Arte Sacra… San Fuksas?!

di Stefano Chiappalone

Mentre scrivo queste righe, a Foligno stanno consacrando la nuova chiesa di San…Fuksas! Proprio così, poiché certe chiese moderne più che del santo titolare parlano del “genio” che le ha progettate.

Nel caso di specie l’architetto Massimiliano Fuksas, che pure – in base ad una recente intervista – avrebbe le idee chiare su cosa sia una chiesa e tuttavia non tiene conto dell’aforisma di Nicolás Gómez Dávila (1913-1994): “Nessuno pensa in modo serio finché dà importanza all’originalità.”

La chiesa di Fuksas e molte altre (citiamo per tutte, la chiesa modenese di Gesù Redentore dell’architetto Mauro Galantino), senza una croce sarebbero indistinguibili da edifici adibiti ad uso civile, se non fosse per l’ostentata astrusità.

Siamo ben lontani dalla feconda alleanza tra arte e fede che nei secoli passati ha dato vita al romanico, al gotico, al barocco, per cui Joseph Ratzinger poteva affermare “che la vera apologia della fede cristiana, la dimostrazione più convincente della sua verità, contro ogni negazione, sono da un lato i Santi, dall’altro la bellezza che la fede ha generato”.

Si obietta che l’alleanza del Vangelo con gli stili di ogni epoca, come è avvenuta in passato così deve ripetersi anche con gli stili moderni. E questo sembra un argomento impeccabile.

Tuttavia non si può fare a meno di constatare come nella percezione comune, sia maggiore la cesura che separa una chiesa “moderna” da una barocca o romanica, che non quella esistente tra queste ultime due – pur tra loro diversissime.

Bisogna tener presente innanzitutto che la chiesa non è un contenitore neutro per gli atti di culto o per qualsiasi altra attività; è qualcosa di più, è un “ambiente” e in quanto tale portatore di un peculiare spirito. “Quando ci si trova di fronte a un ‘ambiente’ – scriveva Plinio Correa de Oliveira (1908-1995), proprio perché esprime uno stato dell’anima, esso non può essere moralmente indifferente: o sarà buono e favorirà le anime nella considerazione e nell’assimilazione di Dio, o sarà cattivo e agirà in senso opposto”.

È auspicabile pertanto che quel particolare ambiente che è la chiesa sia buono e spinga l’anima verso l’alto. Cosa che avviene sia nella ricca Basilica di San Pietro in Vaticano, sia nell’austera abbazia cistercense di Casamari, ma difficilmente in molte “chiese-garages” contemporanee.

Evidentemente le prime sono portatrici di uno spirito cristiano che queste ultime non hanno, poiché non sono ispirate semplicemente ad uno stile diverso, bensì ad uno spirito completamente differente.

La materia prima spirituale di un edificio sacro allora non dovrebbe essere sottovalutata, poiché l’architettura svolge una evangelizzazione visiva non meno rilevante della predicazione.

Ne era ben consapevole anche un convinto fautore del dialogo con l’arte moderna, come Papa Paolo VI (1963-1978), il quale però non poteva fare a meno di denunciarne l’apostasia: “Ci permettete una parola franca? Voi Ci avete un po’ abbandonato, siete andati lontani, a bere ad altre fontane, alla ricerca sia pure legittima di esprimere altre cose; ma non più le nostre.”

Quali sono queste altre fontane? Qual è lo spirito dell’arte moderna?

Lo studioso austriaco Hans Sedlmayr (1896-1984) identifica alcune tendenze di fondo, ciò che le principali correnti dell’arte moderna hanno messo al posto di Dio: dapprima l’arte comincia a idolatrare sé stessa, passando dal culto dell’arte al culto dell’artista (estetismo), poi la scienza, la tecnica e tutto ciò che sembra il progresso ineluttabile (tecnicismo, culto della geometria), infine a questo eccesso di razionalismo si risponde con l’eccesso opposto, cercando il caos, l’assurdo, la follia deliberata (surrealismo): anche nell’arte necessariamente si riflettono la scissione tra fede e ragione e la conseguente radicalizzazione ora in un senso ora nell’altro, che caratterizzano l’uomo moderno.

Su queste basi, l’architettura non può diventare automaticamente cattolica per il solo fatto di progettare chiese, anzi un edificio brutto – nel senso di “non vero”, non adeguato alle realtà celesti che dovrebbe simboleggiare – risulterebbe edificante tanto quanto una predica domenicale affidata a Dan Brown…

Così negli anni 1950 Charles-Edouard Jeanneret-Gris, detto Le Corbusier (1887-1965) – secondo il quale, “la macchina, fenomeno moderno, provoca nel mondo una riforma dello spirito” – progettò il convento di Santa Maria de La Tourette secondo criteri assolutamente geometrici. Egli era del resto l’esponente principale di una tendenza a progettare qualsiasi edificio sul modello della macchina, al punto da definire una casa “macchina per abitare”.

Coerentemente a La Tourette costruì una “macchina per pregare”, che parla il muto linguaggio degli automi più che la celeste lingua degli angeli.

Il resto è storia recente, basta guardarsi intorno e si potranno ravvisare in misura maggiore o minore nelle nuove chiese, le idolatrie individuate da Sedlmayr.

Inoltre, si registra nella struttura materiale delle chiese un progressivo venir meno della tensione verso l’alto che caratterizzava anche visivamente le cattedrali del passato, nonché la scomparsa di tutte quelle forme inscindibilmente legate all’uomo: tanto il fedele che esse ospitano, quanto l’Uomo-Dio che vi abita con tutta la schiera dei santi – anch’essi uomini e anch’essi misteriosamente spariti dalle pareti sempre più iconoclaste.

Relegando Dio nel cielo e dimenticando che Cristo si è incarnato, si finisce infatti per dimenticare l’uomo stesso – anche come semplice interlocutore che non riesce a intendere il linguaggio razionalista di chiese puramente geometriche, né quello astratto degli scarni e soggettivi simboli incapaci di esporre al semplice fedele le verità della fede cristiana.

A tale proposito mons. Nicola Bux osserva: “Che dire di un certo spiritualismo oggi in voga che mortifica i sensi, che biasima l’apostolo Tommaso che voleva credere vedendo? Gesù per questo si è fatto vedere – come agli altri apostoli (altrimenti perché il Verbo si sarebbe fatto uomo?).

”Alle malattie dell’arte moderna si sommano infatti quelle della teologia “alla moda”: si concepisce allora la chiesa come un semplice luogo di riunione di un gruppo che in fondo, dimenticando di elevarsi verso Dio, si limita ad una sterile autocelebrazione; con ciò però è l’uomo stesso a subire una limitazione, poiché riducendo tutto al solo aspetto funzionale, viene amputato dell’elemento simbolico che permette alla ragione di lasciarsi fecondare dal Mistero, di passare in ultima analisi dalle cose che sono – e che vediamo e tocchiamo – all’Essere stesso che ha un volto e un nome.

Era in fondo ciò che – anzi: Colui che – cercavano San Benedetto da Norcia (480-547) e San Francesco d’Assisi (1181/1182-1226), i quali non hanno chiamato architetti famosi e non sapevano neanche di regalarci tesori come Montecassino, il Sacro Speco di Subiaco o la basilica di Assisi.

L’intera cultura europea, ricordava Benedetto XVI a Parigi, al Collège des Bernardins, è nata grazie a generazioni di monaci che non pretendevano di fare capolavori, anzi “non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare.

Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa .”

Dall’essenziale, dal quaerere Deum, possono scaturire anche ai nostri giorni chiese belle e capaci di parlare nella lingua degli angeli, come l’abbazia di Sainte-Madeleine di Le Barroux, in Francia, il cui fondatore è, guarda caso, il monaco benedettino dom Gerard Calvet O.S.B. (1927-2008), che non ha fatto altro che mettere in pratica l’ammonimento evangelico: “Quaerite autem primum Regnum Dei et iustitiam eius, et haec omnia adiicientur vobis” (Mt 6,33), cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia e il resto – bellezza compresa – vi sarà dato in sovrappiù…

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