di Augusto Zuliani
Da tempo si assiste a un revival dell’ideologia terzomondista in salsa latino-americana, scandito da una serie di eventi, peraltro poco assimilabili Ira loro, come la vittoria di Lula in Brasile, quella più recente di Chavez in Venezuela o della Bachelet in Cile.
Questo revival, che si inserisce nel quadro dei più generale movimento no-global, ha trovato largo spazio in Italia, sia nelle librerie (non solo della catena Feltrinelli) dove abbondano i libri sui movimenti terzomondisti e in particolare su Cuba.
Castro e Che Guevara, dal tono encomiastico e apologetico (1), sia nelle sale cinematografiche, il fenomeno è stato incentivato dalla decisione con cui i ministri degli Esteri dei Paesi membri dell’Unione europea, il 31 gennaio 2005 sospendevano le sanzioni contro L’Avana, scattate il 5 giugno 2003, dopo che settantacinque oppositori del regime – intellettuali, giornalisti e attivisti dei diritti umani – accusati di essere al soldo degli Stati Uniti, erano stati condannati a lunghe pene detentive, e dopo l’esecuzione di tre giovani che avevano progettato il sequestro di un battello per fuggire da Cuba.
L’iniziativa europea veniva motivata con la liberazione di quattordici dissidenti, ma lasciava perplesso uno dei maggiori esponenti del dissenso, Oswaldo Paya, fautore della transizione pacifica dal castriamo alla democrazia, per il quale la Ue con tale gesto dava prova di debolezza, perché doveva subordinare la sospensione delle sanzioni alla liberazione di tutti gli oppositori (2).
Tale indulgenza, in effetti, creava il clima favorevole per una campagna di appoggio al regime lanciata su scala mondiale dal quotidiano spagnolo El Pais, lo scorso marzo, con un appello sottoscritto da centinaia di personaggi della intelligencjia e dello spettacolo, tra i quali in Italia si segnalavano oltre all’ineffabile Gianni Mina, Luciana Castellina, noblease oblige, il cantante Red Ronnie e il maestro Claudio Abbado che pare abbia trovato a Cuba la sua nuova patria.
La maggior parte dei firmatari più noti erano originari di Paesi del Terzo inondo, in particolare dell’America latina, espressione di un neoterzomondismo che ha subito una sorta di mutazione genetica rispetto a quello degli anni 1970 e dei primi anni ’80, quando il movimento poteva contare sull’appoggio, in verità non sempre entusiastico, dei diversi regimi comunisti e in particolare dell’Urss.
Fattori dell’ideologia neoterzomondista
Tre sono i fattori che hanno consentito l’articolazione dell’ideologia neoterzomondista: il collasso del sistema sovietico e degli Stati a esso legati, l’emergere di un islamismo militante a vocazione universalista e il manifestarsi dell’iperterrorismo su scala planetaria dopo l’attacco agli Stati Uniti l’11 settembre 2001 (3). C
he tra questi fattori esistano delle correlazioni è qualcosa di più che un semplice sospetto: non fosse altro per ragioni tecniche e operative gli irriducibili fautori del comunismo e della rivoluzione mondiale hanno intrecciato rapporti a più livelli con i movimenti islamisti di varia origine, nel solco peraltro di una tradizione che risale già all’esordio del regime bolscevico; quando, dopo il Primo congresso dei popoli dell’Oriente svoltosi a Baku nel 1920, prese corpo la «via musulmana» verso il comunismo indicata da Karl Radek e poi incarnata dal tataro Sultan Galiev, collaboratore di Stalin nel Commissariato delle nazionalità (4).
In che modo questo insieme di fattori abbia costituito ÌI tessuto ideologico e organizzativo su cui si e innestato l’iperterrorismo che ha segnato la storia dell’Occidente negli ultimi anni, è difficile dire. Si tratta infatti di un processo ancora in atto, dai contorni piuttosto oscuri, dove i soggetti attivi e le menti strategiche di certo non vanno individuati esclusivamente nell’entità che ha preso il nome di «Al Kaida», con le sue emanazioni più o meno attendibili, e in personaggi dalla ridondante esposizione mediatica.
Tuttavia si possono scorgere alcune linee-guida, poiché la dinamica di questo processo era attivata da tempo, pur rappresentando l’11 settembre un salto di paradigma (5). Già a metà degli anni Ottanta, infatti, lo studioso Roland Jacquard scriveva; «Attraverso gli Stati e i gruppi o gli individui che organizzano o aiutano il terrorismo emana un’idea forte: l’annientamento delle civiltà tradizionali e delle società strutturate.
Ma non c’è dubbio che il terrorismo, più o meno coscientemente, lavora per l’instaurazione di un nuovo ordine, di una ideologia spietata» (6). In ogni caso i tre soggetti – Stato, gruppo o individui – hanno bisogno per operare di uno o più santuari interni o/e internazionali; diversamente la loro sopravvivenza è questione di settimane o al massimo di qualche mese.
Il vecchio terrorismo terzomondista, infatti, poteva contare su diversi e ben muniti santuari in Europa, in Asia, in particolare nel Medio Oriente, in Africa e nelle Americhe dove si impose la novità geopolitica più significativa con l’instaurazione a Cuba di un regime comunista, la cui sopravvivenza alle micidiali turbolenze dell’ultimo quindicennio suscita non pochi interrogativi.
La nascita stessa dello Stato castrista attiene invero a una fenomenologia complessa, in parte estranea alla vulgata marxista-leninista tradizionale, i cui dispositivi ideologico-coercitivi sono poi stati attivati in funzione non solo della sopravvivenza del regime, ma anche e soprattutto per svolgere un’attività di destabilizzazione a livello planetario.
Omicidio Allende: Castro il mandante?
Un importante contributo per decodificare il mistero dell’isola del dottor Castro (7) e demolirne la mitologia è giunto recentemente dalla Francia, con la pubblicazione di un libro dal titolo significativamente ambiguo, Cuba Nostra (8), terminologia usata dalla propaganda di regime, ma che allude anche alla struttura omertosa che innerva il potere a L’Avana. Il suo autore, Alain Ammar, reporter del Tf1 e specialista di Cuba e dell’America latina, si è valso della collaborazione di Juan Vivés ex agente dei servizi segreti castristi, giunto in Francia nel 1979 e di Jacobo Machover, scrittore cubano che da tempo vive in esilio nel Paese transalpino.
Il volume, di oltre 400 pagine, è ricco di testimonianze che gettano nuova luce sugli episodi e sugli aspetti più oscuri e inquietanti che hanno caratterizzato e ancora segnano le vicende di un regime, che si ripropone come campione della «lotta antimperialista». Una delle rivelazioni più sorprendenti riguarda la morte di Salvador Allende che, secondo la testimonianza di Vivés, sarebbe stato ucciso – su ordine di Castro – da una sua guardia del corpo cubana mentre si apprestava a trattare la resa con la Giunta militare.
Se non ci sono prove definitive che confermino tale asserzione, resta pur vero che l’infiltrazione dei castristi nei gangli vitali della vita politica cilena, durante il governo di Unidad Popular, era tale da poterla condizionare fino alle estreme conseguenze.
In effetti l’eliminazione di Allende conveniva sia a Castro, che puntava a farne un nuovo martire-eroe rivoluzionario, dopo la scomparsa del «Che», sia alla Giunta militare liberata da una presenza che, anche dall’esilio, sarebbe stata comunque ingombrante.
Una uccisione quindi voluta da una tacita convergenza di interessi; convergenza, peraltro, testimoniata da un altro episodio significativo svoltosi in quelle tragiche ore, quando i reparti militari consentirono alle guardie del corpo presidenziale, tutte cubane, di abbandonare incolumi il palazzo della Moneda e rifugiarsi nell’ambasciata di Svezia, da cui poi grazie a un salvacondotto poterono ritornare in patria. Pare singolare questa indulgenza del generale Augusto Pinochet verso gli uomini di Castro; in realtà, tra il caudillo rosso dell’Avana e il militare cileno esistevano dei rapporti cui non erano estranee le comuni appartenenze o simpatie massoniche (9).
Spirito di solidarietà internazionale»?
Molte pagine del libro di Ammar sono dedicate all’interventismo delle «legioni cubane» nei vari teatri di guerra del Terzo mondo, sia in America latina sia in Africa e nel Medio Oriente: dal Venezuela, tornato oggi di grande attualità con la presidenza «bolivariana» di Hugo Chàvez, al Sahara spagnolo appoggiando il Fronte Polisario per destabilizzare Marocco e Mauritania, dalla Palestina alla Siria, dove di fronte alle alture del Golan una brigata corazzata cubana schierata contro gli israeliani tra il 1973 e il 1975, subì pesanti perdite.
Lo stesso Castro, in un discorso del 1° maggio 2003, ricordava come «lo spirito di solidarietà internazionale» del suo regime si fosse manifestato su scala planetaria intervenendo in Algeria, Congo, Guinea e Capo Verde, Angola, Vietnam, Bolivia, Nicaragua, Granata, dove il golpe di Maurice Bishop nel 1979 doveva innescare l’operazione chiamata Rosario Rojo per imporre regimi comunisti in tutte le Antille, ma il tentativo fallì per il rapido intervento dei paracadutisti americani appoggiati da unità d’elite del Sas britannico.
In effetti questo attivismo sovversivo che, come Castro affermava nel suo discorso, non era limitato ai soli Paesi citati, suscita anche oggi pesanti interrogativi; non a caso un capitolo intitolato «Santuario del terrorismo mondiale» è dedicato quasi interamente ai rapporti del regime con la rete del terrorista venezuelano Ilich Ramirez Sànchez, più noto come Carlos (10), che nella primavera 2003 fece pubblicare sul giornale venezuelano La Razón una lettera dove sosteneva l’azione repressiva di Castro contro i settantacinque oppositori.
Va sottolineato che Carlos, dalla sua cella francese, riesce a collaborare regolarmente con La Razón tenendo una rubrica intitolata «La Bastilla», grazie all’intermediazione del suo avvocato Isabelle Coutant-Peyre che ha sposato in carcere e che, come lui, si è convertita all’islam. Ottimi sono rapporti di Carlos con Chàvez, che rispose a un suo messaggio di felicitazioni per la conquista del potere con una lettera di caloroso ringraziamento pubblicata da Le Figaro; episodio per il quale Ammar sì chiede «se non esiste, tra il militare golpista oggi presidente (del Venezuela) e il terrorista in prigione, una convergenza di idee sugli obiettivi da raggiungere con mezzi diversi».
Da notare inoltre, per quanto riguarda il teatro europeo, che proprio a Caracas, dove c’è una consistente comunità basca, venne fondata nel 1959 l’Eta, che poi ha goduto di un concreto appoggio da parte del regime castrista, come sottolineato di recente anche dal giudice spagnolo Baltasàr Garzón.
Terrorismo, droga, eserciti mercenari
Che la Cuba del dottor Castro volesse riproporsii come la centrale ideologica e logistica della rivoluzione comunista mondiale, o quanto meno latino-americana in salsa bolivariana, era evidente fin da quando, superato il trauma del collasso dell’Urss (il cui sostegno economico aveva lungamente garantito la sopravvivenza del regime), a partire dalla metà del 1995
L’Avana rilanciava la rivista Tricontinental, organo teorico della segreteria esecutiva dell’Ospaal (Organizzazione di solidarietà dei popoli dell’Africa- Asia. America latina), una sorta di Quinta Internazionale fondata nel 1966 (11) ed entrata in sonno verso la metà degli anni 1980. Questo rilancio rispondeva a un disegno strategico che oggi non appare del tutto azzardato per quanto riguarda l’America latina, dove in molti Paesi il deperimento dell’autorità statale ha lasciato campo libero all’illegalità di massa e alla criminalità organizzata legata al traffico di droga per cui «metà dell’intera attività economica dell’America latina avviene a livello illegale» (12).
In questo mare nuotano a piacimento i piranha dell’eversione, e giustamente Animar dedica un lungo capitolo all’affaire che vide protagonista e vittima il generale Arnaldo Ochoa. L’eroe nazionale che aveva studiato nelle più prestigiose accademie militari sovietiche, il responsabile delle operazioni in Angola, ma anche il simpatizzante della perestrojka gorbacioviana (mentre Castro appoggerà i militari sovietici protagonisti del tentato golpe il 21 agosto 1991) e il depositario di molti segreti del clan castrista, divenne il capro espiatorio della cosiddetta «Avana connection».
Il caso era esploso nell’aprile 1987, quando il settimanale Us News and World Report pubblicò un reportage che rivelava il ruolo del regime cubano nel traffico di droga attraverso l’intermediazione del gangster colombiano legato al cartello di Medellin. Carlos Lehder che, estradato negli Stati Uniti e processato a Jacksonville, denunciò il coinvolgimene di alti dirigenti cubani e dello stesso Raùl Castro, fratello del Lider Maximo e ministro della Difesa, nel traffico di narcotici.
La vicenda era clamorosa, le prove raccolte dagli inquirenti statunitensi lasciavano pochi dubbi sul fatto che Cuba fosse diventata una centrale di smistamento di droga a livello internazionale: l’unica soluzione per uscire dall’impasse era costruire un processo farsa e scaricare tutte le colpe su personaggi di primo piano come Ochoa e altri ufficiali superiori, di cui Castro ormai diffidava.
Il processo diffuso dalla televisione si concluse con quattro condanne a morte, tra cui quella di Ochoa, e numerose lunghe pene detentive. La notte del 13 luglio 1989, alla presenza dello stesso Fìdel Castro, i quattro condannati venivano fucilati. Il regime cosi si dava una ripulita agli occhi del popolo cubano e del mondo; nel contempo si liberava di una pericolosa fronda all’interno delle Forze armate.
In realtà si trattava dì una limpieza a buon mercato e di breve durata, se è vero che nel 2003 il governo dell’Avana aveva depositato 4 miliardi di dollari su un conto Ubs a New York, nel quadro di un cambio legale di banconote usate, ma sulla cui provenienza i sospetti dì riciclaggio restano, dato che gli introiti del turismo per lo stesso anno ammontavano a 1,5 miliardi di dollari e le rimesse degli emigrati, in gran parte negli Usa, si attestavano intorno agli 800 milioni di dollari. Sospetti implicitamente rafforzati da una recente dichiarazione dello stesso Castro che, ammettendo il disastroso risultato della raccolta di canna da zucchero nel 2005 a causa della siccità (1,3 milioni di tonnellate, la peggiore dal 1908). ha affermalo: «Lo zucchero non tornerà più in questo Paese, appartiene all’epoca della schiavitù».
Basteranno allora le esportazioni di nickel, il cui prezzo si è involato sui mercati mondiali, il turismo e le rimesse dall’estero a garantire la sopravvivenza economica di Cuba, che ha dovuto fare fronte anche ai danni (oltre due miliardi di dollari) provocati da due terribili uragani?
In realtà la soluzione più probabile è che proprio un rinnovato protagonismo «rivoluzionario» diventi anche un’arma economica da gettare sulla bilancia dei rapporti internazionali, in America latina e forse anche altrove, inserendosi nel nuovo grande ciclo della violenza «non statale» che si è tradotta nel fenomenale sviluppo degli «eserciti privati» disposti a essere ingaggiati da molti Stati (circa la mela membri dell’Onu) che non godono più della protezione delle due ex superpotenze, e non sono in grado di fronteggiare – per la porosità delle loro frontiere, la corruzione dell’apparato civile e militare, quindi privi di una vera legittimità – le sfide interne ed esterne (13).
Nella nuova «Guerra dei trent’anni» ingaggiata dal terrorismo su scala planetaria, il regime castrista può ancora giocare delle carte, naturalmente a scapito del popolo cubano, con ulteriore rafforzamento dello Stato di polizia e di delazione, al quale Animar dedica l’ultimo capitolo: «La repressione permanente». Da esso risulta che, oltre ai detenuti politici, ci sono circa 300mila detenuti per delitti comuni pari al 3% della popolazione (14).
A fronte di una simile cifra c’è da chiedersi se non esistano anche a Cuba molti campi e strutture per il lavoro forzato, seguendo l’esempio della Cina popolare, con la quale il regime intrattiene stretti rapporti anche nei settori delle tecnologie avanzate.
L’opera della Chiesa per la democrazia
In questo quadro fosco le poche note positive giungono da alcune iniziative come quella lanciata nel maggio 2005 dalla dissidente Maria Béatriz Roque con l’Assemblea per promuovere la società civile a Cuba, o il movimento prò-amnistia delle Dame in bianco che lo scorso anno ha ricevuto il Premio Sacharov dal Parlamento europeo. Ciò che però suscita maggiore inquietudine nel regime è l’azione che può svolgere il mondo cattolico.
La Chiesa, infatti, emerge come la sola istituzione che possa vantare una reale indipendenza, anche se resta difficile misurare la sua capacità di influire sul regime dopo oltre quarant’anni di sostanziale emarginazione (15). Il castrismo, non appena affermatosi, espulse molti sacerdoti verso la Florida e la Spagna. e fece appello a una religiosità sincretica, dove occupa un posto di rilievo la santeria (16), manipolando le confessioni protestanti più remissive e a volte giocando su certe ambiguità manifestate in qualche ambiente vicino alla Santa Sede.
Attualmente la Chiesa può contare su un migliaio di religiosi, ma anche su gruppi di laici molto attivi dopo il 1968: mentre la Chiesa latino-americana era pervasa dai confusi fermenti della ideologia della liberazione», a Cuba preda della dittatura il francese padre Rene David auspicava una «teologia della riconciliazione nazionale».
Da allora questo progetto ha fatto progressivamente strada presso i dissidenti dell’interno come Elizardo Sànchez e Oswaldo Paya, il militante cristiano che nel maggio 2002, di fronte all’Assemblea del potere popolare svoltasi all’Avana, presentò un documento, chiamato «Progetto Varela» – dal nome di un sacerdote che nel XIX secolo volle l’indipendenza di Cuba dalla Spagna con oltre undicimila firme in cui si chiedeva l’indizione di un referendum che portasse a libere elezioni. Il regime allora rispose con una grande campagna di mobilitazione e di intimidazioni, raccogliendo milioni di firme per rendere intocable il carattere socialista della Costituzione.
Sempre nel 2002 Paya veniva insignito dal Parlamento europeo del premio Sacharov e da anni è candidato al premio Nobel per la pace; oggi il suo progetto ha raggiunto le ventimila firme, mentre un altro esponente laico del mondo cattolico, Dagoberto Valdes, ha trasformato il Centro di formazione politica e religiosa di Pinar del Rio e la rivista Vitral in una sorta di laboratorio per disegnare la transizione dalla dittatura alla democrazia. Su questa linea si muovono anche ambienti e personalità dell’esilio come Marifeli Pérez-Stable attivo presso l’università nazionale della Florida,
Note:
1) Ultimo in ordine di tempo il libro di Giulio Girardi, Che Guevara visto da un cristiano, Sperling & Kupfer. Milano 2005, sul quale ha scritto una sferzante recensione Roberto Beretta («L’Avvenire». 14 gennaio 2006).