Fondazione Magna Carta
A Cesare e a Dio
Gli incontri di Norcia Libertà e laicità
15/16 ottobre 2005
intervento di don Massimo Camisasca
Ritengo che un’identica sfida interpelli oggi il mondo delle democrazie, la Chiesa cattolica e, più in generale, l’intero mondo degli uomini. Una sfida che si può esprimere sotto forma di domanda: vivere un’appartenenza esclude l’esperienza della libertà? Appartenenza e libertà sono incompatibili, si escludono a vicenda? Dichiaro fin dall’inizio la conclusione cui voglio giungere: non solo appartenenza e libertà non stanno in contrapposizione, ma esse sono necessarie l’una all’altra. Dove non c’è appartenenza non c’è neppure libertà, e dove non c’è libertà non c’è vera esperienza di appartenenza.
In questa consapevolezza si raccoglie la sintesi della mia vita vissuta accanto a don Giussani per quarantacinque anni. Il testo principale cui farò riferimento è il suo volume Il rischio educativo, pubblicato all’inizio degli anni ’60, una raccolta di studi di sorprendente attualità, capaci di aiutarci a comprendere e giudicare i problemi di oggi. Ho detto che la riscoperta del rapporto fra appartenenza e libertà è decisivo per ogni uomo.
Vorrei sottolineare quanto lo sia per la Chiesa cattolica, per le chiese, per ogni comunità cristiana. Se esse non riusciranno a mostrare quanto sia ragionevole appartenere, quanto tale esperienza corrisponda all’originaria realtà dell’uomo, inevitabilmente finiranno col perdere la loro ragion d’essere e la loro capacità di fascino per l’uomo. Questa è, d’altra parte, la questione fondamentale anche per le comunità civili e statali del nostro tempo, comunità regionali, nazionali e sopranazionali, oggi più che mai alla ricerca di un fondamento nuovo del loro diritto.
La coscienza del mondo classico, greco e romano
La dialettica fra appartenenza e libertà appare in modo riflesso, per la prima volta, nel mondo greco ’classico’ e poi in quello romano. Se guardiamo a ciò che i più grandi pensatori greci hanno scritto sulla libertà, scopriamo una sorta di processo pendolare che ritornerà poi in tutta la storia dell’Occidente: la libertà è concepita da una parte come capacità di poter disporre autonomamente di se stessi, dall’altra come appartenenza a un popolo, a una città, a uno Stato.
Nell’epoca classica, i greci concepiscono la libertà soprattutto come libertà politica. Libero è colui che appartiene alla polis, perché solo la polis, la comunità autosufficiente, permette l’autonomia. La libertà non è dunque percepita come qualcosa di assoluto, bensì come relazione. Non a caso Platone sostiene che lo stato libero debba nascere da tre fonti: la libertà, l’amicizia, la comunione di pensiero. Se mancano queste caratteristiche, non si può parlare di libertà.
Di Platone sono molto significative alcune righe del libro Sulle Leggi: «Quando si sfugge all’ubbidienza dovuta al padre, alla madre e alle persone più anziane si è vicinissimi alla fine, alla fine della libertà e della democrazia». La libertà estrema, dunque, paradossalmente coincide con l’estrema schiavitù. Con il sorgere degli imperi cosmopolitici dell’ellenismo, il mondo greco attraversò un altro momento grandioso.
Fu allora che gli Stoici giunsero alla conclusione che per essere liberi bisogna emanciparsi da ogni legame temporale e vivere soggetti soltanto a Dio. Per gli Stoici la vera libertà non è più quella politica, ma piuttosto una dimensione personale: libero è chi si riconosce al di sopra delle vicende terrene che incombono su di lui con necessità ineludibile. Ciò non esclude, anzi implica, il legame con l’assoluto, che costituisce il punto di riferimento della vita.
C’è infatti un “luogo” della nostra persona, l’anima, che è rapporto con l’infinito. Mentre tutte le cose a noi esterne non sono in nostro potere, dell’anima possiamo invece disporre pienamente: nessuno può obbligarci ad aderire al male né impedirci di aderire al vero. Questa affermazione della libertà dell’uomo come rapporto personale con l’infinito sarà uno dei temi centrali anche nell’insegnamento di don Giussani. Nel mondo romano, la libertà torna ad essere un concetto politico.
Per i Romani la libertà si fonda infatti sull’appartenenza alla medesima patria, sulla cittadinanza romana. Libero è il cittadino romano. Però, a differenza dei Greci dell’età classica, la libertà non rimane legata puramente ad un’appartenenza alla stessa etnia, allo stesso sangue, perché i Romani sono capaci di assimilare anche uomini appartenenti ad altri popoli, razze e culture, conferendo loro la cittadinanza romana. Ciò avviene in forza del diritto, potente fattore di integrazione culturale.
L’alba del cristianesimo
Con la nascita del cristianesimo si affaccia sull’orizzonte del mondo un nuovo tipo di libertà, che trova il suo fondamento in una nuova appartenenza: l’appartenenza a Cristo. È il tema centrale di alcune lettere di san Paolo, in particolare delle lettere ai Romani e ai Galati. Si può dire che in tale dialettica Paolo trasferisce tutta l’urgenza, da lui stesso avvertita e vissuta in prima persona, di superare non solo il mondo pagano, ma anche il modo di vivere la legge mosaica tipico dei farisei.
Per Paolo, la libertà non è un ripiegamento sulla parte più profonda di noi stessi, sulla nostra anima, come lo era stato per gli Stoici, bensì, al contrario, un uscire da se stessi verso l’evento di una vita che si dona senza riserva per gli altri.
Il superamento della schiavitù della legge si realizza soltanto attraverso la scoperta di un uomo e di una comunità legata all’infinito, in cui l’uomo stesso di ogni tempo, senza essere sciolto dai suoi condizionamenti interiori, trova la strada per la realizzazione di sé. Si può dire che in Paolo, proprio per la passione e lo spirito totale che lo contraddistinguono, incontriamo la massima espressione dell’identità tra libertà e appartenenza.
Per lui non c’è nessuna contraddizione tra i due termini. Addirittura egli nega che vi sia contraddizione fra la libertà portata da Cristo e la schiavitù come condizione sociale –in questo modo, sia detto per inciso, egli pone le premesse per il superamento di quest’ultima–.
Cosa ci insegna dunque l’apostolo? Che i condizionamenti non determinano la persona; che, al fondo, la libertà non dipende da essi. Per questo egli invita a non rifiutarli, a restarvi dentro, perché la libertà non è assenza di condizionamenti, ma il rapporto con Colui che ci ha resi liberi vincendo la morte.
Se viviamo in lui, ogni condizionamento cessa di essere prigionia e diventa occasione. La coscienza di appartenere a Cristo coincise, per i primi cristiani, con una nuova, potente esperienza di libertà. Certi non essere definiti da nessun potere terreno essi poterono resistere allo stato che pretendeva di determinare le loro coscienze, arrivando perfino ad abbracciare il martirio.
Il medio evo
Tale esperienza di libertà è stata poi approfondita, anche dal punto di vista filosofico, nella tradizione cristiana medioevale. Sant’Agostino, ad esempio, ha sottolineato come al di fuori di un riferimento alla trascendenza non esista uno stato giusto né una convivenza libera. Descrivendo la città del mondo, egli ha scritto: «Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli stati se non delle grandi bande di ladri?».
Importante per il nostro tema è anche la distinzione, posta da san Tommaso, tra libertà e libero arbitrio: il libero arbitrio consiste nella pura capacità di scegliere, la libertà invece trova la sua perfezione solo quando è ordinata a Dio, nella beatitudine. L’uomo, con le sole sue forze naturali, non può veramente essere libero, egli abbisogna del sostegno divino per soddisfare il suo illimitato desiderio.
L’epoca moderna
La rottura decisiva del fecondo rapporto tra appartenenza e libertà si verifica all’inizio dell’epoca moderna, quando, in seguito allo scisma protestante e alle successive guerre di religione, la politica tenta di rompere il nesso diretto tra la la singola persona e Dio. Nell’età dell’assolutismo, il sovrano tende a determinare tutti gli aspetti della vita dell’individuo, perfino il suo credo religioso.
Stato e religione finiscono per confondersi, la religione torna, come nell’antichità, ad essere un affare di stato. Nello stesso tempo si cerca di ridurre il peso dell’appartenenza del singolo ad entità non statali come la Chiesa, come la famiglia e le corporazioni.
Se il sistema assolutista viene teorizzato e giustificato, a partire da presupposti nominalisti, da autori come Thomas Hobbes, da molti altri esso è percepito come uno spaventoso abuso di autorità e come un serio pericolo per le libertà dei singoli. Per questo, nell’età dell’Illuminismo, si registra lo sforzo di elaborare modelli di vita politica alternativi. La scuola alquanto influente dell’illuminismo francese –Montesquieu, Voltaire, Rousseau…– percorre la via della limitazione formale del potere del monarca: divisione dei poteri, libertà di espressione, rispetto della volontà popolare.
Tale liberalismo, che sboccherà poi nella rivoluzione, vede in qualsiasi appartenenza, e soprattutto in quella religiosa, una minaccia per la libertà e sostiene pertanto la necessità di una netta separazione tra religione e stato, tra fede e politica. Altre società intraprendono invece una via diversa, contraria a quella illuminista.
Sono i modelli cosiddetti fondamentalisti, che tentano di salvare i valori tradizionali imponendoli al popolo, dimenticando che tali valori si svuotano se non sono accettati in modo libero. È impossibile salvaguardare l’appartenenza del singolo cittadino al popolo senza rispettarne la libertà, proprio come è impossibile salvaguardarne la libertà negandogli ogni appartenenza.
Gli Stati Uniti d’America
Un modello più equilibrato si è realizzato negli Stati Uniti, dove si è riconosciuto che il singolo politico, per poter davvero dare il proprio contributo al bene comune, ha bisogno di una base religiosa e morale che lo stato non gli può fornire. Tocqueville ha scritto in tal senso: «Il dispotismo può fare a meno della fede, la libertà no».
L’Italia
Per ragioni storiche ben precise legate alla sua genesi e quindi alla lotta contro lo Stato Pontificio, il liberalismo italiano ha seguito piuttosto il modello francese. Ma affermandosi da subito come laicismo, come liberalismo contro Dio, si è presto rivelato liberalismo contro l’uomo. Nella concezione laicista, infatti, l’uomo non dipende da Dio, non dipende dall’Assoluto, non dipende da nessuno.
Ma privato di tale rapporto, strappato dal legame con una tradizione, anche criticamente ripensata, l’uomo si trova inevitabilmente a dipendere da chi, in un determinato momento storico, esercita il potere. Senza tradizione, si è privi di un metro per giudicare e si resta in balia delle opinioni della maggioranza. Tutto perde valore e si finisce vittime dello scetticismo e della delusione.
Le diverse battaglie culturali condotte dal movimento di Comunione e Liberazione negli anni ’60, ’70, ’80, sono state il tentativo di difendere l’idea di scuola come continuità di uno sviluppo critico del dato operato dalla famiglia, l’idea di tempo libero come possibilità di educazione non imposta dallo Stato, l’idea di comunità elettiva come luogo in cui la persona possa verificare un’ipotesi di vita e di lettura della realtà.
Il compito
Gli uomini e la Chiesa si trovano dunque davanti ad un compito nuovo: quello di riscoprire il nesso fra appartenenza e libertà, mostrando la necessità per la vita democratica da una parte e per la vita ecclesiale dall’altra, di riconoscere il valore della tradizione viva e assieme l’importanza che essa vada continuamente rivissuta, ripensata e riscritta dentro il tessuto della storia. La speranza è che il liberalismo, dopo la fine del comunismo –almeno del comunismo sovietico–, di fronte alla possibilità di un abbraccio con il pensiero radicale, non voglia negare se stesso, perché il liberalismo è coniugazione di appartenenza e libertà.
Altri interventi sono disponibili sul sito dell’associazione