di Massimo Introvigne
Ricevendo in Vaticano i partecipanti all’incontro di Assisi il Papa il 28 ottobre ha avuto ancora l’occasione di chiarire il senso dell’evento. A credere ai vaticanisti, Benedetto XVI legge quotidianamente una rassegna stampa, e se lo ha fatto dopo Assisi deve essere rimasto piuttosto depresso.
È normale che i giornali laicisti non conoscano la differenza nella dottrina sociale della Chiesa fra la forza, che in certe condizioni è lecito e perfino doveroso per il cristiano utilizzare, e la violenza, che è per definizione uso ingiustificato o sproporzionato della forza, come tale peccaminoso.
Ma non c’è buona fede quando sfugge il contesto del discorso, che appartiene al genere letterario dell’intervento a Ratisbona del 12 settembre 2006, del recente discorso al Parlamento Federale tedesco e dell’enciclica del 2007 «Spe salvi». C’è un filo rosso che lega questi interventi del Papa. Il mondo è minacciato dalla violenza, come sa dagli orrori del secolo XX e dal campanello di allarme dell’11 settembre 2001. Questa violenza è perpetrata in nome di religioni e ideologie tra loro inconciliabili. Cercare un fondo comune tra religioni e filosofie incompatibili può portare a organizzare eventi e convegni che nel peggiore dei casi alimentano il sincretismo e il relativismo, nel migliore sono puri esercizi intellettuali, perché queste visioni del mondo seguono linee parallele che, anche prolungate all’infinito, non s’incontrano mai.
Riprendendo la grande lezione dell’enciclica Fides et ratio del beato Giovanni Paolo II (1920-2005), secondo cui la persona e la società sono come aerei con due ali, fede e ragione, e possono volare solo se le due ali sono in equilibrio – diversamente si schiantano -, Benedetto XVI ha sempre condannato il fondamentalismo, cioè l’ipertrofia dell’ala della fede a detrimento dell’ala della ragione. Insieme, ha condannato il laicismo, cioè l’ipertrofia dell’ala della ragione – che corrompe anche la stessa ragione, trasformandola in relativismo – a detrimento dell’ala della fede. Non importa quale ala sia ipertrofica. Con un’ala molto grande e una rachitica l’aereo si schianta.
Di fatto – ha ribadito il Papa ad Assisi – anche se tragici eventi come l’11 settembre hanno richiamato l’attenzione sul rischio del fondamentalismo, non possiamo dimenticare che il laicismo e le ideologie antireligiose hanno lasciato nel secolo XX una scia di morti che il Papa ha chiamato «senza misura» rispetto a qualunque altra fonte di violenza, fondamentalismi compresi? giusto dunque «vergognarsi» del fondamentalismo, una tentazione che può aggredire e di fatto aggredisce qualunque religione, cristianesimo compreso, ma senza mai trascurare il dato che il laicismo e le ideologie antireligiose, dal semplice punto di vista della quantità di violenza prodotta, sono «senza misura» con qualunque altro fenomeno.
A che cosa serve dunque Assisi? Anche una parte della stampa non anticlericale si è limitata a ripetere banalità, copiando e incollando da vecchi resoconti dell’evento organizzato ad Assisi dal beato Giovanni Paolo II venticinque anni fa in un mondo molto diverso da quello di oggi. Benedetto XVI ha voluto ripeterlo ancora una volta nell’udienza di venerdì ai partecipanti: si è andati ad Assisi per trovare regole comuni sulla «giustizia e la pace», ispirati dalla «verità», cioè dalla ragione, regole il cui scopo è «il bene comune della famiglia umana».
Per questo ad Assisi non c’è, a rigore, neppure stata una preghiera comune. Benedetto XVI è da sempre scettico sulle preghiere comuni universali e i tentativi di fare incontrare parallele che non si possono incontrare, o di promuovere un dialogo interreligioso al ribasso, cercando minimi comuni denominatori fra le religioni. Non solo il Papa non ha promosso nulla di tutto questo, ma sono temi di cui non ha neppure parlato. Ha evocato invece la ragione, il bene comune, la verità.
La ragione è comune a tutti – cristiani, musulmani, buddhisti – ed è la sola «grammatica comune» – l’espressione è del Papa – che può fissare regole del gioco. Se ciascuno argomenta dalla sua scrittura sacra o dalla sua filosofia non si arriverà mai a regole comuni. Se tutti argomentano dalla ragione, può darsi che si arrivi a qualche risultato. Se invece non si arriva a regole condivise, prevarrà inevitabilmente la violenza.
La ragione, beninteso, è comune anche ai non credenti. Da questo punto di vista l’invito ai non credenti chiude il cerchio e mostra anche a chi non vuole vedere che ad Assisi le regole comuni si sono cercate sulla base della ragione e non della fede o di una «super-fede» sincretista, perché la fede i non credenti non ce l’hanno. Ma nel discorso di venerdì il Papa ha aggiunto degli aggettivi: sono stati invitati credenti «di buona volontà» e disposti a «impegnarsi nella ricerca della verità».
Se il Pontefice usa questi aggettivi, significa che non tutti i non credenti possono veramente sedersi al tavolo della ragione per fissare le comuni regole del gioco. Occorre che siano «di buona volontà», cioè in buona fede e capaci di un uso di ragione non distorto dalle ideologie. E che «si impegnino» nella «ricerca della verità», il che implica che credano che la verità esista, ed esclude i relativisti.
Naturalmente, questi che sono chiamati talora «nuovi atei» sono molti ma non sono organizzati, e immagino che identificare chi fare parlare a loro nome non sia stato facile. Su certe scelte si può discutere, ma non si poteva immaginare di invitare per esempio un Giuliano Ferrara considerandolo un rappresentante tipico dei «nuovi atei».
Purtroppo la maggioranza dei «nuovi atei» non è come Ferrara: non è d’accordo con il Papa sull’aborto o su altri principi non negoziabili e anche quando non è relativista è molto confusa sui problemi concreti. Se si fosse invitato solo Ferrara, non come intellettuale ma pretendendo che in qualche modo rappresentasse i «nuovi atei», si sarebbe rinnovato l’errore di chi invitava Magdi Allam prima della sua conversione a confronti con il mondo islamico, non come esperto – scelta eccellente – ma pensando che rappresentasse i musulmani, i quali non solo non lo seguivano ma spesso lo inseguivano, e con intenzioni poco amichevoli.
Nell’udienza di venerdì Benedetto XVI ha voluto sottolineare anche due altri punti, con un occhio a malintesi insorti prima, durante e dopo Assisi 2011 più all’interno del mondo cattolico che all’esterno. Il primo è che l’impostazione molto diversa di Assisi 2011 rispetto ad Assisi 1986 non comporta nessuna sconfessione del beato Giovanni Paolo II e di un evento che pure, come Benedetto XVI rilevava nella lettera del 2 settembre 2006 che ne ricordava il ventennale, si espose per le sue modalità di svolgimento a «inopportune confusioni» e a facili interpretazioni sincretiste e relativiste.
Al contrario il Papa ha invitato ad apprezzare «la preveggenza» del beato Giovanni Paolo II nell’organizzare Assisi 1986, che avvenne in un contesto di gravi e perfino apocalittiche minacce per la pace – gli ultimi colpi di coda, sappiamo ora ma non sapevamo allora, del comunismo sovietico prima di cadere – di fronte alle quali un gesto forte, per quanto aperto a rischi di cattive interpretazioni, assumeva in effetti un carattere «preveggente», cioè profetico nel senso etimologico del termine.
Il secondo commento del Papa riguarda il fatto che questi eventi sono «necessariamente eccezionali e non frequenti». Se diventano routine, l’ancoraggio alla ragione non può più emergere e fermare un’interpretazione relativista diventa impossibile. Si tratta precisamente della posizione del Papa Leone XIII (1810-1903) quando con il Parlamento Mondiale delle Religioni di Chicago del 1893 si cominciarono a organizzare riunioni interreligiose di questo genere. C’è una sorta di «falsa memoria» diffusa, riemersa fra i critici di Assisi 2011, secondo cui la Chiesa Cattolica non partecipò a Chicago 1893 e condannò l’evento.
Sono in possesso degli atti ufficiali di Chicago 1893 e ho familiarità con la più autorevole letteratura scientifica in argomento, da cui emerge con assoluta chiarezza che i cattolici, vescovi compresi, furono tra gli organizzatori e gli oratori dell’evento, tenendo costantemente informata la Santa Sede. Il Parlamento di Chicago non si aprì neppure con una preghiera comune ma con la recita del Padre Nostro da parte del solo cardinale cattolico James Gibbons (1834-1921). In quanto evento, direbbe Benedetto XVI, «eccezionale e non frequente», il Parlamento delle Religioni di Chicago poteva avere la funzione di favorire la coesistenza pacifica negli Stati Uniti e altrove di comunità religiose che il colonialismo e l’immigrazione portavano a vivere necessariamente insieme.
Fu invece quando gli eventi simili a quello di Chicago cominciarono a ripetersi, per la verità stancamente, diventando una routine non più «eccezionale e non frequente» che Leone XIII intervenne vietando ai cattolici la partecipazione con una lettera apostolica del 18 settembre 1895, in un momento in cui la materia del contendere fra i vescovi americani era se partecipare o meno a un nuovo congresso interreligioso a Buffalo.
Benché ci sia ancora chi considera la lettera di Leone XIII, che parla di «tolleranza» e «prudente silenzio» su episodi precedenti, come una sconfessione postuma di Chicago 1893, già nel 1970 un approfondito lavoro archivistico di James F. Cleary aveva dimostrato che la partecipazione al Parlamento Mondiale da parte della Chiesa Cattolica non fu decisa alla leggera, ma solo dopo aver raccolto il parere favorevole della maggioranza dei vescovi americani e tenendo costantemente informata la Segreteria di Stato, i cui contatti con il Pontefice erano quotidiani, così che sarebbe bastato un cenno di Leone XIII per bloccare l’iniziativa.
Se si vuole coesistere sulla base della ragione, senza lasciare l’ultima parola alla violenza, eventi come Chicago o Assisi – certo in contesti storici molto diversi – sono almeno potenzialmente utili. Che poi siano utili in concreto dipende da molti fattori, non tutti controllabili dalla Chiesa, tra cui la percezione e l’eventuale manipolazione dell’evento da parte dei media, un problema che si manifestò già a Chicago nel 1893.
Ma non ci sono molti altri tavoli nel mondo dove persone che la pensano in modo diverso e inconciliabile sulle questioni di fede possano essere convocate insieme sulla base della comune ragione. E non ci sono altre autorità oltre alla Chiesa Cattolica e al Papa in grado di garantire la serietà e la vera universalità di questi tavoli. La ricerca di regole comuni fondate sull’idea che gli uomini hanno una comune natura che la ragione può conoscere è di per sé l’opposto del relativismo. Semmai, il relativismo nasce quando anziché guardare ai risultati possibili si guarda alla ricerca, e certi professionisti del dialogo tentati dal sincretismo s’innamorano di una ricerca per la ricerca come c’è un’arte per l’arte. Ma il Papa insegna precisamente il contrario.