Matteo Mazzariol
(Presidente Movimento Distributista Italiano)
Quando si parla di “princìpi non negoziabili”, ci si riferisce in genere alle tematiche strettamente legate alla famiglia, alla sessualità e alla bioetica. Ma la consapevolezza che esistono valori irrinunciabili può e deve essere estesa anche ai temi altrettanto importanti della giustizia sociale e della sussidarietà.
Purtroppo, in questo ambito, la riflessione è meno articolata e omogenea, fino quasi a disperdersi in un generale tacito consenso verso le forme attuali di gestione della politica e della vita socio-economico-lavorativa, di cui si criticano alcuni lati negativi senza però essere in grado di formulare concrete proposte alternative.
Se è vero e sacrosanto che esistano “principi non negoziabili” relativi alla famiglia, è altrettanto vero che altri “valori non negoziabili’” esistono anche nell’ambito della dimensione sociale-politica-economica e lavorativa.
In questo senso il pensiero distributista, elaborato da G.K. Chesterton, padre McNabb ed H. Belloc, nell’Inghilterra della prima parte del secolo scorso, ci può essere di estremo aiuto per focalizzare meglio la questione e sperabilmente giungere a specifiche proposte operative.
Il distributismo infatti, facendo appello al senso comune, alla retta ragione e alla dottrina sociale della Chiesa, sostiene senza alcuna ambiguità che capitalismo e social-comunismo, con tutti i loro ibridi e derivati, keynesismo incluso, rappresentano ideologie che, sia dal punto di vista teorico sia dal punto di vista pratico, si trovano nell’impossibilità di realizzare i principi di giustizia sociale, sussidiarietà e solidarietà, semplicemente perché si basano su premesse antropologico-filosofiche infondate ed irrazionali, non aderenti alla realtà umana.
Capitalismo e social-comunismo, infatti, negano entrambi l’esistenza di un ordine economico, sociale e politico stabilito da Dio percepibile dalla retta ragione: negano che la famiglia naturale debba essere al centro dello sviluppo economico-sociale; negano che capitale e lavoro vadano il più possibile uniti, puntando alla massima diffusione della proprietà produttiva; negano che i corpi sociali intermedi rappresentino entità altrettanto naturali e fondamentali come la famiglia e che pertanto debbano essere massimamente lasciati liberi ed aiutati nella loro capacità di autodeterminazione, seguendo il principio di sussidiarietà.
Negano inoltre che la moneta debba essere al servizio del bene comune, di cui arrivano a dubitare perfino l’esistenza, facendone una convenzione contrattuale frutto della sola volontà umana, indipendente da Dio.
Secondo il distributismo la libertà del capitalismo è una libertà svincolata da ogni limite e ogni concetto di verità e responsabilità, che tende quindi a degenerare, mentre il mito dell’uguaglianza del social-comunismo non tiene conto delle naturali diversità di talenti e capacità degli esseri umani, tendendo ad un perverso appiattimento verso il basso, effettuato con la forza coercitiva di uno Stato onnipervasivo, invadente e poco rispettoso dei corpi sociali naturali.
Infine, il distributismo sostiene che, lungi dall’essere in opposizione reale tra di loro, capitalismo e social-comunismo convergono verso lo Stato Servile, cioè un apparato istituzionale-burocratico in cui il potere reale rimane saldamente nelle mani di un apparato elitario, condizionato fortemente dall’oligarchia economico-finanziaria.
Se ci guardiamo intorno con uno sguardo obiettivo e libero da condizionamenti ideologici, non possiamo effettivamente che prendere atto che lo Stato Servile è la condizione verso cui ci stiamo inesorabilmente dirigendo a passi sempre più veloci.
La finanza, attraverso il denaro-debito bancario, assume sempre più potere sull’economia reale e sulle scelte dei politici; la proprietà si accumula nelle mani di pochi; la partitocrazia priva i cittadini di ogni possibilità reale di incidere direttamente sulle scelte della propria vita socio-lavorativa; la famiglia naturale viene attaccata con insistenza su più fronti, negandone addirittura il primato rispetto ad altre forme di convivenza umana.
Di fronte a questo fosco scenario, il distributismo richiama l’attenzione intorno alla necessità di porre dei principi e dei valori che sappiano incidere direttamente sulla vita economico-sociale e politica e non solo nella sfera delle scelte di morale sessuale o familiare.
Si tratta dell’individuazione di alcuni punti paradigmatici molto chiari e semplici che possono trovare concreta applicazione in forme differenti. Tali paradigmi non-negoziabili per il distributismo sono:
- la centralità economico-sociale della famiglia naturale;
- la necessità di puntare all’unione tra capitale e lavoro ed alla massima diffusione della proprietà produttiva;
- a necessità di restituire potere politico concreto alla gente, aggregata naturalmente per comparto socio-lavorativo in gilde o corporazioni di arti e mestieri;
- la necessità di abolire al più presto il denaro-debito bancario e creare una moneta libera da debito e da interesse, che sia al servizio del bene comune.
Risulta chiaro a chiunque quanto tali principi non negoziabili, lungi dall’essere espressione settaria di una ideologia, contengano quel carattere di universalità in grado di accogliere le insopprimibili e profonde esigenze di giustizia, equità e prosperità che stanno nel fondo di ogni essere umano e che rischiano oggigiorno di essere perennemente frustrate dalla mancanza di proposte politiche aderenti al reale.
Non dobbiamo inoltre aver timore di andare controcorrente o di apparire utopici, perché la vera utopia, cioè il vero “non luogo”, è quello di ideologie fallite e bocciate dalla storia, incapaci di guidare l’umanità fuori dalla palude in cui si trova.
“Solo un corpo vivo ha la capacità di andare controcorrente” diceva G.K. Chesterton: di questa vitalità, radicata nella fede e nella retta ragione, noi dobbiamo continuare a dare testimonianza.