Articolo pubblicato su Tracce
di Franco Di Giorgio
Non è facile trovare nel panorama culturale odierno chi si interessi del pensiero e dell’opera di Auguste Comte (1798-1857), quasi fosse esaurita l’attualità di un filosofo che innegabilmente esercitò una grande influenza, seppur indiretta, sulla mentalità della borghesia ottocentesca. Tuttavia a noi sembra che la parabola descritta dal pensiero di Comte sia oggi estremamente attuale, in quanto in esso ritroviamo il nucleo teoretico più sistematico e logico su cui si basano alcune soluzioni date al problema umano nella società contemporanea.
Occorre per questo però porre attenzione all’intero procedere sistematico del fondatore della filosofia positiva, dall’intuizione giovanile (1822) della «legge dei tre stadi» fino alla progettazione della «religione dell’umanità», che non può essere ridotta come fanno alcuni interpreti a mero frutto di pazzia senile, dal momento che in essa trova compimento coerente la stessa intuizione iniziale.
Lo scopo peculiare del pensiero di Comte è infatti la costruzione di un nuovo e stabile ordine sociale, giudicato indispensabile da chi aveva come lui vissuto le convulsioni della Francia post-rivoluzionaria, i grandi sconvolgimenti sociali e culturali che dal dominio napoleonico al regno di Luigi Filippo ponevano le basi della rivoluzione industriale. Non si può definire infatti originale l’idea iniziale della «legge dei tre stadi», che in effetti Comte deriva dal suo maestro Saint-Simon, o più semplicemente dall’Illuminismo che fortemente ancora permeava la cultura francese del primo Ottocento: l’idea appunto che la scienza rappresenti la forma di sapere superiore e definitivo cui l’umanità deve giungere, abbandonando via via l’ingenuità e la superstizione primitiva.
Piuttosto superficiale, o addirittura deformante, si rivela anzi la stessa concezione comtiana della scienza, identificata sulla base del modello meccanicistico con un corpus definitivo di conoscenze, con un sapere comunque finalizzato ad una utilizzazione pratica.
È appunto nella operatività del progetto che si focalizza l’intenzione del filosofo, trasformatosi, certo anche a seguito di un grave esaurimento nervoso, in Pontefice della «religione positiva», progettista maniaco di un nuovo culto per una nuova Chiesa.
Le tappe del pensiero di Comte
La nostra analisi percorrerà, senza pretesa di essere esauriente, le tre tappe che Comte propone come necessarie per la realizzazione di una nuova società in cui l’uomo si realizzi pienamente:- l’eliminazione del senso religioso
– l’instaurazione di una nuova religione con la conseguente riduzione del cattolicesimo;
-la imposizione di un «dispotismo spirituale», naturale premessa per l’instaurazione a livello politico di un regime totalitario.
1. L’eliminazione del senso religioso Con la «legge dei tre stadi» Comte vuole dare una spiegazione allo svolgersi della storia. La successione che egli immagina dello sviluppo storico è contraddistinta da tre fasi: stadio teologico, stadio metafisico e stadio positivo. Nei primi due l’umanità non ha fatto altro che ricercare la natura intima degli esseri, le cause prime e finali dei fenomeni naturali, attribuendo la funzione originaria ad agenti soprannaturali.
Nello stadio positivo la ragione umana, riconosciuta l’impossibilità di giungere a conoscenze assolute, abbandona queste ricerche, rinuncia ad indagare sull’origine e sul destino dell’universo e mira a scoprire le leggi effettive dei fenomeni. In questo stadio la ragione – come dice Comte stesso – non si chiede più il «perché» delle cose, «non si interroga più sulle cause dei fenomeni, ma lavora a determinare le leggi secondo le quali si producono questi fenomeni» (Corso di filosofia positiva, 1830-1842).
L’esito di questo percorso è l’agnosticismo, contraddistinto dal fatto che si ritiene il problema di Dio insolubile, che si considera impossibile pronunciarsi tanto per l’esistenza quanto per la non esistenza di Dio e che si crede vietata ogni soluzione del problema delle origini e dei fini dell’uomo e del mondo.
A ben vedere questa posizione proclama una negazione del problema di Dio molto più radicale rispetto all’ateismo tradizionale. Infatti, al pari di Marx, si vuole eliminare alla «radice» lo stesso porsi del senso religioso, proclamando superata l’attenzione alle domande che riguardano il destino e le origini dell’uomo e del mondo.
Lo stesso Comte confessa di aver voluto non evitare, ma superare l’ateismo, considerandolo una «emanazione insufficiente, poiché tende a prolungare indefinitamente lo stato metafisico, ricercando senza posa nuove soluzioni dei problemi teorici invece di eliminare, come radicalmente vane, tutte le ricerche accessibili» (Sistema di politica positiva, 1851-1854). «Il vero spirito positivo consiste soprattutto nel sostituire sempre lo studio delle leggi invariabili dei fenomeni a quelle delle loro cause propriamente dette, prime o finali, in una parola la determinazione del come a quella del perché» (Ibidem).
La forma assunta dall’ateismo, dunque, secondo Comte, non è capace di estirpare alla radice il senso religioso, in quanto conserva «i termini del problema di Dio, le abitudini di pensare e i modi di ragionare del credente» e quindi si inoltra in una via da cui è possibile ricadere di nuovo nell’ansia religiosa (cfr. H. De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Morcelliana 1978, pp. 124-130).
A questa eliminazione del senso religioso Comte arriva facendo proprio un concetto di ragione, inteso come «misura di tutte le cose» e come tale negatore della stessa categoria della possibilità. La ragione viene fatta coincidere con il modo di procedere delle scienze. Essa dunque implica le categorie della sperimentabilità e verificabilità pratica. Tutto ciò che non può essere sperimentato e verificato secondo i criteri scientifici, non esiste, non è possibile che sia. C’è in Comte un fiducioso ottimismo circa le possibilità della scienza e quindi della ragione di poter risolvere ogni umano problema senza Dio.
Un ottimismo, così dogmaticamente affermato, che non riesce più a percepire il limite dell’uomo e quindi anche delle sue costruzioni scientifiche. La scienza, anzi, viene a prendere il posto di Dio, nel suo tentativo di risolvere ogni tipo di problema umano. Anche l’idea di progresso viene affermata sulla base di questo atteggiamento ottimista nelle possibilità della ragione umana. Un progresso inesauribile avrebbe dominato la scena storica universale. In questo orizzonte l’uomo stesso diventa misura di tutte le cose, nonché criterio ultimo dell’esistenza della realtà.
Una volta eliminata la dimensione delle domande ultime assolute non rimane che ridurre tutto al «relativo», al «contingente». Il relativismo conduce a sua volta ad una «sottomissione all’oggetto», ad una forma cioè di «feticismo», che Comte stesso recupera dallo stadio teologico, preferendolo al politeismo e al monoteismo e paragonandolo all’epoca positiva. In altre parole l’uomo nelle sue domande ultime e nelle sue esigenze scompare per lasciare il posto al trionfo dell’oggetto, delle cose, verso cui si sente sempre più asservito. È l’epoca del capitalismo, che da un trionfo dell’oggetto si nutre e da cui trae alimento per proporsi in maniera definitiva (cfr. H. De Lubac, op. cit., pp. 113-124).
2. La riduzione del cattolicesimo e la «nuova religione» Comte non si limita ad escludere Dio, ma tenta anche di sostituirlo in modo da eliminarlo totalmente dalla scena del mondo. «Si distrugge infatti solo quello che si sostituisce… Seguendo questa massima, tanto ben detta che pensata, bisogna dunque sostituire il cattolicesimo con una vera religione, sotto pena di veder prolungare indefinitamente la sua ignobile caducità» (Corrispondenza inedita).
Il positivismo deve sostituirsi al cristianesimo e rendersi capace di soddisfare tutti quei bisogni della natura umana che non trovano risposta nella posizione ateistica della vita. E questa sostituzione avviene ponendo al posto di Dio l’«Umanità». È questa la vera divinità, il «Grande Essere Provvidenziale», il «nuovo Essere supremo», capace di soddisfare il bisogno di adorazione presente nel cuore di ogni natura umana. Essa costituisce «il solo vero grande Essere, di cui noi siamo consciamente i membri necessari» (Sistema di politica positiva).
Il dio adorato dai positivisti è un «Essere relativo», che «ha una potenza limitata, benché sempre superiore alle nostre forze, individuali o collettive», mentre i teologi e i metafisici – secondo Comte – adorano «un Dio assoluto, il cui potere è senza limiti». Per questa ragione i secondi devono considerarsi dei «veri schiavi», in quanto «sottomessi ai capricci di una potenza impenetrabile», mentre soltanto nei primi l’uomo può diventare veramente libero, in quanto questi «sono subordinati a leggi immutabili e conosciute, che ci liberano da ogni impero personale» (Lettere a Henri Dix Hutton). In questo modo l’«Umanità» prende il posto dell’«antico Dio». «In essa – dice Comte noi viviamo, ci muoviamo e siamo». Essa è «il centro delle nostre affezioni» (Appello ai conservatori, 1855).
L’«Umanità», di cui parla Comte, comprende molti individui di tutte le generazioni, ma non li ritiene tutti, in quanto essa è «l’insieme continuo di esseri convergenti». I «parassiti» ed i «criminali» ne sono esclusi perché «non trasmisero ai successori nessun equivalente di ciò che ricevettero dai loro predecessori». Ne fanno dunque parte soltanto quegli uomini «che hanno cooperato alla grande opera umana, quelli che si prolungano in noi, che sono da noi continuati, quelli di cui noi siamo i veri debitori» (Sistema di politica positiva).
E non a caso Comte si rifiuta di considerare la figura di Cristo tra i benefattori dell’Umanità. Quest’ultimo viene infatti considerato un «avventuriero religioso», un «ciarlatano», un «falso fondatore» che nulla ha apportato al progresso umano. Il suo nome non viene fatto comparire assieme a quelli che hanno contribuito all’edificazione dell’«Umanità», come Confucio, Mosè, Maometto, ecc. (cfr. Catechismo positivista, 1852).
In realtà ciò che a Comte fa problema è la supposta divinità di Gesù Cristo; un uomo che si dice Dio rompe con una religione che ha eliminato il Dio-Mistero per sostituirlo con il Dio-Uomo, con l’umanità che si divinizza.
Ma a pensarci, Comte, in questa sua eliminazione, riconosce al cristianesimo una forza davvero originale rispetto alle altre religioni. Rifiutando la figura di Cristo, egli sancisce quella profonda differenza che c’è tra la religione nata dalla presenza, morte e resurrezione di Gesù Cristo e quelle i cui fondatori rispondono ai nomi di Confucio, Mosè, Maometto, Buddha. Infatti la pretesa di Cristo di definirsi e chiamarsi Dio non può essere accettata da chi ha chiuso la ragione, con la «legge dei tre stadi», al senso religioso.
Il cristianesimo viene così condannato, non solo per la sua pretesa origine divina, ma in modo particolare per il suo carattere «immorale» ed «antisociale». Il cristianesimo, infatti, secondo Comte, predica un rapporto «personale» (da intendersi come sinonimo di «individuale») con Dio, a scapito del rapporto «sociale», del rapporto con gli altri uomini. Il grande torto del cristianesimo consiste dunque nell’avere «consacrata la personalità con un’esistenza che, legando ciascuno direttamente ad una potenza infinita, l’isolava profondamente dall’Umanità» (Catechismo positivista).
Da ciò consegue che ogni influsso sociale viene dal credente rigettato per un tipo di esistenza anarchico. «L’uomo che si crede in rapporto diretto con un Essere assoluto, non può essere che un fermento di disgregazione sociale. Egli è sollevato da uno “slancio astratto” che contrasta incessantemente “l’ordine collettivo” e disconosce tutte le solidarietà, incapace di riconoscerle nel tempo e nello spazio» (H. De Lubac, op. cit., p. 150).
Da queste considerazioni deriva anche l’accusa al cristianesimo di essere egoista, di aver sviluppato nell’individuo «un’abitudine continua di calcoli personali», che lo ha condotto nel tempo a modificare le tendenze della natura umana, dandole «un eccesso di circospezione, di previdenza, e finalmente di egoismo, che la sua organizzazione fondamentale non esigeva». L’«appello continuo ed esorbitante allo spirito di puro egoismo» ha fatto sì che la morale cristiana tendesse «ad atrofizzare, per difetto di esercizio proprio, la parte più nobile del nostro organismo morale» (Discorso sullo spirito positivo).
Evidentemente Comte della religione cristiana propone una forte riduzione, quando ne limita i principi ai due aspetti: morale e sociale. Pensare al cristianesimo come ad un ordinamento morale e sociale, significa in sostanza ridurlo ad elementi naturali, il cui controllo è possibile da parte della ragione. Comunque anche questa operazione riduttiva del cristianesimo è direttamente conseguente all’eliminazione del senso religioso.
Una volta eliminato dalla realtà il senso del mistero per limitare lo sguardo alle leggi dei fenomeni, tutto ciò che risulta insignificante e senza senso viene accantonato. In questa prospettiva ciò che all’uomo importa è stabilire la forma migliore di collaborazione con gli altri uomini, sia a livello sociale che etico. Tutto ciò che contribuisce a dare una risposta a questa esigenza di socialità viene accettato e rivalutato, a scapito invece di quello che sembra contrastare questo spirito di «comunione».
Se il cristianesimo, compresa la stessa figura di Gesù, è oggetto delle più feroci critiche, un destino diverso tocca invece la figura di san Paolo, che – secondo il capostipite del positivismo – viene considerato il fondatore del cattolicesimo. È stato san Paolo a sminuire il carattere immorale ed antisociale del cristianesimo e a giungere alla formulazione del dogma e alla costituzione dell’attuale sistema cattolico, che Comte guarda con profonda ammirazione e che poi non esiterà a far proprio, dopo averlo svuotato del suo contenuto originario ed essenziale, nell’elaborazione della sua «religione dell’Umanità».
Se san Paolo finisce per porsi sotto la sequela di Gesù Cristo è perché questo gli permette di evitare «quell’obbligo, sempre odioso ad un uomo retto, di farsi adorare» (Sistema di politica positiva). Secondo Comte, con l’istituzione nel suo seno di un sacerdozio, il cattolicesimo ha limitato fortemente quell’«anarchia evangelica», allora imperante. Il sacerdozio, infatti, ha ristretto i miracoli, ha soprattutto limitato le rivelazioni, concentrando il potere «sul capo visibile della Chiesa, divenuto così l’interprete permanente dei precetti divini» (Sistema di politica positiva). Così facendo il cattolicesimo non ha fatto altro che rafforzare il legame sociale, cosa pregevole per il Nostro.
Inoltre in questo processo di umanizzazione del cristianesimo si innestano, secondo Comte, il culto dei santi e quello della Vergine, che hanno contribuito in modo determinante all’estinzione del «culto di Dio». Anche il dogma dell’incarnazione viene recuperato ed interpretato come il tentativo di eliminare qualsiasi distinzione tra l’uomo e Dio. Lo stesso dogma trinitario in sostanza ha permesso all’uomo di riconoscere la sua «divinità», cosicché il cattolicesimo viene ad essere una premessa necessaria per l’instaurarsi della «religione dell’Umanità» (cfr. H. De Lubac, op. cit, pp. 158-159).
Sulla base di queste considerazioni è possibile spiegare anche il tentativo di Comte di cercare una alleanza con la Chiesa cattolica ed in special modo con l’ordine gesuita, ritenuto l’autentico capo spirituale del cattolicesimo. Resta comunque certo che nell’intento del maggior rappresentante del positivismo questa alleanza doveva avere un carattere puramente provvisorio; infatti una volta che «la religione dell’Umanità» fosse stata riconosciuta ed accolta positivamente dalle masse, lo stesso cattolicesimo avrebbe dovuto abbandonare le sue «pretese cristiane» per confluire nella religione positiva. Si comprende allora che ciò che Comte propone alla Chiesa cattolica non è altro che rinnegare il suo fondamento, cioè Gesù Cristo, per ridursi esclusivamente ad un fatto morale e sociale (cfr. H. De Lubac, op. cit., pp. 165-168).
3. Il nuovo dispotismo spirituale e politico La «religione dell’Umanità» diventa nelle intenzioni dell’Autore la vera religione positiva, l’unica capace di prendere il posto del cattolicesimo. Al pari della religione cattolica, il positivismo avrà il suo culto, i suoi dogmi, le sue cerimonie, le sue «consacrazioni» o «sacramenti sociali» con cui santificare «tutte le fasi attuali della vita privata, connettendole sistematicamente alla vita pubblica» (Catechismo positivista).
I mesi prenderanno i nomi significativi della religione positiva e i giorni della settimana saranno consacrati ognuno ad una delle sette scienze. Verranno costruiti templi laici (istituti scientifici) e un papa positivo eserciterà la sua autorità su coloro che si occuperanno dello sviluppo delle industrie e dell’utilizzazione pratica delle scoperte. Nella società positiva la donna diventerà la custode e la fonte della vita sentimentale dell’Umanità.
L’Umanità sarà il «Grande Essere», lo spazio il «Grand’Ambiente» e la terra il «Gran Feticcio»: in ciò consisterà la trinità della religione positiva. Questi brevi accenni sono sufficienti a dare un’idea della legislazione religiosa positivista, che non è nelle nostre intenzioni descrivere nel dettaglio. A noi interessa invece rilevare quella forma di «dispotismo spirituale» che consegue da questa costruzione religiosa positivista e che conduce al totalitarismo.
Infatti nella società retta dal positivismo i sacerdoti dovranno un’obbedienza assoluta al «Gran Sacerdote», «organo supremo dell’Umanità», sia nell’azione, sia nel pensiero che nel cuore. «La fede, cioè la disposizione a credere spontaneamente, senza previa dimostrazione, ai dogmi proclamati da un’autorità competente, è una verità fondamentale, base immutabile e necessaria dell’ordine sociale…» (Sistema di politica positiva).
Sulla base di questa sequela i sacerdoti positivisti si costituiranno come classe intellettuale, incaricata di pensare per tutti gli altri uomini: è ciò che De Lubac definisce «dispotismo spirituale»: la «diffidenza per l’intelligenza» di cui è permeato tradisce tra l’altro il carattere caricaturale dell’idea comtiana della scienza, ridotta a nuovo dogma.
Con l’istituzione della «religione dell’Umanità», l’uomo non ha più bisogno di prostrarsi dinanzi a Dio, al mistero che sottende tutta la realtà, ma dovrà sottomettere se stesso ad altri uomini e a cose puramente umane. In questi termini Comte si rivolge ai suoi adepti: «Impadronitevi del mondo sociale, poiché esso vi appartiene, non già sulla base di qualche diritto, ma secondo un dovere evidente, fondato sulla vostra attitudine esclusiva a ben dirigerlo, sia come consiglieri speculativi, sia come comandanti attivi. Non bisogna dissimulare che i servitori dell’Umanità oggi finiscono per eliminare radicalmente i servitori di Dio da ogni posto direttivo degli affari pubblici, come incapaci di prenderne un sufficiente interesse e di comprenderli realmente…» (Lettere inedite a C. Blignieres).
Dio e l’Umanità, secondo Comte, non possono essere conciliati. Si deve scegliere o per l’uno o per l’altro. Qualsiasi tentativo di sintesi nasconde un’incapacità a capire le ragioni di fondo che sostengono i due «regimi». Comunque la scelta di Dio appartiene ormai ad uno stadio superato dalla evoluzione storica, allo stadio teologico. Non resta allora che fare la scelta per l’Umanità, per lo stadio positivo, ricacciando Dio e le sue pretese assolute.
La venerazione dell’Umanità comporta però la necessità di ordinare la società secondo una distribuzione gerarchica, in cui c’è la classe speculativa (composta dal capo religioso positivista e dalla sua casta sacerdotale) che ha la funzione di comandare sull’intera società, seguita dalla classe attiva cui appartengono i banchieri, i quali a loro volta esercitano il potere sul resto dell’Umanità proletaria.
In questo ordinamento tutte le forze discordanti saranno escluse, senza però usare alcuna forma di violenza o di forza, ma cercando di «disciplinare la volontà» dell’individuo. A riguardo Comte si proclama contro ogni forma di democrazia, così come respinge ogni ansia rivoluzionaria, proponendosi come «la sola difesa sistematica dell’ordine contro le sovversioni comuniste o socialiste» (Corrispondenza inedita).
La forma politica che egli preferisce è quella dittatoriale, in cui non si fa alcun uso di metodi violenti, ma si tenta la strada della persuasione, facendo appello a due vie: l’immaginazione ed il sentimento. Per appassionare la massa degli uomini al sistema positivista occorre «proporre loro il quadro dei miglioramenti che il nuovo sistema porterà nella condizione umana».
E ciò sarà possibile se parallelamente si cercherà di suscitare nelle persone un diverso sentimento, fatto di rispetto, di venerazione, di «tenerezza» e persino di «sottomissione» nei confronti di chi è alla guida della società. In questo modo l’individuo nello stato positivo si troverà privo di qualsiasi diritto e con una serie di doveri da assolvere. La fede positiva, eliminando l’assoluto per dar rilievo al relativo, sostituisce «le leggi alle cause e i doveri ai diritti». Essa sostituisce «la vana e tempestosa discussione dei diritti» con un «fecondo e salutare apprezzamento dei doveri» (Catechismo positivista). Ogni rivendicazione dei diritti, infatti, è anarchia.
Così ogni idea di diritto «deve scomparire completamente come puramente relativa ad un regime preliminare, e direttamente incompatibile con lo stato finale che non ammette che doveri a seconda delle funzioni».
L’individuo diventa una pura astrazione se non viene compreso nell’insieme sociale, l’unica posa reale, così come avviene per il singolo animale che consiste nella specie. Per lui non c’è salvezza che nello «spirito di insieme e nel sentimento del dovere» (Sistema di politica positiva).
La formula religiosa positivista conduce dunque alla dittatura di un partito o di una setta. Rifiutando all’uomo ogni libertà e ogni diritto, essa è costretta a cadere in una forma di totale tirannia.
Come si può capire da questi brevi accenni, la «religione dell’Umanità» non rimane nel puro ambito del culto, ma incide e intende organizzare nei minimi particolari la stessa vita sociale. Così facendo Comte ritorna al problema politico da cui la sua indagine prese inizio. Allora si trattava, infatti, di risolvere uno stato di anarchia e di crisi politica esistente, cercando di individuare – come accade per l’indagine scientifica – le leggi che regolano il procedere sociale.
Una volta individuate queste leggi si poteva intervenire, modificando la stessa struttura della società. Da queste motivazioni ebbe inizio la costruzione della scienza sociologica o «fisica sociale», che Comte pose fin dall’inizio al vertice delle altre scienze, non solo per una ragione storica, ma soprattutto perché questa scienza possedeva l’oggetto più complicato rispetto alle altre indagini scientifiche.
Ora questa esaltazione del metodo scientifico e della «fisica sociale» trova a nostro avviso una sua continuazione nell’ambito della «religione dell’Umanità». Purtroppo alla costruzione religiosa dell’ultimo Comte non si è dato mai molto rilievo, perché considerata una parte inferiore rispetto all’ideologia scientista dominante. In realtà a noi sembra che la fondazione della «religione dell’Umanità» non abbia altro scopo che quello di sacralizzare l’ambito sociale, nella convinzione – per dirla parafrasando J.P. Sartre – che siamo su di un piano in cui esiste solamente l’uomo sociale.
Da ciò si deve dunque partire per spiegare la stessa riduzione del cattolicesimo, operata da Comte in nome della socialità. In questo modo la «religione dell’Umanità» altro non è che una venerazione del rapporto sociale, ossia una «sociocrazia».
A differenza del cristianesimo, la religione positivista tende all’organizzazione del Regno della Società sulla terra. Siamo dunque in una prospettiva esclusivamente immanentista, dove la religione e la sociologia collaborano per conseguire lo stesso fine: l’organizzazione di una nuova società.
In questo modo la sociologia, come scienza sociale, acquista una «consacrazione» ulteriore, una portata universale non molto dissimile dalla pretesa, manifestata da questa disciplina anche ai nostri giorni, di poter spiegare tutto sulla base dell’organizzazione e dei rapporti sociali.
Nella costruzione teoretica di Comte, dunque, non c’è più posto per l’espressione della propria interiorità e individualità. Il valore di ogni singolo individuo non si fonda più sulla base di un rapporto personale e irriducibile con il Mistero che sottende la realtà, ma sulla capacità di sapersi omologare nel grande calderone della socialità, dove il diritto scompare per lasciare il posto al dovere.
In Comte la negazione dei diritti dell’uomo consegue all’eliminazione e alla negazione di Dio. Se non si ammette un rapporto dell’uomo con l’infinito, con il Mistero, non si può nemmeno fondare la dignità, l’irriducibilità e la sacralità della persona. Se l’uomo fosse determinato soltanto dalle leggi biologiche, egli non avrebbe alcuna consistenza e non sarebbe mai libero, ma sottomesso ad un potere o ad una necessità evolutiva che lo sovrasta. Soltanto se l’uomo viene concepito in diretto rapporto con l’infinito, con «l’origine di tutto il flusso del mondo», egli rimane libero di fronte a tutti i tentativi di afferrarlo, di dominarlo e di eliminarlo nella sua dignità ultima e irriducibile (cfr. L. Giussani, La coscienza religiosa nell’uomo moderno, Jaca Book 1985).
Una volta eliminata la presenza di un Assoluto nell’universo, non resta che affidarsi alla forza cieca della fatalità. E in questa accettazione Comte non appare poi così lontano da Nietzsche. «Adoratore dell’Umanità, Augusto Comte ha profondamente disconosciuto la natura dell’uomo. Ha creduto di soddisfarla offrendole una divinità che le fosse perfettamente omogenea, un essere composto dai suoi propri adoratori..
La sua maggior debolezza deriva dal fatto che egli non ha mai lasciato che in sé si ponessero quei grandi interrogativi critici che mettono in discussione tutto il nostro essere umano, quei grandi interrogativi dell’al di là, che soli rivelano l’uomo a se stesso. Egli ha creduto di averli per sempre esorcizzati. Mai forse la loro voce si è fatta sentire, come oggi, più forte e più pressante» (H. De Lubac, op. cit., p. 206).
Attualità del pensiero di Comte
Da quanto detto fino ad ora si può comprendere l’enorme incidenza avuta dal pensiero di Comte nella mentalità contemporanea. Anzi possiamo con certezza affermare che esso è alla base della scristianizzazione attuale. Infatti il suo tentativo non è quello di negare o eliminare la religione cattolica, quanto di svuotarla del suo autentico contenuto e di ridurla ad un puro fatto morale e sociale. Questa riduzione avviene in forza della negazione del Mistero che si manifesta nella realtà e nelle circostanze quotidiane della vita umana.
«Il positivismo che domina la mentalità dell’uomo moderno esclude le sollecitazioni alla ricerca del significato che ci viene dal rapporto originario con le cose… Vorrebbe imporre all’uomo di fermarsi a ciò che appare. E questo è soffocante» (L. Giussani, Il senso religioso, Jaca Book 1986, p. 146). In questo modo Comte arriva ad eliminare dal cuore dell’uomo quel senso di precarietà assoluta, determinato dalla condizione di vivere le varie circostanze della vita senza riuscire ad afferrare e conoscere la destinazione finale e il disegno complessivo ad esse sottese. Una volta eliminata la nozione di Mistero, tutto viene determinato e spiegato da una ragione «misura di tutte le cose», secondo un criterio che risponde alla logica dell’utilità e del dominio assoluto.
Per Comte, infatti, «solo il positivismo può renderci sistematicamente liberi, cioè subordinati a leggi immutabili e conosciute, che ci liberano da ogni impero personale» (Lettere a Henri Dix Hutton). All’interno di questa prospettiva è inevitabile la caduta in una concezione determinista della realtà, che toglie qualsiasi spazio alla libertà dell’uomo. Questa affermazione di universale necessità, che permette di mettersi al riparo da «ogni impero personale», non può convivere con la possibilità di un compimento totale dell’io personale, con la capacità dell’uomo «di possedere il proprio significato, di raggiungere la propria realizzazione» (L. Giussani, Il senso religioso, cit., p. 160).
La libertà diventa quindi un presupposto indispensabile per condurre l’uomo al suo compimento e alla sua piena realizzazione. Senza la libertà non si darebbe all’uomo la possibilità di un’adesione personale all’essere e l’individuo sprofonderebbe in un completo assoggettamento alle richieste sociali e al potere che controlla e domina tali richieste. E la libertà a sua volta si dà soltanto all’uomo che non rinnega quel rapporto originario e costitutivo con il Mistero che sottende tutta la realtà (cfr. op. cit., pp. 118-126, 160-162, 165-173).
Inoltre nell’orizzonte tracciato da Comte alla ragione viene assegnato il compito di occuparsi delle leggi dei fenomeni, senza accorgersi che l’atteggiamento scientifico non riesce ad esaurire la molteplice varietà dell’esperienza umana, i cui aspetti non si riducono all’ambito biologico, fisico-chimico e sociologico. Questo atteggiamento razionalista e scientista è costretto a distruggere la stessa categoria della possibilità per lasciare il posto alla pianificazione ideologica e al dominio assoluto del potere. La storia stessa viene interpretata in modo da rendere ragione dell’idea che le si impone, tralasciano l’autentica manifestazione della realtà.
All’interno di questa ottica il primato dell’uomo nei confronti di qualsiasi istituzione sociale e statale, affermato dalla Chiesa cattolica, perde la sua consistenza ribaltandosi nel suo opposto. All’uomo non viene riconosciuto alcun diritto originario, alcuna «somiglianza» con Dio, ma soltanto il dovere di «sottomettersi» alla volontà sociale, espressa dallo stato positivista.
Partendo da questa prospettiva totalitaria tracciata dal pensiero di Comte, quanto numerosi sono gli echi che rimandano alla dispotica tirannia dell’Umanitarismo raccontata da R.H. Benson nel Padrone del mondo.