Dietro la definizione di antigiudaismo non c’è alcuna precomprensione ideologica né tanto meno la volontà di sminuire responsabilità storiche dietro l’alchimia di definizioni giustificazioniste, ma soltanto la volontà di studiare i fatti storici valutandoli per quello che sono
di Giovanni Sale s.j.
La distinzione tra «antigiudaismo» e «antisemitismo» è comunemente ammessa dalla maggioranza degli storici, cattolici e non. I due concetti sono stati posti alla base del documento sull’Olocausto pubblicato nel 1998, intitolato Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, che distingueva nettamente un antisemitismo razziale – che la Chiesa ha sempre condannato – da un antigiudaismo, che nel corso della storia si è andato di volta in volta strutturando sulla base di elementi diversi e che nel secolo appena concluso ha assunto «connotazioni più sociologiche e politiche che religiose».
Dietro la definizione di antigiudaismo non c’è, come sostengono i professori Ruggero Taradel (La segregazione amichevole e L’accusa del sangue, pubblicati da Editori Riuniti) e David Kertzer (I Papi contro gli Ebrei, Rizzoli), alcuna precomprensione ideologica né tanto meno la volontà di sminuire responsabilità storiche dietro l’alchimia di definizioni giustificazioniste, ma soltanto la volontà di studiare i fatti storici valutandoli per quello che sono (e su questo è possibile legittimamente avere punti di vista differenti) e senza intenti apologetici. All’opposto invece si nota, dietro la pretesa di chi intende «forzare» determinate definizioni, la volontà di strumentalizzare ideologicamente i fatti storici.
La tradizione cristiana, e in particolare quella cattolica, si è del resto sempre «capita» dentro la definizione di antigiudaismo o simili: La Civiltà Cattolica, specialmente negli anni Trenta e Quaranta, utilizza spesso questa definizione per indicare il proprio atteggiamento nei confronti degli ebrei, mentre all’opposto utilizza la dizione «antisememitismo» per indicare le moderne dottrine razziste che essa condannava apertamente ritenendole anticristiane. L’antigiudaismo rispondeva a un’esigenza di tutela dell’antica societas christiana – che di fatto da tempo non esisteva più in Europa, ma che nella mente di molti uomini di Chiesa continuava ad avere ancora senso – per cui erano considerate legittime dalla Chiesa legislazioni civili, approvate da Stati a maggioranza cattolica, che, facendo salvi di moderazione e di carità cristiana verso tutti, trattassero in modo differente cristiani ed ebrei.
L’antisemitismo razziale era invece fondato su un elemento materialistico e biologico: il principio della «razza ariana» quale razza superiore e dominante, e quello del culto del sangue e della terra. Chi conosce la teologia cristiana sa che mai la Chiesa approvò teorie di questo tipo: per essa non esiste nessuna razza superiore, ma un solo popolo di Dio sparso su tutta la terra, Come è noto La Civiltà Cattolica, su indicazione di Pio XI, si oppose con forza alla teoria neopagana e anticristiana dell’antisemitismo razzista. Con grande meraviglia perciò leggiamo nel libro di Kertzer che Papa Ratti fu antisemita e che non fece nulla per ostacolare la legislazione antisemita.
Eppure già nel 1928 un decreto del Sant’Uffizio, per espresso desiderio del Pontefice, condannava esplicitamente le moderne teorie antisemite, deprecando con forza «l’odio diffuso [dal nazismo] contro un popolo già eletto da Dio, quell’odio cioè che oggi volgarmente suole designarsi antisemitismo». Nove anni dopo (1937) nell’enciclica Mit brennender Sorge diretta ai vescovi tedeschi (redatta dai cardinali Faulhaber e Pacelli) il Papa condannava il nazionalismo esasperato e il culto della razza, nonché le aberrazioni del nazismo e le sue dottrine anticristiane. Lo stesso Pio XI, durante un’udienza concessa agli operatori belgi delle radio cattoliche, nel settembre 1938, con le lacrime agli occhi pronunciò la celebre frase «l’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo tutti spiritualmente semiti». Già nel mese di giugno aveva dato l’incarico a padre Lafarge di scrivere una bozza di enciclica contro il razzismo professato da diversi regimi totalitari. Essa non fu portata a conclusione a motivo della morte del Papa nel febbraio 1939.
Dal diario delle consulte risulta inoltre che già dal 1934 Pio XI chiese al direttore della Civiltà Cattolica «di illustrare in alcuni articoli le proposizioni antirazziste»: fu fatto, anche mettendo a repentaglio la propria sopravvivenza a motivo della censura fascista. Lo stesso Pio XII in occasione dell’emanazione della sua prima enciclica, Summi pontificatus, nell’ottobre 1939 chiese alla rivista di tener presente negli articoli di commento «gli errori condannati dall’enciclica, in particolare si difenda l’unità del genere umano contro i razzismi».
Infine va detto che la Chiesa non intende nascondersi dietro definizioni di comodo o strumentali (quali la distinzione tra antigiudaismo e antisemitismo), come affermano Taradel e Kertzer, per non riconoscere le proprie colpe storiche contro gli ebrei. Anzi si può dire che l’antigiudaismo professato da molti cattolici durante i secoli ha fortemente nociuto alle comunità ebraiche della diaspora, condannandole a una forma spesso disumana di segregazione e di aperta discriminazione sociale, e che la Chiesa nel riconoscere i propri errori deve chiedere perdono di questo, come del resto Giovanni Paolo II ha già fatto a Gerusalemme davanti al Muro del pianto. Ma non può essere accusata di errori (come l’accusa grave di antisemitismo) che non ha commesso, e che anzi ha combattuto e condannato.