell’ordine tradizionale.
Il secolo americano
L’ascesa degli USA al grande scenario mondiale, come alleato delle potenze vincitrici nella I Guerra mondiale, consolidò ulteriormente la loro influenza. Al di là degli aspetti politici e militari della vicenda, l’intervento americano segnò la fine dell’egemonia culturale della Vecchia Europa e l’inizio di quella dell’American way of life. Finiva la Belle Époque, cominciava l’era di Hollywood, e il mondo non fu più lo stesso.
Il vecchio continente era esausto e in rovine. L’antico ordine, rappresentato soprattutto dagli imperi austro-ungarico e tedesco, stava naufragando nella voragine della guerra. In un contrasto abilmente manipolato da certa propaganda, i giovani soldati americani sbarcarono sorridenti, ottimisti, con la faccia di un babbo che viene a mettere ordine in una baruffa di bambini. Venivano non solo per porre fine alla guerra ma, ancor di più, per cancellare una volta per tutte la stessa mentalità causante delle guerre. La propaganda li presentava come giovani sereni e ricchi, di fronte a un europeo povero, stanco, aggrovigliato in mille polemiche e complicazioni interne, conseguenze delle divisioni religiose e ideologiche.
Si diffonde l’idea che gli americani avevano trovato la formula per produrre la felicità. L’American way of life era quindi la soluzione per il mondo. Acclamato dalla propaganda, possentemente favorito dal cinema di Hollywood, diffuso dai nuovi ritmi musicali, questo modo di essere ottimista e spensierato comincia ovunque a rimpiazzare l’influenza della cultura europea radicata nel Medioevo cristiano, provocando profondi cambiamenti nelle mentalità e nei costumi.
Al cuore di questo americanismo, secondo il prof. Plinio Corrêa de Oliveira, vi era “uno stato di animo che eleva i godimento della vita terrena a supremo valore umano e cerca di concepire l’universo e di organizzare la vita in modo esclusivamente voluttuoso” [Plinio Corrêa de Oliveira, “o coraçao do sabio esta onde hà tristeza, Catolicismo, n. 85, gennaio 1958.]. Non bisogna sottolineare quanto questo atteggiamento fosse l’opposto di quello che aveva finora animato la civiltà cristiana.
Il successo materiale degli Stati Uniti, appena temporalmente appannato dal crack di Wall Street nel 1929, sembrava fugare ogni dubbio sulla validità di questa formula, destinata a durare ab aeterno.
Hanno quindi ragione gli analisti quando affermano che, considerati gli avvenimenti in profondità, la rivoluzione più sconvolgente del XX secolo non sia stata quella sovietica bensì quella americana. Prendiamo appena un esempio: la quasi scomparsa delle belle maniere aristocratiche, col conseguente appiattimento della vita sociale, è da attribuirsi più al sorriso dei divi di Hollywood che alla smorfia di Lenin o di Stalin.
L’intervento americano nella II Guerra mondiale, interpretato da molti come una sorta di crociata liberale contro i totalitarismi e, più profondamente, contro la “mentalità totalitaria”, cioè fondata su principi trascendentali, non fece che dare ulteriore impulso alla vertiginosa scalata della potenza a stelle e strisce, consolidando la sua influenza in tutti i campi.
Seguì la Guerra fredda, da molti considerata una vera e propria Terza guerra mondiale. Ancora una volta, gli Stati Uniti ne uscirono vincitori. Il crollo definitivo dell’URSS nel 1991 ha lasciato gli USA come l’unico potere egemonico alle soglie del terzo millennio. Gli Stati Uniti hanno raggiunto in questo modo un apogeo di potere politico, militare ed economico, un auge di influenza culturale, che sembra aver realizzato al di là di ogni previsione il sogno dei Founding Fathers. Non sembra esagerato affermare che gli USA sono oggi, oggettivamente, la maggior potenza che la storia abbia mai conosciuta.
A questo punto, però, è successo un fenomeno con il quale forse nessuno contava, e che spiega in profondità la martellante campagna che si è scatenata contro l’America.
Una inaspettata resistenza psicologica
Come abbiamo spiegato sopra, le rivoluzioni protestante e liberale avevano trovato negli Stati Uniti terreno più fertile che altrove, trasformandolo nel paese “missionario” per eccellenza di questi errori. Per il proprio dinamismo del processo rivoluzionario [Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, Roma, Luci sull’Est, 1988.], gli Stati Uniti avrebbero dovuto scivolare verso manifestazioni sempre più radicali dei postulati protestanti e liberali, arrivando al socialismo, al comunismo e perfino all’anarchia. Tanto più che, non essendovi reazioni di tipo contro-rivoluzionario che potessero porvi un freno, il terreno sembrava spianato. Ma non fu così.
Per motivi che debbono essere ancora meglio studiati, l’americano medio ha invece attraversato tutte le vicende del secolo XX fermamente ancorato nella sua way of life, rifiutandosi di accompagnare le successive trasformazioni. Mentre negli altri paesi il processo rivoluzionario radicalizzava i suoi postulati ugualitari e libertari, larghe fasce dell’opinione pubblica americana hanno cominciato a mostrare invece una sorta di resistenza psicologica, a motivo della quale tendono a fermarsi sulla china rivoluzionaria, ricusando di procedere fino alle conseguenze più estreme degli stessi postulati che avevano originalmente abbracciato e, anzi, reagendo contro di esse anche in maniera abbastanza decisa.
Il fatto è che, per tanti versi, gli Stati Uniti sono oggi un paese in controtendenza. Questa situazione gli conferisce, oggettivamente e almeno in certo senso, il carattere di nazione anti-rivoluzionaria.
Da cacciatore a preda
Gli Stati Uniti, che avevano disseminato il concetto liberale di uguaglianza, consacrando perfino nel primo articolo della Costituzione che “tutti gli uomini sono creati uguali”, sono diventati il paese più ricco e potente del mondo. Questa ricchezza e questo potere hanno attirato su di loro molta antipatia, alimentata è chiaro dalla propaganda sinistrorsa.
Così, dopo aver soffiato l’antipatia contro il potere e la ricchezza delle aristocrazie tradizionali in nome del principio egualitario, gli Stati Uniti si ritrovano oggi ripagati con la stessa moneta in nome dello stesso principio. Ma, lontani dal lasciarsi perdere d’animo, stano difendendo il loro status con una risolutezza che, purtroppo, era mancata alle vecchie aristocrazie.
Gli Stati Uniti, la cui way of life aveva possentemente contribuito alla scristianizzazione di tanti paesi, si ritrovano oggi forse l’unica nazione di Occidente dove la pratica religiosa, anziché diminuire, aumenta anno dopo anno. Le ultime statistiche indicano una pratica religiosa più del doppio di quella europea. Il motivo di tale fenomeno è assai chiaro. La necessità di proteggersi contro le derive più estreme del processo rivoluzionario, spinge molti americani a cercare rifugio nelle credenze religiose.
Gli Stati Uniti, la cui way of life aveva tanto contribuito a dissolvere la morale tradizionale, si ritrovano oggi l’unico paese in cui il governo, venendo incontro a precise richieste di un pubblico sempre più avido di moralità, promuove ufficialmente una campagna in favore della castità. Ed è forse l’unico paese in cui, rispondendo all’appello di diversi movimenti che favoriscono la castità, più di 2,8 milioni di giovani hanno già firmato una solenne promessa di mantenersi vergini fino al matrimonio [Cfr. “La contro-rivoluzione sessuale”, Tradizione Famiglia Proprietà, marzo 2003, pp. 24-26.]
La necessità di difendere strenuamente ciò che con tanta fatica avevano costruito a partire dal 1776, ha foggiato in molti americani una rinnovata consapevolezza dei valori fondenti della nostra civiltà occidentale, affermando pari passu uno spirito combattivo che alcuni osservatori paragonano allo “spirito di crociata”, in aperto contrasto con il pacifismo deliquescente imperante altrove. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Così per uno strano gioco della storia, gli Stati Uniti, che avevano spodestato l’egemonia culturale della Vecchia Europa in nome della modernità, contribuendo all’affievolimento di ciò che restava di civiltà cristiana, si ritrovano oggi agli occhi di molti contemporanei incarnando in certo modo l’ordine e la tradizione. Loro che avevano contribuito al crollo degli imperi europei, si ritrovano oggi l’unico paese capace di offrire una leadership globale. Il cui, in più di un senso, fa di loro un potere imperiale. Insomma, alle soglie del terzo millennio si ritrovano a dover svolgere un ruolo conservatore sostanzialmente identico a quello che cent’anni prima svolgeva l’Europa.
Mutatis mutandis possiamo dire che gli Stati Uniti si trovano oggi in una situazione non molto diversa di quella dell’Austria nel secolo XIX. Così come l’Austria rappresentava allora il grande baluardo contro gli eccessi egualitari della Rivoluzione francese, gli Stati Uniti hanno rappresentato nel secolo XX il grande baluardo contro il comunismo, e rappresentano oggi un baluardo contro la forze della neo-rivoluzione, nonché contro l’aggressione sempre più incalzante d’un certo islam militante.
E, così come nel 1914 l’Austria vide sollevarsi contro di sé una coalizione di forze rivoluzionarie che bramavano la sua distruzione, gli USA vedono oggi sollevarsigli contro una campagna di propaganda come raramente si è vista nella storia. Con una grande differenza: almeno finora, gli USA non danno nessun segno di voler cedere. Da dove proviene questa resistenza psicologica?
Dalla sazietà alla reazione
Sulla fine degli anni ‘50, si comincia a scorgere in crescenti settori dell’opinione pubblica americana, e soprattutto fra i giovanissimi, una certa sazietà nei confronti dell’American way of life che, certo, aveva prodotto tanto benessere materiale, ma aveva anche lasciato insoddisfatti molti aneli profondi dell’anima. Il sogno americano sembrava essere durato fin troppo. Dopo aver bevuto il calice della felicità fino in fondo, molti cominciavano a trovare la feccia.
In un primo momento, questa sazietà si tradusse in un rigetto, vago ma profondo, che esplose nella rivolta studentesca di Berkeley nel 1964, nel fenomeno hippie e nel movimento di resistenza alla guerra del Vietnam. È l’epoca del rock, della marijuana e del LSD, l’epoca della “contro-cultura” pop. Mentre i Thunderclap Newman urlavano “the revolution is here!”, il guru del hippismo Timothy Leary incitava i giovani a “drop out”, cioè a saltare fuori da un establishment che non rispondeva più ai loro desideri.
Sono gli “anni ‘60” in cui tutto sembra sgretolarsi, battuto in breccia da una ondata contestataria che non risparmiava nessun aspetto dell’ordine tradizionale. “The system’s got to go!” – il sistema deve crollare! –era il grido del movimento.
Impressionati dall’estensione del fenomeno, molto ingrandito poi dalla solita propaganda, alcuni analisti cominciarono a prospettare il tramonto del sogno americano. La vergognosa sconfitta nel Vietnam, l’embargo petrolifero del 1973 e la conseguente crisi economica, l’impossibilità di frenare l’avanzo del comunismo in Asia e nell’America Latina, sembravano confermare questo cupo giudizio. Si cominciò a parlare di malaise per descrivere la depressione collettiva in qui sembrava sprofondare il popolo americano.
Per un osservatore acuto, però, la situazione era molto più complessa. Nonostante le apparenze in contrario, il movimento contestatario negli Stati Uniti non toccò le fibre più intime del popolo. Si trattò di un fenomeno piuttosto superficiale, che ne celava un’altro molto più profondo e di segno diametralmente opposto, sul quale dobbiamo centrare la nostra attenzione.
Non pochi pessimisti speravano nella disperazione. Speravano, cioè, che in un determinato momento la nazione americana, presa da profonda depressione, cedesse di colpo. Dopo il 1990 aspettavano che, crollando l’URSS, cedessero anche gli Stati Uniti. Morto il “materialismo comunista”, si diceva per esempio in ambito cattolico, bisognava adesso liberarsi dal “consumismo” di stampo americano, in fondo non meno “materialista”. Il comunismo sovietico è davvero crollato. Gli Stati Uniti, invece, non solo continuano impavidi ma, anzi, sembrano affermarsi sempre di più.
Tramonto della way of life hollywoodiana, nascita d’una nuova mentalità
In fondo, questi pessimisti speravano che la sazietà nei confronti della way of life inducesse gli americani ad abbandonarla, lasciandosi quindi travolgere dall’ondata rivoluzionaria. Invece, è successo esattamente il contrario. La sazietà sta inducendo molti a intraprendere un cammino psicologico diametralmente opposto, cioè a questionare le stesse fondamenta della way of life hollywoodiana in ciò che essa aveva di errato.
Sotto questo profilo ci troviamo di fronte ad un’opinione pubblica americana composta di tre fasce: una, chiaramente in declino, composta da quelli ancora abbagliati dalla way of life hollywoodiana; un’altra in cui, invece, questa comincia a tramontare, producendo una certa sazietà e un rifiuto di andare più avanti; infine – ed ecco la grande novità – una terza fascia in cui il tramonto della way of life hollywoodiana viene accompagnato dall’anelo, forse ancora in nuce, di qualcosa di fondamentalmente diverso.
Questo fenomeno è soprattutto visibile fra i giovanissimi, cioè persone che non hanno conosciuto il mezzogiorno della way of life hollywoodiana e che, dunque, non nutrono per essa il fascino dei loro nonni. In questa fascia si va delineando un fenomeno inedito: la nascita di appetenze che puntano in direzione opposta a quella della Rivoluzione, e che provengono da un atteggiamento nuovo di fronte all’atmosfera laica e liberale del mondo contemporaneo.
Con l’affermarsi di questa fascia, possiamo dire che gli Stati Uniti sono oggi il paese che forse offre più possibilità di reazione contro alcuni aspetti della Rivoluzione. Molto significativo, per esempio, il moltiplicarsi di spettacoli che si richiamano al Medioevo europeo, vale a dire ad un mondo che gli americani si erano ostinati a criticare per quasi due secoli, e che adesso invece attira moltitudini sempre più folte.
Si direbbe che, insoddisfatti con la banalità della vita moderna, queste persone anelano un mondo ideale, e lo trovano nella civiltà cristiana medievale, verso la quale cominciano a nutrire un’ammirazione che è l’esatto opposto della way of life hollywoodiana. Esse sembrano domandarsi: e perché no il passato?
Verso il futuro
Il fatto chi gli Stati Uniti non abbiano avuto un Medioevo in certo modo è anche un vantaggio, permettendo a queste persone di ammirarlo in modo ideale, senza le deformazioni storiche che, invece, in Europa sono purtroppo frequenti. Questi giovani sentono nostalgia di qualcosa che non hanno mai avuto. Possiamo parafrasare il detto francese: Chassez la tradition et elle réviendra au galop.
Non avendo conosciuto la tradizione né la sacralità del ordine medievale, questi giovani non l’hanno neppure rifiutata e, quindi, non nutrono nei suoi confronti nessun odio. E adesso comincia a nascere nella loro anima, indubbiamente spinta dalla grazia, un’appetenza che giustifica le migliori speranze.
Non sorprende, dunque, che la propaganda rivoluzionaria si scateni per distruggere questa realtà, potenzialmente molto positiva.
Cfr. The United States: An Aristocratic Nation Within a Democratic State, appendice a Plinio Corrêa de Oliveira, Nobility and Analogous Traditional Elites in the Allocutions of Pius XII. A theme illuminating American history, Hamilton Press, 1993, 545 pp.