di don Maurizio Ceriani
In occasione dell’otto marzo il Presidente Ciampi ha voluto “rendere omaggio a tutte le donne cadute per l’unità e l’indipendenza dell’Italia ed anche a tante donne venute da paesi lontani che qui si sentono a casa ed amano il nostro Paese” e fin qui nulla da eccepire, anzi gli va il plauso di un nobile sentimento di riconoscenza verso l’apporto femminile alla storia della nazione.
Il fatto però che ciò sia avvenuto in una cerimonia al monumento, eretto sul Gianicolo, in memoria di Anita Garibaldi, fa sorgere qualche perplessità. Dispiace infatti vedere un altro dei falsi miti della retorica risorgimentale rispolverato e quasi innalzato a simbolo della femminilità italiana e internazionale.
Ci sembra allora quanto mai opportuno l’invito che Mons. Andrea Gemma faceva qualche tempo fa, proprio riferito all’epopea garibaldina, a: “levare la voce perché certi luoghi comuni, ormai diventati insopportabili, non continuino ad ingannare i semplici”. Riguardo ad Anita Garibaldi alcune precisazioni storiche vanno fatte. Anna Maria Ribeiro da Silva è il nome di Anita Garibaldi, prima moglie dell’Eroe dei due mondi.
Nacque in Brasile, a Morinhos, il 30 agosto 1821. Sposò giovanissima, nel 1835, Manuel Duarte de Aguiaz, che abbandonò dopo alcuni anni per seguire Garibaldi. Partecipò “con animo virile” a tutte le eroiche imprese militari da lui compiute in America Latina e gli diede quattro figli: Menotti, Rosita, Teresita e Ricciotti.
La morte di Manuel Duarte nel 1842 le permise di sposare Garibaldi a Montevideo. Nel dicembre 1847 giunse con la famiglia a Nizza, ma le vicende della Repubblica Romana la spinsero l’anno successivo a raggiungere il marito a Roma, dove prese parte alla lotta contro i francesi, nonostante la nuova gravidanza.
Alla caduta della Repubblica partecipò alla ritirata che, attraverso le Marche, avrebbe dovuto condurre i volontari a Venezia. I disagi della fuga, la gravidanza ormai avanzata ed un attacco di febbri malariche le furono fatali. Nulla di preciso si conosce intorno alla sua morte, avvenuta forse il 4 agosto 1849 nella fattoria Guiccioli presso Ravenna.
Già questa vita errabonda, l’abbandono del marito per un altro uomo, i figli lasciati a se stessi, fanno sorgere – almeno per quella parte di donne italiane per le quali la famiglia, l’amore coniugale, l’educazione dei figli sono altissimi valori – qualche dubbio sull’esemplarità di questa “eroina risorgimentale” e sui riferimenti etici che mossero le sue scelte, almeno in seno alla famiglia: a meno che non si tornino a rieditare i “valori” di quella religione laica del nazionalismo ottocentesco che comandavano di immolare tutto all’assoluto della Patria una, indipendente e indivisibile.
“Valori” che la tradizione cattolica dell’umanesimo integrale non può accettare, giacché la persona umana e sempre un “fine” e a nulla può essere finalizzata; “valori” che in fondo non appartengono neppure all’attuale costituzione repubblicana.
Ulteriori perplessità sorgono sulla figura guerriera scelta per onorare l’universo femminile nel giorno significativo dell’otto marzo. Forse le donne italiane – anche in riferimento al risorgimento – meritavano, insieme a quelle “venute da paesi lontani”, di essere rappresentate nel loro “genio femminile” da ben altri modelli, magari più legati alla pace, al servizio dell’uomo, al progresso e alla ricerca scientifica, che non da Anita Garibaldi, sulla quale il giudizio degli storici è quanto mai acceso e controverso, oscillante tra la figura della corsara e quella della patriota, comunque scostato dal mito romantico della retorica risorgimentale.
Infine si resta perplessi anche dalla scelta di quel monumento sul Gianicolo, dal momento che ebbe un preciso significato storico quando venne innalzato nel 1932. L’opera, affidata allo scultore Mario Rutelli, aveva il compito di celebrare il cinquantesimo della morte di Garibaldi, ma fu trasformata in un’occasione da parte del fascismo per ribadire la sua idea neopagana di famiglia e di patria.
L’inaugurazione avvenne infatti il 4 giugno del 1932, ad opera dello stesso Mussolini, e si collocò all’indomani dell’aspro scontro tra il regime fascista e la Chiesa, legato allo scioglimento dell’Azione Cattolica e alla pretesa egemonia del regime sulla famiglia e sull’educazione dei giovani, asservite al “superiore interesse dello Stato”.
La dura presa di posizione di Pio XI aveva fatto ritornare, almeno in apparenza, Mussolini sui suoi passi riconsegnando alla Chiesa i suoi spazi educativi, ma il Duce volle ribadire con quel gesto provocatorio – che si collegava alla tradizione massonica e anti-clericale di fine ottocento e che suscitò la protesta del Papa – la sua irrinunciabile idea che “nello Stato, la Chiesa non è sovrana e non è nemmeno libera!”.
Chissà, ci auguriamo che il prossimo anno si possa scendere dal Gianicolo e, pochi passi più in là, celebrare l’otto marzo con una donna più rappresentativa nella storia d’Italia, accanto a un monumento meno compromesso: quello a Santa Caterina da Siena nei giardini di Castel Sant’Angelo!