La pena di morte, anzi ogni pena, è illegittima se si pone l’indipendenza dell’individuo verso la legge morale. Cioè se i concetti di bene e male, giusto e sbagliato, sono messi solo sul piano soggettivo. Se esistono in modo oggettivo, allora anche le pene sono legittime per i violatori volontari
Il comprendere la lotta contro l’istituto della pena capitale nell’impegno contro la ” cultura della morte”, come stanno facendo molti ecclesiastici, è frutto di una bella confusione di idee. Cominciamo con sfatare un assunto che l’ attuale pseudo-buonismo da per scontato. La pena di morte, una bella cosa certo non è ma non è illecita! È un madornale equivoco confondere l’ inviolabile diritto alla vita dell’innocente, con la situazione del colpevole che, nel momento in cui ha spento una vita altrui, immediatamente ha implicitamente rinunciato al proprio diritto alla vita. Questo in astratto.
Poi, in concreto, ci sono da valutare tante situazioni. In primo luogo di, ovviamente, accertamento della colpa, poi di opportunità. Tanto per dirne una, sorprenderò qualcuno, ma nell’attuale situazione italiana, ringraziamo il Signore ( ” ‘ca facci p’ terra “, direbbero i nostri vecchi), che i politici e certa Magistratura che ci ritroviamo non possiedono anche quest’altra arma.
Dato, come abbiamo visto, che molti rappresentanti del mondo cattolico sono in prima fila contro tale istituto, ricordiamo quale è il reale insegnamento della Chiesa, presente anche nel Catechismo del 1992. Seguiremo in questa analisi due opere fondamentali : ” Iota Unum ” di Romano Amerio,( ed. Ricciardi, Milano/ Napoli 1986) e, soprattutto : ” Pena di morte e Chiesa Cattolica” di Catholicus ( ed. Volpe Roma 1990). Catholicus era uno pseudonimo usato dal defunto Padre Enrico Zoffoli passionista, di cui già si è parlato circa i suoi scritti sui Neocatecumenali.
Un cattolico non può sottoscrive l’elogio della pena di morte, fine a se stessa che ne fa Baudelaire, (chissà se lo sanno i suoi ammiratori). Di tutt’altro sapore è quanto ne dice Joseph de Maistre. Autore di quell’indimenticabile “Elogio del boia “, secondo il quale anche l’essere chiamato a spegnere la vita altrui è una vocazione. La Chiesa ha sempre fondato, con Sant’Agostino, San Tommaso d’Aquino e Taparelli d’ Azeglio, il giudizio non negativo su tale somma pena sui seguenti testi del Nuovo Testamento:
1) «Vuoi tu non dover temere l’autorità? Fai il bene ed avrai lode da essa (…) Ma se fai il male allora devi temere poiché il magistrato non porta la spada inutilmente, essendo ministro di Dio e vendicatore dell’ira divina» ( San Paolo Lettera ai Romani cap. XIII, 4 );
2) «Ma chi avrà indotto al male uno di questi piccini (…) sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa una macina da mulino al collo e fosse sommerso nel profondo del mare» ( Vangelo di San Matteo cap.XVIII, 6).
In effetti, proprio San Tommaso molto si dilunga su cosa comporta la morte per il condannato. Certo che, ad una cultura che esclude ogni riferimento metafisico, quindi, che reputa un’altra vita solo pallida eventualità, è normale che la condanna a morte sembra il massimo affronto. Non a caso è la massoneria, società che ha sempre diffuso l’indifferentismo religioso, che in prima fila in tale impegno (non nei paesi anglosassoni, però, dove influenza la vita pubblica in modo esplicito, la gli sta bene che ci sia, eccome!).
L’Aquinate proprio circa la condanna a morte, raccomanda la massima cura nell’assistere spiritualmente tali galeotti. Questo perché la pena capitale paga in un colpo solo tutti i debiti residui con l’umana e la divina Giustizia, cosa che la semplice morte naturale non fa. Pertanto al colpevole che, sinceramente pentito delle proprie colpe, offra la propria punizione in espiazione di esse colpe, si applicano IN PIENO le parole di Gesù al Buon Ladrone «Oggi sarai in Paradiso con me»
Infatti, non si deve dimenticare che, secondo la cultura cristiana, prima che cominciasse a girare il sofisma della ” rieducazione” ( il Senatore Pisanò, che in carcere c’era stato, sia come giornalista che da detenuto, raccontava che vi aveva conosciuto ogni razza d’uomini: il rassegnato, il disperato, il vendicativo, il tutto sommato soddisfatto, ma il ” rieducato” no!) il fine della condanna è triplice.
Tanto per incominciare deve servire a proteggere e difendere la società dai propri membri cattivi. Poi deve far espiare il colpevole. Ed infine deve riparare le ingiustizie da lui commesse. La ” rieducazione ” è un tipico frutto dell’utopia di Rousseau, secondo cui l’uomo nasce buono per natura ed è la società a guastarlo. Pertanto, in ultima analisi, il reo è innocente!.
Quando l’assassino Buffet salì sulla ghigliottina, gridò la sua speranza di essere l’ultimo ghigliottinato di Francia. Avrebbe dovuto gridare quella di essere l’ultimo assassino!
La punizione del delitto, pertanto, risulta essere più detestabile del delitto stesso e per la vittima non c’è che l’oblìo. Di recente si è molto parlato di quel condannato che ha ottenuto, grazie all’intercessione papale, la grazia. Preferisco ricordare un altro personaggio. Alcuni anni fa, un ” serial killer ” che aveva stuprato ed ucciso numerosi bambini, condannato a morte, non volle assolutamente che si organizzassero campagne in suo favore. Pretese che la pena fosse eseguita al più presto (normalmente tra la pronuncia della sentenza e l’esecuzione passano decenni), proprio perché era sinceramente pentito di ciò che aveva fatto e non vedeva l’ora di ricevere la giusta punizione.
Chiese solo di poter girare una video- cassetta, con la quale narrare la sua storia. E ciò allo scopo di mettere le famiglie in guardia dalla pornografia, di cui era stato gran consumatore fin dall’infanzia. Tale film si può reperire in Italia, rivolgendosi alla piccola casa editrice protestante EUN di Marchirolo (Varese ).
La Chiesa, ripeto, non solo non fa sua, ma al contrario respinge la celebrazione della pena capitale fine a se stessa, come atto sacro ed altamente religioso, che ne fa Baudelaire. Che la reputi cosa non bella traspare dal codice di diritto canonico del 1917 che colpiva di irregolarità perpetua cioè, salvo speciale dispensa papale, rendeva permanentemente inabili a ricevere il sacerdozio non solo il boia, non solo il giudice che aveva comminato la pena capitale, non solo il Pm che l’aveva chiesta, ma persino i testimoni che, con le loro dichiarazioni l’avevano resa possibile (l’Ordine francescano, poi, estendeva tale provvedimento anche ai figli di tutti costoro, rifiutandosi di accettarli). Però, non è illecita.
Il concetto che il reo ha rinunciato di per sé al proprio diritto alla vita, è espresso pari pari a come l’ho scritto io, da Pio XII nei suoi discorsi ai neurologi francesi del 14 settembre 1952 ed al congresso internazionale dei giuristi cattolici del 5 febbraio 1955.
Che Dio proibisca la vendetta privata, perché se ne vuol riservare l’esclusivo monopolio è verissimo. Ma che, sulla base del versetto di Romani XIII,4 da me citato, che, sempre secondo le dichiarazioni di Pio XII in quelle occasioni, ha valore universale, tanto nel tempo che nello spazio, lo stato sia il ministro incaricato di eseguirla, è altrettanto vero. Che la redenzione del reo sia un evento a carattere metafisico, è una verità ormai taciuta da tutti. Lo ripeto.
Se un’altra vita è vista solo come remota eventualità, è normale che la pena capitale sia il massimo affronto. Ma chi sa che la vita non finisce quaggiù, sa che vita e morte sono mezzi per unirsi a Dio. La compagnia di San Giovanni decollato era una congregazione incaricata di curare l’assistenza spirituale ai condannati a morte. Quante conversioni ha operato San Giuseppe Cafasso. Quante lettere di condannati a morte della Resistenza (e della R.S.I.) sono esempi di conversioni solenni!
Da Nicola di Tauldo, assistito sul patibolo da Santa Caterina da Siena, a Felice Robol, confortato da Antonio Rosmini a Jacques Fesch, ghigliottinato nel ’57, quanti delinquenti hanno avuto necessità della suprema condanna per raggiunger un commovente grado di perfezione spirituale. Il fatto che la pena capitale paghi in un colpo solo tutti i debiti residui con l’umana e la divina giustizia è una sentenza di San Tommaso D’Aquino (Summa theologica, voce «mors»).
La pena di morte ed ogni pena, se per questo, se non si degradano a pura difesa, o peggio ancora, ad arbitrio di un tiranno, presuppongono sempre una sorta di “diminuzione morale” del reo. La società non priva un colpevole del diritto alla vita o alla libertà. Si limita a prendere atto che, tali diritti, inviolabili nell’innocente, lui reo, depravando la volontà, li ha già in un certo senso “scemati”.
In conclusione: la pena di morte, anzi ogni pena, è illegittima se si pone l’indipendenza dell’individuo verso la legge morale. Cioè se i concetti di bene e male, giusto e sbagliato, sono messi solo sul piano soggettivo. Se esistono in modo oggettivo, allora anche le pene sono legittime per i violatori volontari.
Non c’è alcuno diritto incondizionato ai beni della terra. L’unico diritto simile è quello ai mezzi necessari per la felicità eterna. Nessuna pena li può togliere, nemmeno la pena capitale. Se poi, rinchiudiamo tutto nel campo dell’orizzonte terreno, è normale che sembri barbara