La chiesa rende l’onore degli altari agli ottocento martiri che nel 1480 opposero resistenza alle truppe del sultano ottomano. Il suo nome era Fatih. Voleva conquistare la città dei Papi
di Alfredo Mantovano
Antonio Primaldo è l’unico del quale è tramandato il nome; gli altri sono 800 ignoti pescatori, artigiani, pastori e agricoltori di una città periferica, il cui sangue, cinque secoli fa, è stato sparso in una terribile giornata di agosto solo perché cristiani. Ottocento uomini, i quali hanno subito il trattamento riservato tre anni fa all’americano Nick Berg, catturato da terroristi islamici in Iraq mentre svolgeva il suo lavoro di tecnico antennista, e ucciso probabilmente per mano di Al Zarqawi al grido di “Allah akhbar!”: il suo boia, dopo avergli recisa la giugulare, passa la lama attorno al collo, fino a staccare la testa, e quindi la mostra come un trofeo. Esattamente come ha fatto il boia ottomano a ciascuno degli 800 idruntini.
L’esecuzione di massa ha un prologo, il 29 luglio 1480. Sono le prime ore del mattino: dalle mura comincia a scorgersi all’orizzonte e diventa sempre più visibile una flotta composta da 90 galee, 15 maone e 48 galeotte, con 18 mila soldati a bordo. L’armata è guidata dal pascià Agomath; costui è agli ordini di Maometto II (1430-1481), detto Fatih, “il Conquistatore”, cioè del sultano che nel 1451, ad appena ventun anni, era salito a capo della tribù degli ottomani, a sua volta impostasi sul mosaico degli emirati islamici un secolo e mezzo prima.
Nel 1453, alla guida di un esercito di 260 mila turchi, Maometto II aveva conquistato Bisanzio, la “seconda Roma”, e da quel momento coltivava il progetto di espugnare la “prima Roma”, la Roma vera e propria, e di trasformare la basilica di san Pietro in una stalla per i suoi cavalli. Nel giugno 1480 valuta i tempi maturi per completare l’opera: toglie l’assedio a Rodi, difesa con coraggio dai suoi cavalieri, e punta la flotta verso il mare Adriatico.
L’intenzione è di approdare a Brindisi, il cui porto è ampio e comodo: da Brindisi progettava di risalire l’Italia fino a raggiungere la sede del Papato. Un forte vento contrario costringe però le navi a toccare terra 50 miglia più a sud, e a sbarcare in una località chiamata Roca, a qualche chilometro da Otranto.
1. Otranto, 1480: assedio alla cristianità.
Otranto era – ed è – la città più orientale d’Italia. Ha un passato ricco di storia: le immediate vicinanze erano abitate probabilmente già dal Paleolitico, certamente dal Neolitico; era stata poi popolata dai messapi, stirpe che precedeva i greci, quindi – conquistata da costoro – era entrata nella Magna Grecia e, ancora, era caduta nelle mani dei romani, diventando presto municipio. L’importanza del suo porto le aveva fatto assumere il ruolo di ponte fra oriente e occidente, consolidato sul piano culturale, e anche politico, dalla presenza di un importante monastero di monaci basiliani, quello di san Nicola in Casole, di cui oggi restano un paio di colonne, sulla strada che conduce a Leuca.
Nella sua splendida cattedrale, costruita fra il 1080 e il 1088, nel 1095 era stata impartita la benedizione ai dodicimila Crociati che, al comando del principe Boemondo I d’Altavilla (1050- 1111), partivano per liberare e per proteggere il santo Sepolcro. Di ritorno dalla Terra Santa, proprio a Otranto san Francesco d’Assisi era approdato nel 1219, accolto con grandi onori. A Otranto, l’11 settembre 1227, era morto a seguito di malaria il langravio di Turingia, sposo di santa Elisabetta di Ungheria.
Al momento dello sbarco degli ottomani la città può contare su una guarnigione di 400 uomini in armi, e per questo i capitani del presidio si affrettano a chiedere aiuto al re di Napoli, Ferrante d’Aragona (1431-1494), inviandogli una missiva. Cinto d’assedio il castello, nelle cui mura si erano rifugiati tutti gli abitanti del borgo, il pascià, attraverso un messaggero, propone una resa a condizioni vantaggiose: se non resisteranno, uomini e donne saranno lasciati liberi e non riceveranno alcun torto.
La risposta giunge da uno dei maggiorenti della città, Ladislao De Marco: se gli assedianti vogliono Otranto – fa sapere, devono prenderla con le armi. Al nuncius è intimato di non tornare più, e quando arriva un secondo messaggero con la medesima proposta di resa, costui viene trafitto dalle frecce; per togliere ogni sospetto, i capitani prendono le chiavi delle porte della città, e in modo visibile, da una torre, le buttano in mare, alla presenza del popolo.
Durante la notte, buona parte dei soldati della guarnigione si cala con le funi dalle mura della città e scappa. A difendere Otranto restano soltanto i suoi abitanti.
L’assedio che segue è martellante: le bombarde turche rovesciano sulla città centinaia di grosse palle di pietra (molte sono state conservate e sono ancora oggi visibili per le strade del centro storico idruntino, all’ingresso del municipio o a fianco di ristoranti e di negozi).
Dopo quindici giorni, all’alba del 12 agosto, gli ottomani concentrano il fuoco contro uno dei punti più deboli delle mura: aprono una breccia, irrompono nelle strade, massacrano chiunque capiti a tiro, raggiungono la cattedrale, nella quale in tanti si sono rifugiati. Ne abbattono la porta e dilagano nel tempio, raggiungono l’arcivescovo Stefano, lì presente con gli abiti pontificali e con il crocifisso in mano: all’intimazione di non nominare più Cristo, poiché da quel momento regnava Maometto, l’arcivescovo risponde esortando gli assalitori alla conversione, e per questo gli viene reciso il capo con una scimitarra.
Il 13 agosto Agometh chiede e ottiene la lista degli abitanti catturati, con esclusione delle donne e dei ragazzi di età inferiore ai 15 anni.
2. L’“amore della patria terrena” degli ottocento martiri.
Così racconta il cronista (De Marco): “In numero di circa ottocento furono presentati al pascià che aveva al suo fianco un miserrimo prete, nativo di Calabria, di nome Giovanni, apostata della fede. Costui impiegò la satannica sua eloquenza a fin di persuadere a’ nostri santi che, abbandonato Cristo, abbracciassero il maomettismo, sicuri della buona grazia d’Acmet, il quale accordava loro vita, sostanze e tutti qui beni che godevano nella patria: in contrario sarebbero stati tutti trucidati. Tra quegli eroi ve n’ebbe uno di nome Antonio Primaldo, sarto di professione, d’età provetto, ma pieno di religione e di fervore.
Questi a nome di tutti rispose: “Credere tutti in Gesù Cristo, figlio di Dio, ed essere pronti a morire mille volte per lui”. Aggiunge un altro cronista (Laggetto): “E voltatosi ai cristiani disse queste parole: “Fratelli miei, sino oggi abbiamo combattuto per defensione della patria e per salvar la vita e per li signori nostri temporali, ora è tempo che combattiamo per salvar l’anime nostre per il nostro Signore, quale essendo morto per noi in croce conviene che noi moriamo per esso, stando saldi e costanti nella fede e con questa morte temporale guadagneremo la vita eterna e la gloria del martirio”.
A queste parole incominciarono a gridare tutti a una voce con molto fervore che più tosto volevano mille volte morire con qual si voglia sorta di morte che di rinnegar Cristo”. Agomath proclama la condanna a morte di tutti e ottocento i prigionieri
Al mattino seguente, costoro vengono condotti con la fune al collo e le mani legate dietro la schiena al colle della Minerva, a poche centinaia di metri dalla città. Scrive, ancora, De Marco: “Ratificarono tutti la professione di fede e la generosa risposta data innanzi; onde il tiranno comandò che si venisse alla decapitazione e, prima che agli altri, fosse reciso il capo a quel vecchio Primaldo, a lui odiosissimo, perché non rifiniva di far da apostolo co’ suoi, anzi in questi momenti, prima di chinare la testa sul sasso, aggiungeva a’ commilitoni che vedeva il cielo aperto e gli angeli confortatori; che stessero saldi nella fede e mirassero il cielo già aperto a riceverli.
Piegò la fronte, gli fu spiccata la testa, ma il busto si rizzò in piedi: e ad onta degli sforzi de’ carnefici, restò immobile, finché tutti non furono decollati. Il portento evidente ed oltremodo strepitoso sarebbe stata lezione di salute a quegl’infedeli, se non fossero stati ribelli a quel lume che illumina ognuno che vive nel mondo. Un solo carnefice, di nome Berlabei profittò avventurosamente del miracolo e, protestandosi ad alta voce cristiano, fu condannato alla pena del palo”.
Durante il processo per la beatificazione degli ottocento, nel 1539, quattro testimoni oculari riferiscono il prodigio di Antonio Primaldo, che resta in piedi dopo la decapitazione, e della conversione e del martirio del boia. Così racconta uno dei quattro, Francesco Cerra, che nel 1539 aveva 72 anni: “Antonio Primaldo fu il primo trucidato e senza testa stette immobile, né tutti gli sforzi dei nemici lo poter gettare, finché tutti furono uccisi. Il carnefice, stupefatto per il miracolo, confessò la fede cattolica essere vera, e insisteva di farsi cristiano, e questa fu la causa, perché per comando del Bassà fu dato alla morte del palo” (Laggetto).
500 anni dopo, il 5 ottobre 1980 Giovanni Paolo II si reca a Otranto per ricordare il sacrificio degli ottocento. E’ una splendida mattinata di sole, nella spianata sottostante il Colle della Minerva, dal 1480 chiamato “Colle dei Martiri”. Il Pontefice polacco coglie l’occasione per rivolgere un invito, attuale allora come oggi: “Non dimentichiamo (…) i martiri dei nostri tempi. Non comportiamoci come se essi non esistessero”. Esorta a guardare oltre il mare, e richiama espressamente le sofferenze del popolo di Albania, al quale in quel momento, sottoposto a una delle più feroci versioni del comunismo, nessuno rivolgeva l’attenzione.
Sottolinea che “i Beati Martiri ci hanno lasciato – e in particolare hanno lasciato a voi – due consegne fondamentali: l’amore alla patria terrena; l’autenticità della fede cristiana. Il cristiano ama la sua patria terrena. L’amore della patria è una virtù cristiana”.
3. Roma “salvata” da Otranto.
Il sacrificio di Otranto non è importante soltanto sul piano della fede. Le due settimane di resistenza della città consentono all’esercito del re di Napoli di organizzarsi e di avvicinarsi a quei luoghi, così impedendo ai 18 mila ottomani di dilagare per la Puglia. I cronisti dell’epoca non esagerano nell’affermare che la salvezza dell’Italia Meridionale fu garantita da Otranto: e non solo quella, se è vero che la notizia della presa della città inizialmente aveva indotto il pontefice allora regnante, Sisto IV (1414-1484), a programmare il trasferimento ad Avignone (Pastor), nel timore che gli ottomani si avvicinassero a Roma. Il Papa recede dall’intento quando il re Ferrante incarica il figlio Alfonso, duca di Calabria, di trasferirsi in Puglia, e gli affida il compito di riconquistare Otranto: il che accade il 13 settembre 1481, dopo che Agomath era tornato in Turchia e Maometto II era morto.
Ciò che rende questo straordinario episodio pieno di significato, anche per l’europeo di oggi, è che nella storia della cristianità non sono mai mancate testimonianze di fede e di valori civili, né sono mai mancati gruppi di uomini che hanno affrontato con coraggio prove estreme. Mai però è accaduto un episodio di proporzioni così vaste: un’intera città dapprima combatte come può, e tiene testa per più giorni all’assedio; poi risponde con fermezza alla proposta di abiura. Sul Colle della Minerva, al di fuori del vecchio Primaldo, non emerge alcuna individualità, se è vero che degli altri martiri non si conosce il nome, a riprova del fatto che non sono pochi eroi, bensì è una popolazione intera che affronta la prova.
Il tutto succede anche per l’indifferenza dei responsabili politici dell’Europa dell’epoca di fronte alla minaccia ottomana. Nel 1459 il papa Pio II (1405-1464) aveva convocato a Mantova un congresso, al quale aveva invitato i capi degli stati cristiani, e nel discorso introduttivo aveva delineato le loro colpe di fronte all’avanzata turca; benché nella circostanza venga decisa la guerra per contenere quest’ultima, poi non segue nulla, a causa dell’opposizione di Venezia e della non curanza della Germania e della Francia.
Dopo che i musulmani conquistano l’isola di Negroponte, appartenente a Venezia, una nuova alleanza contro gli ottomani, proposta da Papa Paolo II (1464-1471), viene fatta arenare dai milanesi e dai fiorentini, pronti ad approfittare della situazione critica nella quale si trova la Serenissima. Il decennio successivo, con Sisto IV che diventa pontefice nel 1471, fa assistere all’omicidio di Galeazzo Sforza, duca di Milano, all’alleanza antiromana del 1474 fra Milano, Venezia e Firenze, alla Congiura dei Pazzi del 1478, e alla guerra che ne segue, fra il Papa e il re di Napoli da una parte, e dall’altra Firenze, aiutata da Milano, da Venezia e dalla Francia.
“Lorenzo il Magnifico, che aveva ammonito Ferrante di non prestarsi al gioco ed alle aspirazioni degli stranieri, fu proprio lui a sollecitare Venezia perché si accordasse con i turchi e li spingesse ad assalire le sponde adriatiche del Regno di Napoli, al fine di turbare i disegni di Ferdinando e del figlio. (…) La Serenissima, firmata da poco la pace con i turchi (1479), aderì al disegno del Magnifico nella speranza di riversare sulla Puglia l’orda musulmana che da un momento all’alto poteva abbattersi sulla Dalmazia, dove sventolava il vessillo di san Marco. (…) E gli uomini di Lorenzo il Magnifico non esitarono neppure (…) a sollecitare Maometto II a invadere le terre del re di Napoli, ricordandogli i vari torti subiti da questi.
Ma il sultano non aveva bisogno di questi consigli: da 21 anni attendeva il momento buono per sbarcare in Italia, e sin allora era stata proprio Venezia, la diretta avversaria sul mare, ad impedirglielo” (Pastor).
4. La “naturalezza” del sacrificio di Otranto.
Se la storia non è mai identica a sé stessa, tuttavia non è arbitrario cogliere dai suoi sviluppi analogie e similitudini: esattamente mille anni dopo il 480, anno della nascita di San Benedetto da Norcia, un umile monaco alla cui opera l’Europa deve tanto della sua identità, altri umili interpretano l’Europa meglio e più dei loro capi, pronti a combattersi reciprocamente piuttosto che a fronteggiare il nemico comune.
Quando gli idruntini si trovano di fronte alle scimitarre ottomane, non invocano la distrazione dei re per motivare un proprio disimpegno; forti della cultura nella quale sono cresciuti, pur se la gran parte di loro non ha mai conosciuto l’alfabeto, sono convinti che resistere e non abiurare costituisca la scelta più ovvia, quella in qualche modo naturale.
Si provi a parlare oggi con un nostro connazionale che è tornato dall’Iraq o che torna dall’Afghanistan, dopo aver completato il periodo di missione: ciò che si coglie con maggiore frequenza è la meraviglia per le discussioni e per i contrasti infiniti sulla nostra presenza in quegli scenari. Per loro è naturale che si vada ad aiutare chi ha necessità di sostegno e che si garantisca la sicurezza della ricostruzione contro gli attacchi terroristici.
A Otranto cinque secoli fa nessuno ha esposto drappi arcobaleno, né ha invocato risoluzioni internazionali, o ha chiesto la convocazione del consiglio comunale perché la zona fosse dichiarata demilitarizzata: non esistendo ancora i comboniani, oggi spesso immemori del genuino spirito del loro fondatore, nessuno si è incatenato sotto le mura per “costruire la pace”.
Per due settimane 15 mila pacifici idruntini hanno bollito olio e acqua, finché ne hanno avuto, e li hanno rovesciati dalle mura sugli assedianti. Quando sono rimasti in vita soltanto 800 uomini adulti e sono stati catturati, hanno fatto volontariamente la fine che oggi fanno in Iraq e in Afghanistan gli americani, gli inglesi, i pachistani, gli iracheni, gli italiani, e altri ancora, quando vengono sequestrati dai terroristi: ottocento teste sono state tagliate una per una, senza che all’epoca cronisti politically correct ne abbiano censurato i dettagli; se oggi conosciamo bene questa straordinaria vicenda, è perché chi l’ha descritta è stato preciso e rigoroso.
Oggi l’Europa è attaccata non – come nell’episodio storico richiamato – da una realtà islamica istituzionalmente organizzata, bensì dall’equivalente di più organizzazioni non governative di ultrafondamentalisti islamici. Tenuta presente questa differenza strutturale, non è fuori luogo chiedersi quanto c’è oggi in occidente, in Europa, e in Italia, di quella “naturalezza” che ha portato una intera comunità “a difendere la pace della propria terra” fino al sacrificio estremo.
Il quesito non è fuori luogo, se si riflette che nella lotta al terrorismo un elemento realmente decisivo è la tenuta del corpo sociale, o comunque di gran parte di esso, di fronte alla minaccia e ai modi più efferati di concretizzazione della stessa. E’ ovvio che la memoria di Otranto non vale soltanto a sottolineare che vi sono momenti in cui resistere è un dovere, ma prima ancora a ricordare a noi stessi chi siamo e da quali comunità discendiamo.
Vale la pena di ricordare che nel 1571, novant’anni dopo il martirio di Otranto, una flotta di stati cristiani ferma finalmente la minaccia turco-islamica nel Mediterraneo al largo di Lepanto. Lo scenario europeo non era migliorato: la Francia faceva lega con i principati protestanti per contrapporsi agli Asburgo e si compiaceva della pressione che i turchi esercitavano contro l’Impero nel Mediterraneo; Parigi e Venezia non avevano mosso un dito per difendere i cavalieri di Malta nell’assedio condotto contro di loro da Solimano il Magnifico. Questo vuol dire che la vittoria di Lepanto non è stata il frutto della convergenza di interessi politici; al contrario, il trionfo – tale è stato – si è realizzato nonostante le divergenze.
La straordinarietà di Lepanto sta nel fatto che, nonostante tutto, per una volta principi, politici e comandanti militari hanno saputo accantonare le divisioni e unirsi per difendere l’Europa. Questa unione si è certamente realizzata per l’impegno di uomini che non hanno disdegnato il nobile esercizio della leadership – come si dice oggi –, ma soprattutto perché la politica europea del XVI secolo aveva ancora un residuo di visione del mondo sostanzialmente comune, fondata sul rispetto del cristianesimo e del diritto naturale.
E se oggi tante testoline allegramente agnostiche girano liberamente, senza essere costrette ad avvolgersi nei burqa, accade anche perché qualcuno a suo tempo ha speso tempo, energie, e anche la propria vita, per la buona causa, dal momento che la vittoria degli altri avrebbe fatto cadere in mani musulmane l’Italia, e forse anche la Spagna.
5. Otranto, città martire per l’Europa.
Otranto insegna che una civiltà culturalmente omogenea – o anche solo in prevalenza animata da principi di realtà – è capace di reagire in modo sostanzialmente compatto a difesa della propria pace, e lo fa senza calpestare la propria identità e la propria dignità.
Dal frutto – la bontà della reazione – si comprende che la radice – l’omogeneità culturale – è un bene, ovviamente nella misura in cui la cultura condivisa è sana. Oggi la cristianità romano–germanica come civiltà omogenea non esiste più. Ne restano alcune significative vestigia: il che è certamente un male. Né è condivisibile la tesi secondo la quale la cristianità, finché è esistita, sarebbe stata una realtà speculare alla ‘umma islamica.
Tre differenze strutturali impediscono qualsiasi sovrapposizione o analogia rispetto alla ‘umma islamica: nella cristianità vi è distinzione fra la sfera politica e quella religiosa, vi è il fondamento del diritto naturale, vi è il rispetto della coscienza della persona umana. La riflessione su quanto accaduto nel 1480 permette tuttavia di individuare tre capisaldi attorno ai quali rifare unità, e cioè il riferimento al diritto naturale, la riscoperta delle radici cristiane dell’Europa e l’amor di patria, quest’ultimo esplicitamente evocato da Giovanni Paolo II quale lascito dei Martiri idruntini.
In una delle lettere che San Paolo inviava alle comunità cristiane che aveva contribuito a costituire, vi è una espressione che non può lasciare indifferenti: “la nostra lettera siete voi” (2 Cor. 3, 2), a conferma della prevalenza del rapporto umano su quello dello scritto (che pure l’Apostolo non riteneva marginale).
All’indomani della rivoluzione in Francia, Joseph de Maistre riceveva le considerazioni sconfortate di un amico che, come spesso capita nei dialoghi fra appassionati di politica, erano piene di amarezza sulla situazione dell’epoca e sulle prospettive dopo le devastazioni subite dalla Francia. E de Maistre, dopo avergli ricordato che il fondamento di tutte le costituzioni politiche sono gli uomini, gli chiedeva: forse che non esistono più uomini oggi in Francia? Oggi, guardandosi allo specchio, ci si potrebbe rivolgere la medesima domanda, con tutti gli adattamenti del caso: forse che non esistono più uomini in Italia, in Europa, in occidente?
La Sacra Scrittura è maestra anche su questo piano. Nel dialogo fra Dio e Abramo, Dio mette a conoscenza Abramo dell’intenzione di distruggere Sodoma e Gomorra (Gen, 18, 16 ss). Abramo tenta di intercedere e gli dice: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse ci sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?”
Ricevuta l’assicurazione da Dio che, per riguardo a quei cinquanta giusti avrebbe perdonato l’intera città, Abramo va avanti, in una sorta di ardita trattativa: e se ce ne fossero 45, 40, 30, 20, o soltanto 10? La risposta di Dio è la medesima: “Non la distruggerò per riguardo a quei dieci”. Ma non se ne trovarono né 50, né 45, né 30, né 20, e neanche 10; e le due città furono distrutte.
Questa pagina scritturale è terribile per la sorte di annientamento che prospetta alle civiltà che rinnegano i valori scritti nella natura dell’uomo: è una pagina che è stata dolorosamente riletta tante volte, soprattutto nel XX secolo, di fronte alle rovine del nazionalsocialismo e del socialcomunismo realizzato. Ma è altrettanto confortante per chi ritiene che la centralità dell’uomo e la coerenza con i principi costituiscano non soltanto il punto di partenza, ma pure la strategia per chiunque voglia fare politica.
Nel 1480 quel brano del Genesi trova un’applicazione particolare: l’Europa, ma in particolare la sua città più importante, Roma, vengono risparmiate dalla distruzione non “per riguardo”, bensì “per il sacrificio” di 800 sconosciuti pescatori, artigiani, pastori e agricoltori di una città periferica. Colpisce che quanto accaduto a Otranto non abbia avuto, e ancora non abbia, il riconoscimento diffuso che merita. La stessa Chiesa ha atteso cinque secoli, e un Pontefice straordinario come Karol Wojtyla, per proclamare “beati” quegli 800.
Il decreto del quale Benedetto XVI ha autorizzato la pubblicazione il 6 luglio 2007 equivale a dire che il “martirio” deve intendersi come storicamente e teologicamente accaduto. Il 31 luglio il decreto sarà formalmente consegnato all’arcivescovo di Otranto: è la premessa per la canonizzazione, che seguirà quando sarà accertato il miracolo. La Chiesa, anche quella idruntina, mantiene un doveroso riserbo sul punto, ma tutti sanno che l’intercessione degli 800 di miracoli ne ha già procurati tanti; manca il riconoscimento ufficiale.
I martiri di Otranto non hanno fretta: le loro ossa accolgono chi visita la cattedrale ordinate in più teche, nella cappella situata alla destra dell’altare maggiore. Ricordano che non solo la fede, ma anche la civiltà, hanno un prezzo: un prezzo non monetizzabile, paradossalmente compatibile con l’aver ricevuto la fede e la civiltà come doni inestimabili.
Quel prezzo viene chiesto a ciascuno in modo differente, ma non ammette né saldi né liquidazioni.