da Tempi n.8
Agosto 2019
Controllo dei flussi, rispetto delle leggi, repressione degli abusi. La Chiesa sa parlare molto chiaro quando lo richiede la realtà
di Luca del Pozzo
La questione dei migranti è oggetto di dispute infarcite di luoghi comuni o, peggio, risse da stadio con gli ultras delle opposte tifoserie a urlare slogan triti e ritriti. Più interessante invece è domandarsi se, nel marasma che ci affligge, esistano dei punti fermi ai quali ispirarsi muovendo da una prospettiva cattolica.
Intanto è opportuno sgombrare il terreno da, appunto, un luogo comune, tra tanti, è forse il più radicato, almeno nel politicamente corretto imperante. Quello secondo il quale i migranti sarebbero misérableas dei nostri tempi, gli ultimi della terra, uomini donne vecchi e bambini costretti a scappare da situazioni di abbandono e di miseria.
Le cose stanno diversamente. Lo dimostra, ad esempio, il resoconto pubblicato il 18 maggio scorso nella rubrica “Data Room” del Corriere della Sera, che fin dal titolo pone le cose in una prospettiva ben diversa da quella comune: “Sui barconi sale la classe media, i più poveri non si spostano”.
Il fatto eclatante è che «negli ultimi sei anni si 1 milione 85 mila migranti africani sbarcati in Europa, il 60 per cento proviene da paesi con reddito pro capite tra i 1.000 e i 4.000 dollari l’anno, considerato medio-basso dalla Banca mondiale per il continente africano. Il 29 per cento tra i 4 e i 12 mila dollari, ossia medio-alto; il 7 per cento da paesi dove c’è un reddito alto (sopra i 12.000 dollari) e solo il 5 per cento da paesi poverissimi (sotto i mille dollari).
In Italia questa percentuale scende addirittura all’1 per cento. Infatti nello stesso periodo, su 311.000 arrivi di immigrati africani il 65 per cento proviene da paesi con un reddito medio-basso, il 33 per cento medio-alto». Sono così smentite certe rappresentazioni strappalacrime del fenomeno migratorio, inficiate da un malcelato quanto infondato senso di colpa occidentale, ed europeo in particolare, per via del colonialismo.
Il diritto di restare nella propria terra
Ma quei dati fanno a sportellate anche con una certa lettura della globalizzazione vista come la causa remota della disparità tra zone ricche e zone povere del pianeta: «Secondo il center for Global Development di Washington, che ha analizzato migliaia di censimenti nazionali nel corso di 50 anni, la Grande Migrazione è un effetto collaterale della globalizzazione, che ha determinato il crollo della povertà assoluta. Sembra assurdo, ma uno dei più grandi successi della nostra epoca ha indirettamente messo in moto i barconi».
Anche per questo non convince la “mistica del migrante” che spesso accompagna uscite e prese di posizione in ambito cattolico.Il che ci porta dritti alla domanda iniziale, rispetto alla quale è possibile rinvenire nel magistero della Chiesa alcuni punti fermi da tenere presenti. A partire dal principio, affermato da Benedetto XVI nel messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2013, che «nel contesto socio-politico attuale, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra».
Un concetto che riecheggia quanto l’allora pontefice Karol Wojtyla sottolineò nel discorso al IV Congresso mondiale delle migrazioni del 1998: «Diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione».
Questo è fondamentale: agire sui fattori che spingono all’emigrazione; allo stesso tempo, apertura all’accoglienza cercando tuttavia di evitare, diceva Benedetto XVI nello stesso messaggio, «il rischio del mero assistenzialismo per favorire l’autentica integrazione, in una società dove tutti siano membri attivi e responsabili ciascuno del benessere dell’altro».
Le basi della convivenza
Ma è l’esortazione apostolica post sinodale Ecclesia in Europa, pubblicata da san Giovanni Paolo II il 28 giugno 2003, il documento che forse offre la visione più organica in materia. Mi limito a due aspetti in particolare.
A proposito del ruolo dello Stato, secondo Wojtyla è «responsabilità delle autorità pubbliche esercitare il controllo dei flussi migratori in considerazione delle esigenze del bene comune. L’accoglienza deve sempre realizzarsi nel rispetto delle leggi e quindi coniugarsi, quando necessario, con la ferma repressione degli abusi».
Verrebbe da chiedersi se termini come “controllo” (dei flussi), “rispetto” (delle leggi) e – udite udite – “repressione” (degli abusi) siano ancora parte della sensibilità ecclesiale.L’altro aspetto riguarda l’integrazione, che nell’ottica giovanpaolina fa tutt’uno con il rifiuto dell’indifferentismo: «Essa esige che non si abbia a cedere all’indifferentismo circa i valori umani universali e che si abbia a salvaguardare il patrimonio culturale proprio di ogni nazione.
Una convivenza pacifica e uno scambio delle reciproche ricchezze interiori renderà possibile l’edificazione di un’Europa che sappia essere casa comune, nella quale ciascuno possa essere accolto, nessuno venga discriminato, tutti siano trattati e vivano responsabilmente come membri di una sola grande famiglia».
Chi ha orecchi per intendere, intenda.