I documenti conciliari nel commento di Steven J. Schloeder
di Giovanni Ricciardi
Dal 2005 il testo è disponibile anche in una pregevole traduzione italiana curata da Ciro Lomonte (Steven J. Schloeder, L’Architettura del Corpo Mistico. Progettare chiese secondo il Concilio Vaticano II L’Epos, Palermo 2005, pp. 314, curo 34,80).Un contributo importante in un campo in cui le sperimentazioni operate dopo il Concilio appaiono spesso discutibili, soprattutto se messe a confronto con la lettera del dettato conciliare. Ed è merito di Schloeder procedere, nel suo manuale, a diretto contatto con i documenti della Chiesa, muovendosi sapientemente tra il piano teologico, quello storico-artistico e quello più propriamente tecnico-architettonico. A lui abbiamo rivolto alcune domande.
Come è nata l’idea di scrivere un manuale per gli architetti che si cimentano nella progettazione di una chiesa cattolica?
Nel 1988 cominciai a studiare le applicazioni del Concilio Vaticano II in relazione all’architettura,. Questa ricerca era mossa dall’intuizione che ci fosse una sproporzione tra la nobile visione che il Concilio dava della persona umana, della liturgia, della vita parrocchiale, tra il suo linguaggio, che evidenziava chiaramente un rispetto per le profonde tradizioni della Chiesa, e gli orientamenti degli edifìci liturgici e delle opere dì arte sacra che venivano realizzati «nello spirito del Concilio».
La grande maggioranza delle chiese costruite a partire dal 1960 erano uniformemente banali, poco interessanti, liturgicamente bizzarre e poco ispirate. Mi sono proposto di verificare se vi fosse davvero questa divaricazione, e costatando che esisteva, ho cercato di considerarne le cause e mi sono posto il problema di come recuperare una autentica visione di architettura cattolica.
Qual era l’intendimento dei Padri conciliari a proposito della costruzione delle chiese?
Non direi che i Padri conciliari avessero una particolare visione riguardo alla progettazione delle chiese, perlomeno nulla che si potesse considerare differente da quell’orientamento liturgico che era rimasto pressoché costante per duemila anni.
Da un’attenta lettura dei documenti conciliari appare evidente che la «partecipazione attiva» dei fedeli (participatio actuosa) non era intesa anzitutto come un principio da prendere quale base per una nuova strutturazione dell’edificio sacro, ma piuttosto come un atteggiamento interiore, spirituale del cuore dei fedeli. Analogamente, il linguaggio di «nobile semplicità» di cui parla il Concilio non è riferito allo spazio liturgico. Ma erano al lavoro altre forze culturali, architettoniche e liturgiche, che «tradussero» le parole del Concilio in termini di trasformazione dell’architettura sacra.
Esse identificarono un’ipotetica «chiesa del Vaticano II», che avrebbe dovuto favorire la «partecipazione attiva», con un modello di edificio in cui l’assemblea e disposta a ventaglio intorno all’altare, E intesero per «nobile semplicità» delle costruzioni austere, completamente deprivate di immagini sacre.
Il modello della chiesa «a ventaglio» ha precedenti storici?
Per comprendere i mutamenti dell’architettura cattolica a partire dal Concilio Vaticano lI, occorre tornare indietro a quaranta o cinquant’anni prima del Concilio. Il buon lavoro del Movimento liturgico all’inizio del XX secolo ebbe forse la sua più influente espressione in campo architettonico con Rudolf Schwarz, che operò a stretto contatto con Romano Guardini, nel movimento giovanile cattolico «Quick-born».
Nel contesto profondamente permeato dalla cultura romantica, qual era quello della Germania all’indomani della Prima guerra mondiale, Guardini modellò la liturgia e la vita cristiana sugli ideali cavallereschi del Medioevo. Egli incoraggiava i giovani a comportarsi come dame e cavalieri e fece del grande castello medioevale di Burg Rothenfels il centro del suo movimento giovanile.
Curiosamente, il suo modello di riferimento per la liturgia non era l’espressione sacramentale della Passione, Morte e Risurrezione di Cristo, e neppure l’istituzione della Cena del Signore e il suo compimento celeste nel banchetto di nozze dell’Agnello, ma la nozione epica dei cavalieri della Tavola Rotonda.
Le liturgie di Burg Rothenfels si tenevano nella Ritter-yaal, o Sala dei Cavalieri, con Guardini da un lato della tavola e i giovani di Quickborn sugli altri tre lati. Questa, nella mia ricerca, la genesi della moda della «liturgia avvolgente» e del versus pòpulum, espressione non di una vera dinamica liturgica, ma piuttosto di una contingente situazione storica della Germania di Weimar; la quale ha più a che fare con il Romanticismo tedesco e le leggende di re Artù che con il linguaggio sacramentale della santa Messa.
Questi primi esperimenti liturgici causarono una grande contusione nelle loro più vaste applicazioni e influenzarono indebitamente l’applicazione delle indicazioni del Concilio Vaticano II sull’architettura cultuale per vari decenni. Ciò ha prodotto parecchie generazioni di edifici liturgicamente mal concepiti.
Solo recentemente, negli ultimi dieci anni, teologi, liturgisti e architetti hanno cominciato a mettere attivamente in discussione questi orientamenti, ripensando un approccio troppo sterile e funzionalista all’ambiente liturgico e sviluppando una sintesi della grande tradizione cattolica in campo architettonico e artistico con le esigenze costruttive dell’edificio contemporaneo.
Dunque i profondi cambiamenti dell’architettura delle chiese negli ultimi quarant’anni non sono attribuibili direttamente ai testi conciliari?
L’idea che i Padri conciliari desiderassero una rottura radicale col passato, sia in termini di comprensione liturgica sia di stile artistico e di espressione architettonica, non può essere supportata attraverso la lettura dei documenti conciliari e neppure delle varie interpretazioni a livello canonico e liturgico realizzate a corredo del buon lavoro del Concilio. I grandi cambiamenti avvenuti sono dovuti al fatto che molti, nel clero, fra i liturgisti e gli architetti, hanno letto nei documenti conciliari quello che hanno voluto leggervi.
Per esempio, è chiaro che il primo modello ecclesiologico espresso nella Lumen gentium è ancora quello del Corpo Mistico, e, ciononostante, i liturgisti hanno avuto la tendenza a ignorarlo. Anche sottili enfatizzazioni possono causare significativi cambiamenti d’espressione. I documenti del Concilio Vaticano II non dicono nulla a proposito della rimozione del tabernacolo o delle balaustre dal presbiterio, della rinuncia all’arte figurativa o di una presunta opzione per chiese intonacate a bianco, per templi costruiti a forma di ventaglio, che rifiutano gli stili storici, rimpiazzando i banchi con sedie, eliminando gli inginocchiatoi, rinunciando al tradizionale altare di pietra in favore di mense di legno, e via discorrendo: un gran numero di altri cambiamenti che rappresentano i segni distintivi delle cosiddette chiese postconciliari.
A differenza dell’Oriente cristiano, in Occidente l’architettura sacra si è evoluta nei secoli, conoscendo stili sempre diversi. Facendo un paragone con la musica, del gregoriano la Chiesa stessa dice che è la forma di musica più adatta alla liturgia cattolica. Esiste qualcosa di simile in architettura? Esiste uno stile cattolico per eccellenza?
Come appare chiaro dalla costituzione Sacrosanctum Concilium, non esiste uno «stile cattolico» in senso stretto, in arte o in architettura. In realtà, la Chiesa ha ammesso nel corso dei secoli una varietà dì stili a servizio della liturgia, che hanno espresso la natura sacramentale della Chiesa attraverso alcune metafore fondamentali.
Queste metafore, che sono radicate in profondità nell’esperienza elementare dell’uomo e danno forma al linguaggio dell’ecclesiologia nella Scrittura, comprendono le nozioni di incarnazione (il corpo di Cristo), di dimora (la tenda e il tempio), di matrimonio (la Sposa, lo Sposo e il banchetto nuziale) e di società ordinata (la Gerusalemme celeste). È questo linguaggio di archetipi che ha soprattutto informato di sé la creatività dei cattolici, orientando modelli delle chiese di tutte le epoche.
Questi archetipi pressoché sono pressoché indipendenti dallo stile, benché uno stile particolare possa aver privilegiato un’espressione specifica, come il motivo del tempio nel recupero, operato dal Rinascimento, della tradizione classica, o la nozione di Gerusalemme celeste cosi potentemente espressa nello stile gotico. In ogni caso, l’architettura cattolica non è mai una questione di stile, bensì una questione sacramentale.
Quali sono gli elementi irrinunciabili che fanno di un edifìcio una chiesa cattolica in linea con la sua tradizione?
Non è una questione di singoli elementi da mettere in una lista di priorità, come per esempio un grande ingresso, le torri campanarie, i banchi, il programma iconografico, un presbiterio rialzato con altare, ambone e tabernacolo, una spiccata verticalità e cose del genere. Tutte queste cose sono importanti, ma derivano da qualcosa di più essenziale. Non si tratta neppure di costruire in uno stile particolare, basilicale, gotico o neoclassico, benché questi stili siano dei potentissimi contenitori di memoria e aiutino i fedeli a situarsi nella continuità della tradizione.
È piuttosto un approccio sacramentale che tenga conto del rapporto tra l’edificio sacro e i suoi singoli elementi mediante la comprensione delle grandi metafore – Corpo, Tempio, Città – ognuna delle quali, a loro volta, sono relazioni di «parti con il tutto». Questo approccio ci rimanda al concetto di «spazio particoareggiato», che integra funzione, forma, collocazione e significato. Ciò può essere compreso in opposizione allo «spazio universale» dei razionalisti cartesiani, o agli esercizi formali amorfici, disorganici, e simbolicamente privi di significato dei decostruttivisti.
Ognuno dei modelli della chiesa – Corpo, Tempio e Città – interpreta la chiesa nel suo insieme in termini di singole parti in stretta relazione l’una con l’altra, che a loro volta formano un complesso riconoscibile. Questa serie di relazioni produce un «metalinguaggio» complessivo che unisce tutte le chiese cattoliche, dalla basilica paleocristiana, attraverso le chiese bizantine d’Oriente, fino alle chiese romaniche e goti-che del Medioevo e agli edifici sacri rinascimentali e barocchi, in cui la relazione tra forma, funzione, collocazione e «significato» è organicamente espressiva.
Quando, al contrario, queste relazioni formali non sono chiaramente espresse, come nella nuova cattedrale di Los Angeles progettata da Moneo, il passante è costretto a considerare l’edificio nient’altro che una massa di relazioni inarticolate. Praticamente, da ogni angolo visuale l’edificio non riesce a comunicare altro che l’impressione di un volume urbano grande e urtante. Il visitatore non ha il senso del coinvolgimento con l’edificio o con gli spazi interni: il mistero dell’edificio resta nascosto all’interno, non diversamente da un televisore custodito in una scatola da imballaggio.
Fra parentesi, mettendo a confronto le soluzioni progettuali presentate al concorso per la Chiesa del Millennio a Roma, in un certo senso, a dispetto della debolezza della sua forma intesa come contenitore di memoria, la proposta di Frank Gehry soddisfaceva di più a questo criterio di forme discrete che esprimono le funzioni e le relazioni in un insieme organico; mentre, nonostante la sua potenza formale, il progetto vincitore di Richard Meier è carente sotto questo profilo, perché le tre vele rigonfie che conferiscono all’edificio la sua caratteristica più tipica, non riescono a essere lette come forme organicamente correlate e capaci di esprimere il significato degli spazi interni.
Il suo manuale tenta di fornire queste indicazioni?
Il problema fondamentale che ho cercato di affrontare è una questione di linguaggio architettonico, cioè come l’edificio sacro possa esprimere, nel migliore dei modi, la visione sacramentale che la Chiesa ha della liturgia e dello spazio liturgico. I documenti del Concilio offrono una guida interessante per considerare i cambiamenti liturgici. Nella Sacrosanctutn Concilium (23), i Padri osservano che, prima di attuare dei cambiamenti nella liturgia, dovrebbero essere fatte ricerche approfondite a livello teologico, storico e pastorale.
Inoltre, le leggi generali che governano la struttura e il significato della liturgia debbono essere studiate soprattutto in relazione agli effetti pratici dei cambiamenti liturgici che ci si propone di operare. Infine, ogni cambiamento può essere lecito solo al fine di promuovere il vero e autentico bene della Chiesa, e questi cambiamenti devono essere effettuati in modo organico, e non con mutamenti radicali. Questo passaggio mi ha dato una base per considerare gli edifici sacri come un insieme, e ogni parte della chiesa in relazione ai suoi aspetti teologici, storici, pastorali, canonici, simbolici e artistici.
È da questo punto di partenza che ho derivato la nozione di «linguaggio sacramentale» per l’architettura cattolica, sostenendo che il recupero e il futuro sviluppo di questo linguaggio sono fondamentali per continuare a progettare chiese capaci di parlare agli uomini di oggi delle sempre valide verità della fede.
Che cosa intende esprimere col titolo Architecture in Communion (la traduzione italiana è L’Architettura del Corpo Mistico)?
Il titolo Architecture in Communion contiene diversi significati connessi tra loro: eucaristico, ecclesiologico e relazionale. Per me, il senso del rapporto con la storia e con la vasta esperienza dell’edificio sacro della Chiesa cattolica lungo i secoli e in tutto il mondo è il più significativo. Il poetico titolo italiano, L’Architettura del Corpo Mistico, è una bella espressione che concentra il campo d’attenzione sull’immagine più importante per i cristiani: il Corpo di Cristo.
Anche in quest’immagine sono implicati più significati in connessione tra loro: anch’essa è eucaristica, ecclesiologica e relazionale. Inoltre, suggerisce un aspetto dell’edificio sacro connesso al mistero dell’Incarnazione: e cioè che l’edificio stesso in cui è offerto il Corpo del Signore nella santa Messa, e in cui la Chiesa è radunata come una espressione vivente di quel Corpo, è esso stesso una manifestazione di quel Tempio e di quella Città celeste che le Scritture identificano con Gesù stesso.
In questi ultimi decenni gli architetti dello star System internazionale hanno inizialo a cimentarsi con le chiese cattoliche. Basti citare la cattedrale di Evry di Mario Botta, quella di Los Angeles di Monco, la Millennium Church dì Richard Meier nella periferia di Roma o la basilica di Renzo Piano a San Giovanni Rotondo. Come giudica questo rinnovato rapporto tra la Chiesa e gli artisti contemporanei?
Mario Botta ha scritto cose molto intelligenti sul tema dell’architettura sacra, ed è certamente uno dei miei preferiti tra gli architetti contemporanei. Le proporzioni, le geometrie, le qualità formali, l’uso dei materiali e i dettagli del suo lavoro sono, secondo me, molto soddisfacenti dal punto di vista intellettuale. Ma ho l’impressione che anch’egli sia lontano dal cogliere il nocciolo della questione e forse non e mai stato seriamente sollecitato a cimentarsi nel progetto di un edificio che parli dell’Incarnazione.
Lo stesso direi per Meier e per gli altri architetti invitati a presentare progetti al Concorso per la Chiesa dell’anno 2000. Negli ultimi cinquant’anni, da quando Couturier tentò di avviare un dialogo con i maestri contemporanei come Le Corbusier e Matisse, non c’è stato altro che un monologo, che ha visto la Chiesa in atteggiamento passivo di fronte all’architettura contemporanea. E questo accade ancora oggi: Meier a Roma, Boll a Seattle, Monco a Los Angeles, Piano a Foggia, e adesso SOM a Oakland.
La Chiesa non ha ancora realmente provocato il genio contemporaneo a confrontarsi con la sua specificità, con le sue necessità di culto, di devozione, teologiche e antropologiche. Non ha mai chiesto a Peter Eisenman di progettare una chiesa che parli della Gerusalemme celeste o a Tadao Ando di studiare il problema della forma in rapporto ai dettami dell’Incarnazione. Senza una guida sicura e un vero dialogo, chiedere a Peter Eisenman o a Frank Gchry di progettare una chiesa cattolica equivale a chiedere a Jacques Derrida di scrivere un catechismo.
In molte chiese dell’Occidente latino c’è la tendenza a esporre riproduzioni di icone orientali. Le sembra un fatto positivo? Non le pare che sia questo il segno di una crisi dell’arte occidentale, divenuta troppo astratta, troppo distante dal linguaggio del popolo, in rapporto ali ‘immagine sacra? E l’architettura non soffre dello stesso problema?
Ho l’impressione che il fascino esercitato sugli occidentali dalle icone orientali sia una risposta all’assenza dì figurazione nell’arte sacra della seconda metà del XX secolo. L’Occidente ha largamente perduto il senso della forma umana nelle sue arti, dimenticando i principi più importanti dell’antropologia e dell’epistemologia cattoliche che insegnano il potere della memoria e dell’immaginazione, nonché l’importanza della forma nella comunicazione dell’essere.
Vi sono, comunque, artisti cattolici di grande merito e genialità spirituale che oggi stanno cercando di recuperare la forma umana in risposta alla teologia del corpo promossa da Giovanni Paolo II: pittori come James Langlcy al Sa-vannah College of Art, scultori come Joe Orlando in Virginia, e il brillante decoratore Jed Gibbons a Chicago, il cui lavoro è ispirato alle miniature dei manoscritti medioevali. Questi uomini sono radicati nella tradizione, benché i rispettivi loro lavori siano improntati a forme d’espressione contemporanea, profondamente spirituali e teologicamente fondate.
Nel campo dell’architettura per il culto, ho la percezione di un grande cambiamento, perlomeno nell’esperienza americana. Oggi, anche i vecchi liturgisti stanno riconoscendo la necessità di un ritorno a forme tradizionali, ad ambienti più capaci di parlare al cuore, e un recupero del mistero. I fedeli stanno tornando a esprimere il desiderio di luoghi di adorazione, che siano profondamente belli e parlino dell’orizzonte trascendente verso il quale ci muoviamo come cristiani.
Quando incominciai questo lavoro, alla fine degli anni Ottanta, non esistevano risorse o altri accademici o architetti, che io sappia, che si ponessero le domande che lei ha posto a me. Oggi vedo una grande speranza per l’architettura cattolica: architetti e committenti stanno tornando ad appropriarsi del linguaggio e dei principi che hanno dato forma al grande patrimonio dell’architettura cattolica nei millenni, così come stanno cercando di fornire risposte adeguate per venire incontro alle necessità del nostro tempo.