Limiti e pregi di una nuova storia dell’eugenetica
di Lucetta Scaraffia
E quindi se dobbiamo, di conseguenza, sottoporre a critica severa i comportamenti biopolitici, oggi in atto, che possono essere ricondotti per certi versi all’eugenetica, come l’aborto cosiddetto terapeutico o la selezione embrionale degli embrioni più sani.
Lo studioso giustamente pensa che per rispondere a questa domanda sia necessario tornare all’Ottocento, alla nascita dell’eugenetica nell’Inghilterra darwiniana e alla rapida diffusione di questa nuova scienza nei Paesi occidentali, fino a includere la Germania nazista. Non è la prima volta che Defanti coglie un aspetto importante della riflessione bioetica: quello della necessità della riflessione storica per comprendere meglio alcune questioni, come l’eutanasia.
E bisogna ammettere che affronta questa ricostruzione del passato con una preparazione e un rigore che quasi mai i suoi colleghi dimostrano quando si accingono, come per divertimento, a cimentarsi con la storia.
Ricostruire la storia dell’eugenetica non è certo impresa facile, nonostante negli ultimi decenni siano usciti tanti studi sul tema, perché si è trattato di una sorta di moda scientifica, che poi in molti casi è diventata pratica politica. A sua volta questa si è diffusa con straordinario successo in tutti i Paesi occidentali, creando uno strato di esperti, in genere anche abili divulgatori, che per la prima volta hanno coinvolto l’opinione pubblica nelle loro proposte di miglioramento del genere umano.
Uno strato numeroso e osannato, ma poi velocemente dimenticato e nascosto dopo la seconda guerra mondiale, cioè dopo che l’eugenetica è diventata sinonimo di nazismo. Troppi protagonisti, quindi, e in parte dimenticati. Invece non era così, e su questo punto lo studioso ha ragione.
L’eugenetica è nata e si è diffusa al di fuori della Germania nazista, prima dell’avvento al potere di Hitler, e per molti versi ha continuato a essere messa in pratica anche in seguito, ma con modalità meno crudeli e soprattutto meno efficaci di quelle tedesche. Egli arriva quindi a concludere che «la messa in opera di pratiche aberranti vada messa in conto non a un’irresistibile pulsione propria del biopotere, ma semplicemente al venir meno dell’ordinamento liberaldemocratico e all’avvento di un regime totalitario».
In sostanza Defanti, nel ricostruire ampi stralci del pensiero degli eugenisti, vuole separarlo dalla realizzazione nazista e in questo modo salvarlo, non considerando così negativamente, almeno in rapporto alla ricerca scientifica del tempo, gli eugenisti stessi. Fino al punto di rileggere perfino il breve opuscolo di Karl Binding e Alfred Hoche intitolato Il permesso di sopprimere le vite non degne di vivere — sul quale i nazisti hanno fondato la loro, giustificazione dell’operazione T4 di eliminazione dei malati mentali — come un libro non pericoloso, ma in certa misura accettabile. Tanto che ne fornisce una traduzione in italiano, perché ogni lettore se ne faccia un’idea personale.
Ora, senza dubbio né il giurista Binding né lo psichiatra Hoche avevano simpatie naziste, né Hoche, che sopravvisse più a lungo, ebbe mai rapporti con il regime, ma l’affinità che i nazisti rinvennero con le loro teorie forse andrebbe analizzata più seriamente. Soprattutto per questa nuova definizione — «vite indegne di essere vissute» — che tanto successo ha avuto e che in fondo giustifica ancora oggi l’eliminazione di feti portatori di handicap.
L’esame che ne fa Defanti è però più superficiale, anche se considera accettabile il concetto solo se la definizione è riconosciuta come soggettiva, cioè se il candidato all’eutanasia è consenziente. La buona volontà del medico scrittore e il suo pur lungo lavoro di scavo dell’eugenetica non sono tuttavia approfonditi a sufficienza: la sua bibliografia presenta vaste lacune, soprattutto per quanto riguarda l’applicazione delle idee eugenetiche in Paesi come gli Stati Uniti, la Svizzera e nelle democrazie scandinave.
Se Defanti avesse letto i libri di Colla e Dotti sulle pratiche eugenetiche svedesi, ad esempio, avrebbe visto come anche la socialdemocrazia può esercitare un biopotere opprimente e lesivo della libertà personale sui deboli, soprattutto sulle donne sole e povere: sono loro infatti, e non i malati, ad avere costituito oltre l’80 per cento delle vittime della politica di sterilizzazione e di aborto eugenetico.
E si sarebbe accorto che la motivazione economica — cioè la lamentela sul costo dell’assistenza ai malati, che lo stesso studioso respinge con forza come motivazione accettabile nel saggio di Hoche, qualificandola come «sorprendente» — costituisca la prima e più diffusa ragione delle pratiche eugenetiche messe in opera da diversi Governi democratici.
Uno sguardo più largo e approfondito su questo tema porta insomma a una conclusione: la certezza dell’autore che in regimi politici democratici non corriamo pericoli di eugenetica di tipo nazista è smentita dalla storia, così come sono smentite altre sue osservazioni, basate sul ristretto campione di eugenisti che prende in esame.
Ma, mentre non risulta per nulla convincente la conclusione del libro, che vorrebbe dissipare i timori che aleggiano intorno a un uso eugenetico della scienza oggi, rimane molto interessante e condivisibile l’idea di Defanti che per giudicare il presente dobbiamo ripercorrere il passato, e in particolare fare i conti con il fantasma dell’eugenetica nazista.
Come infatti ha scritto Roberto Esposito a proposito del nazismo «per rovesciarlo davvero – per rigettarlo nell’inferno da cui è uscito – bisogna attraversare consapevolmente quelle tenebre, rispondere naturalmente in maniera opposta, a quanto allora fu fatto, alle domande che da essa si levano»