[Didaché IV, 2; CN ed., Roma 1978, pag. 32].
Questo sacerdote polacco era vicario nella diocesi di Pinsk. Nato nel 1880, fu arrestato nel 1943 a Bielsk Podlaski in diocesi di Drohiczyn e immediatamente fucilato dai nazisti. Mancava poco al suo quarantesimo di sacerdozio. Ma era particolarmente impegnato nella pastorale e, perciò, era di fatto la guida spirituale della sua gente.
Com’è noto, il miglior sistema per soggiogare un popolo rimane sempre quello di Tarquinio il Superbo. Ai miei tempi alla scuola dell’obbligo lo si studiava: l’ultimo re etrusco di Roma (e ultimo anche di numero) a chi gli chiedeva consiglio strategico mostrò un campo di papaveri, poi con un colpo di bastone decapitò quelli più alti. Da qui la famosa frase “gli alti papaveri” per indicare i leader, artificiali o naturali.
Per forza, dunque, le direttive eliminatorie naziste si rivolsero, in Polonia (ma anche altrove), verso il clero. Che aveva tre caratteristiche per loro pericolose: erano di “razza inferiore” perché slavi; erano punti di riferimento per la gente; erano cattolici. Quest’ultimo dato era il peggiore, ai loro occhi, sia perché confliggeva col neopaganesimo darwiniano del Reich “millenario”, sia perché i suoi esponenti appartenevano a una “setta” sovrannazionale, storicamente molto meno addomesticabile delle “chiese di Stato”.
Il sessantatreenne monsignor Beszta-Borowski divenne, dunque, uno di quei cento e otto martiri polacchi che la Chiesa ha beatificato nel 1999 attorno al loro capogruppo Nowowiejski, vescovo di Plock. Bisognerà prima o poi riflettere sulla maggior “tenuta” statistica del clero cattolico in quanto celibe.
Il Giornale 15 luglio 2005