Questo articolo fu pubblicato da “II Giornale d’Italia” il 27 marzo 1955. Sturzo ammoniva la Dc a non correre verso sinistra, perché avrebbe portato allo statalismo economico e all’esplosione della spesa pubblica improduttiva, con il pessimo risultato di creare un capitalismo irresponsabile.
di Luigi Sturzo
L’ apertura a sinistra, motto magico per non pochi della politica militante, parte dalla convinzione che solo a sinistra si trovi la soluzione dei mali sociali. Da qui gli altri motti: immobilismo del centro, reazione della destra, superamento della borghesia.
Comunque sia, i centristi dell’epoca del Partito popolare e i difensori convinti delle posizioni di destra nella vita pubblica italiana di questo dopoguerra sono ridotti al lumicino: oggi la corsa è a sinistra. Ecco perché l’apertura a sinistra è per molti una prospettiva che attrae, mentre il centrismo non desta simpatia.
Gli sbagli del sinistrismo
La Dc, per definizione partito di centro, è stata più volte accusata di immobilismo e l’accusa è partita dagli stessi democristiani che, per convinzione e per occasione, sventolano la bandiera di sinistra. Non sarò io a fare l’elenco di quel che in 10 anni è stato fatto in Italia sia nel campo della ricostruzione postbellica come in quello dei rapporti sociali e dell’assistenza. Le mie critiche sono state mosse dagli sbagli che il sinistrismo ha fatto fare ai governi, non dalle iniziative coraggiose dal dicembre 1945 in poi.
Non sono mancate giustificazioni alla collaborazione politica con il socialcomunismo per i due anni 1945-47 (la precedente collaborazione fu imposta dagli alleati); neppure sono mancate giustificazioni all’interventismo statale in settori che potevano essere facilmente lasciati all’iniziativa privata.
L’errore, che si è andato sviluppando e al cui dilagare sembra non si possa opporre una diga efficace, è la cieca fede nello statalismo economico e l’ostilità crescente all’iniziativa privata, ogniqualvolta tale alternativa venga presentata ai partiti e alle Camere. Ne consegue che lo Stato ha sempre bisogno di maggiori mezzi per fare fronte alle continue richieste di intervento; maggiori mezzi che vengono sottratti all’investimento privato. E mentre viene scoraggiata l’attività dei cittadini, viene inflazionata quella degli enti creati nel passato e moltiplicati nel presente.
Non si deve soffocare l’iniziativa privata
Nel complesso l’aumento della spesa pubblica non si arresta; l’interventismo statale consolida l’iniziale statalismo delle democrazie moderne e conduce per vie equivoche al socialismo di Stato. Credono gli amici della sinistra Dc che sia questa la via per il benessere del nostro Paese ? E che ciò risponda ai più sani criteri di politica economica democratica e agli ideali stessi del loro partito ? L’errore fondamentale dello statalismo è quello di affidare allo Stato attività a scopo produttivo connesse a un vincolismo economico, che soffoca la libertà dell’iniziativa privata.
Se nel mondo c’è stato effettivo incremento di produttività che ha superato i livelli delle epoche precedenti e ha fatto fronte all’incremento demografico, lo troviamo nei periodi e nei Paesi a regime economico libero basato sull’attività privata singola o associata. Non si riscontra simile prosperità, diffusa in tutta la popolazione, sotto i regimi vincolistici delle monarchie assolute, né sotto dittature militari e popolari del secolo scorso e del presente.
E se la prima industrializzazione, teorizzata dal liberalismo economico, ci si presentò in termini di libertà spregiudicata e sfruttatrice, bisogna tener conto sia della reazione al vincolismo che s’andava scuotendo (statale e corporativo), sia dell’euforia della produzione capitalista.
Fu allora che si sostenne la teoria dello Stato indifferente ai problemi etici e sociali, nonché la più completa fiducia nel gioco economico. Periodo poi superato in tutti i Paesi civili, sia con le leggi sociali che gli stessi liberali laici, insieme alle rappresentanze dei partiti cattolici di allora, adottarono sotto la doppia spinta proletaria ed etico-religiosa; sia con la formazione – contrastata prima e vittoriosa dopo – dei sindacati socialisti e cristiani.
Il cattivo esempio dell’Iri
In questo processo si passò dall’accentramento e dalla sterilità della ricchezza nelle mani delle classi nobili e delle manomorte alla distribuzione e produttività delle classi medie; la proprietà individuale e cooperativa si diffuse e si diffuse l’artigianale, il livello della vita economica si andò elevando, anche per le classi operaie, come mai nel passato vincolistico, sia il medievale e il rinascimentale, sia il moderno fino alla prima metà del 19° secolo.
L’accesso delle classi lavorataci alla piccola proprietà non è da oggi, ma oggi viene accelerato in forme più adatte alla struttura moderna, anche se questo fatto attenua lo slancio produttivo della grande azienda. Quel che preoccupa è l’esagerato interventismo statale, fino a creare un capitalismo statale di partecipazioni dirette e indirette alle aziende produttive, e a tentare una industria di Stato privilegiata e garantita. L’Italia ha provato nel regime fascista il dirigismo, l’autarchia e la creazione dell’Iri a titolo provvisorio di liquidazione.
Ma nulla è più duraturo del provvisorio, quando lo si fa per scopi politici. L’operazione Iri sembrò saggia, ma salvò buone e cattive imprese, inflazionò le partecipazioni statali e creò un cattivo esempio per l’avvenire.
Guardate la differenza tra L’Est e l’Ovest
Trasferire il capitale privato allo Stato e farlo operare nei larghi settori dell’industria, ma amministrando con la sicurezza che l’azionista unico o maggioritario ingoierà tutti i rospi e finirà per saldare tutti i deficit, porta danno al Paese, alla sua economia e alla stessa classe operaia.
Continuare nel sistema, credendo che lo Stato possa correggersi, è pura follia; proprio quella follia che comunisti e socialisti portano come soluzione del problema economico moderno, ma della cui soluzione non abbiamo un solo esempio probante, neppure nella “felicissima Russia”, neppure nei Paesi satelliti, fra i quali la Cecoslovacchia, la Polonia e ancora più i Paesi baltici, che dopo la liberazione dal giogo degli zar di Pietroburgo si avviarono, in un clima di libertà (poi soffocata), verso una prosperità mai conosciuta prima.
Del resto gli esempi di Paesi come l’Olanda, il Belgio, la Svizzera, il Lussemburgo, per non parlare dei maggiori come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda, e aggiungo anche l’Inghilterra e la Francia – pur tormentati come sono dal dirigismo del dopoguerra – e meglio ancora la Germania Ovest, che in solo 5 anni ha ripreso vigore e slancio, danno la prova di cosa sia, nella prevalente economia dell’iniziativa privata, il benessere e lo sviluppo della classe lavoratrice in collaborazione da pari a pari con i datori di lavoro.
Non manca l’intervento dello Stato in tali Paesi, intervento razionale in campo fiscale, opportuno in quello creditizio, e anche sotto forma dirigista in certi settori di particolare difficoltà. Ma quando si arriva alle nazionalizzazioni industriali se ne lamentano gli effetti deleteri, anche se possono registrarsi certi vantaggi immediati, che poi si scontano strada facendo.
Ma altro è il tentativo di risolvere un dato problema con la nazionalizzazione, altro è andare soffocando le attività dell’economia privata attraverso l’inflazione degli enti sorretti da finanziamenti di Stato, da partecipazioni azionarie di Stato, da privilegi e monopoli di Stato. Tali enti sono in balia delle fluttuazioni politiche. Non è il governo che gestisce: il governo influisce politicamente. Non sono i partiti che gestiscono: i partiti influiscono politicamente. Sono i dirigenti pubblici che gestiscono, ma senza effettiva responsabilità, perché dietro di loro c’è il Ministero competente per definizione, ma spesso incompetente.
Così si crea un capitalismo irresponsabile, poco e niente redditizio, che oggi sta emergendo nel ruolo di dirigente effettivo della vita economica del Paese.
I vantaggi per lo Stato ? Nulli. Persino nel settore fiscale lo Stato riceve meno di quanto dovrebbe, perché gli enti pubblici sono o privilegiati o evasori.
Nessuna entrata attiva va allo Stato. Tranne qualche briciola per ubbidire a certe percentuali fissate da leggi. In compenso le passività sono coperte al 100% e quante più passività si fanno (anche illegalmente e perfino dolosamente), tanto più lo Stato interviene in soccorso. Non ho visto un solo amministratore portato avanti la Corte dei Conti al “redde rationem”.
Quale maggiore contributo politico della democrazia alla realizzazione del socialismo di Stato? E quale più efficace mezzo per lo slittamento verso il comunismo? Ci pensino i sinistroidi della Dc a tale prospettiva.
Quando sento Fella, Campilli, Fanfani e perfino Vanoni parlare a favore dell’iniziativa privata, mi domando se le loro parole sono ancora valide e se essi si rendono conto della rotta che si è andata prendendo in Italia attraverso lo statalismo economico sempre più invadente e irrefrenabile.