Tratto da:Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno n.43 (2014) Autonomia Unità e pluralità nel sapere giuridico fra Otto e Novecento. Giuffré editore
di Andrea Bussoletti
1. Introduzione. — 2. Gli studi su Marsilio da Padova. — 3. La critica alla costruzione dello Stato unitario. — 4. La stagione costituzionalista e l’accantonamento del federalismo. — 5. La crisi dello Stato di diritto e il neo-federalismo. — 6. Conclusioni. L’eredità di Gianfranco Miglio.
1. Introduzione
I lemmi autonomia e federalismo hanno acquisito una importanza crescente tra la conclusione del XX Secolo e l’avvio del XXI, tanto da uscire dalla sola sfera del dibattito degli operatori giuridici per entrare nella terminologia della polemica politica quotidiana, anche per effetto dell’azione di movimenti che, contestando gli ordinamenti esistenti, auspicavano un nuovo «strumento diretto di partecipazione dei cittadini al governo dello Stato» (1).
Per analizzare la trasformazione del valore semantico di questi due termini si è scelto di focalizzare l’attenzione sul pensiero di Gianfranco Miglio, uno dei pensatori più originali nel panorama italiano del dopoguerra, studioso del fondamento politico dello Stato e continuatore del filone realista di Carl Schmitt.
La parabola di Miglio è di notevole interesse, in quanto egli fu al tempo stesso testimone e artefice di tale trasformazione. Testimone attento ai processi evolutivi che portarono all’affermazione ed al conseguente declino del modello dello Stato moderno; artefice in virtù della militanza politica personale durante i suoi ultimi anni di vita, quando assurse al ruolo di ideologo e padre nobile del leghismo.
Gianfranco Miglio, nato a Como nel 1918 e ivi spentosi nel 2001, ha rappresentato una figura sui generis nell’ambito delle scienze sociali. Lo dimostra il fatto che nessuna delle definizioni adottate per la sua opera calzi appieno con la vastità dei suoi interessi.
Dopo una fase iniziale di studi medievalisti sul sistema delle relazioni internazionali, in particolare sulla figura del filosofo Marsilio da Padova, nella seconda metà degli anni Cinquanta egli si dedicò alla storia dell’amministrazione pubblica. Negli anni Sessanta alcuni saggi e prolusioni in occasione del centenario dell’Unità d’Italia e delle leggi di unificazione amministrativa (1965) fecero emergere il tema della critica allo Stato unitario.
Gli anni Settanta segnarono un periodo di rallentamento della produzione di Miglio, che alla fine del decennio tornò ad esercitare un ruolo di primo piano inserendosi nel dibattito sulla riforma delle istituzioni. Il politologo lombardo rivolse la propria attenzione alla critica del sistema parlamentare fondato nel 1948 e propose il suo superamento in direzione di un esecutivo forte e di un contemporaneo rafforzamento della sovranità popolare attraverso la rivisitazione dell’istituto del referendum (2).
Il rapporto Giannini del 1979 segnò un passaggio decisivo in quanto lo stesso governo prendeva atto dei limiti del sistema in cui gli organi costituzionali agivano: in questo contesto Miglio fondò il Gruppo di Milano, un rassemblement di giuristi e politologi che si pose l’obiettivo di presentare una propria proposta di riforma dell’architettura istituzionale.
Durante gli anni Ottanta Miglio sembrò abbandonare l’interesse per le questioni amministrative e orientò la gran parte dei suoi interventi e pubblicazioni al tema delle lacune della forma di governo parlamentare. Egli diede ampia attenzione al tema del decisore, espressione usata con riferimento a un potere esecutivo forte e messo al riparo dalla contesa parlamentare, secondo uno schema che riecheggiava più il modello di repubblica presidenziale americana che il semipresidenzialismo francese.
Il principio a fondamento di questa impostazione fu definito dallo stesso autore con l’espressione divisione non sostitutiva delle funzioni, laddove si giungeva all’ipotesi di una vera e propria divisione delle carriere tra chi avesse inteso dedicarsi alle funzioni di rappresentanza e chi a quelle di governo (3).
L’ultima grande svolta del pensiero di Miglio coincise con le epocali trasformazioni verificatesi dopo lo sgretolamento del blocco sovietico tra il 1989 ed il 1991 ed il crollo del sistema partitico della Prima Repubblica nel biennio 1992-93. In questo passaggio la svolta fu sia teorica, sia personale. Miglio riprese il filo del suo attacco allo Stato unitario e al sistema dei partiti dei primi anni Sessanta, affinò questo bagaglio dottrinario e lo mise al servizio di un soggetto politico.
Nel 1990 Miglio divenne l’ideologo della Lega Nord, un movimento politico nato dalla federazione di una serie di liste regionali, che adottò le parole d’ordine dell’autonomia e del federalismo, invocate come soluzioni per superare i problemi politici nazionali. L’influsso del pensiero migliano sul leghismo fu dirompente: il movimento politico allora guidato da Umberto Bossi, pur veicolando sentimenti diffusi nelle regioni settentrionali, difettava di una visione sistemica del rapporto tra società ed istituzioni: il neofederalismo dell’ultimo Miglio fu fondamentale in questo senso per il consolidamento del Carroccio oltre la dimensione della protesta antipartitica che ne aveva favorito i primi successi elettorali.
Tuttavia quest’ultima fase del pensiero di Miglio ha generato almeno due equivoci ancora oggi persistenti:
— in primo luogo, come sottolinea Campi (4), ha determinato una sottovalutazione della sua opera, connotato in modo limitativo e spregiativo per la sua militanza politica a prescindere sia dai contenuti della sua produzione scientifica, sia dalla rottura con la Lega Nord nel 1994 (5);
— inoltre l’uso ambiguo e spregiudicato dei termini federalismo ed autonomia, (a cui si possono aggiungere espressioni quali macroregione, secessione ed indipendenza) da parte sia del Miglio nella sua stagione di esponente politico, sia della Lega Nord si riflette ancora oggi in una confusione semantica diffusa.
Nel presente lavoro si cercherà di fare luce su due aspetti. Innanzitutto si cercherà di ricostruire, nell’ambito di un’opera più complessiva dedicata allo studio dei concetti quale il presente volume, il significato attribuito dal costituzionalista lombardo ai termini autonomia e federalismo ed allo loro reciproche correlazioni. Una volta tratteggiata l’evoluzione del pensiero giuridico migliano si analizzerà l’eredità che egli ha infuso nel linguaggio del leghismo e nell’ambito giuridico e politologico.
2. Gli studi su Marsilio da Padova.
La produzione scientifica di Gianfranco Miglio presenta un grande pregio ed un altrettanto evidente limite: il primo consiste nella multidisciplinarità, che si manifesta nella varietà dei temi toccati. Egli, pur mostrando un’attenzione privilegiata alla dimensione decisionale del potere, spazia dalla storia delle dottrine politiche a quella dell’amministrazione dello Stato, dal ruolo dei partiti a quello delle istituzioni rappresentative.
All’apparenza il limite principale è, conseguentemente, la mancanza di organicità e sistematicità. Di Gianfranco Miglio non si cita mai, non essendovi, un’opera principe, una monografia centrale nello studio del suo pensiero. Il principale volume di riferimento, Le regolarità della politica (6) (1988), è infatti una raccolta di contributi curata dagli allievi in occasione del settantesimo compleanno del politologo e costituzionalista.
Miglio fece il proprio ingresso nel mondo accademico negli stessi anni in cui l’Europa e il mondo intero erano attraversati dalla Seconda Guerra Mondiale. La vicenda bellica influenzò gli interessi dello studioso comasco, come testimoniato dalle sue prime due pubblicazioni nel 1942 (7).
Il saggio La crisi dell’universalismo medioevale e la formazione ideologica del particolarismo statutale moderno costituisce un importante punto di partenza ai fini della presente analisi. Il saggio analizza la figura di Marsilio Mainardini, filosofo vissuto tra il XIII e il XIV secolo, la cui opera più conosciuta è il Defensor pacis, del 1324.
L’opera del filosofo, meglio noto come Marsilio da Padova, aveva per oggetto la questione dei poteri universali medievali (Papato e Impero) e la loro entrata in crisi per l’emergere di uno nuova realtà, lo Stato, che riuscì ad affermarsi rivendicando uno spazio proprio. In quest’analisi Miglio fece ricorso per la prima volta al termine autonomia, usato come categoria per interpretare il pensiero marsiliano.
L’autonomia è un attributo associato ad una convivenza di una pluralità di individui capace di affermare la propria autorità non riconoscendo la presenza di entità ad essa sovraordinate. La capacità di costituirsi come ordine non riguardava più una realtà di tipo universale, come pretendevano di essere il Papato e l’Impero, bensì gruppi intermedi: essi acquisivano tale forma, il cui fondamento teorico risiedeva nel fatto di disporre in sé il principio della propria organizzazione.
La condizione che precede la crisi dei poteri universali e spinge le comunità particolari a imporre i propri ordinamenti giuridici risiede in un’altra categoria derivata dal linguaggio aristotelico: l’autarchia, intesa come autosufficienza. La discendenza e il legame tra autonomia e autarchia è di particolare interesse se si considera che all’epoca l’accezione prevalente era quelli di Santi Romano, il quale poneva i due termini in contrapposizione reciproca. Infatti, secondo l’insigne giurista gli enti locali non erano realtà pre-esistenti allo Stato (autonomia) bensì esistevano solo in quanto emanazione e derivazione di esso (autarchia) (8).
Lo scritto del 1942, rifacendosi a un tema filosofico, non pose particolare attenzione alla questione degli ordinamenti giuridici. L’elemento di novità di questa interpretazione, nell’ottica dello sviluppo futuro del pensiero di Miglio, sta nel fatto che le caratteristiche di perfectus e di per se sufficiens su cui si fonda l’autarchia sono attribuite al termine Stato. D’altro canto è lo stesso Miglio a far notare nella sua opera di esegesi che Marsilio adotta una definizione di Stato vaga, che nella sua contemporaneità medievale non indica il moderno Stato nazionale, bensì una serie di forme all’interno delle quali è possibile ricomprendere tutte le civitates superiorem non recognoscentes (9), siano esse Stati, principati, regioni o comuni.
L’autonomia dello Stato, in primo luogo dal potere ecclesiastico, discende in tal senso logicamente dall’autarchia. In definitiva un ente può affermare i propri ordinamenti come conseguenza della propria perfezione ed autosufficienza. Nella ricostruzione del superamento dei presupposti teorici dei poteri universali medievali è presente un argomento che in seguito avrebbe utilizzato proprio nei confronti dello Stato nazionale: il rifiuto del dogma dell’unità, che comporta il riconoscimento delle autorità superiori (Chiesa e Imperatore) solo come espressione di una esigenza coordinatrice.
La negazione della reductio ad unum in favore del pluralismo degli stati sembra altresì anticipare di quasi cinquant’anni le argomentazioni di Miglio di fronte alla crisi della Repubblica. Gli studi giovanili del pensiero di Marsilio da Padova erano però piuttosto rivolti, come sostenne in seguito lo stesso autore, a soddisfare un interesse riguardante il sistema delle relazioni internazionali scosso dal conflitto mondiale. In tal senso il riconoscimento delle esigenze coordinatrici rimanda al fallimento della Società delle Nazioni e l’affermazione del valore del pluralismo al rifiuto della politica di potenza delle dittature (10).
Dopo il saggio su Marsilio, Miglio tornò a fare ricorso al concetto di autonomia alla fine degli anni Cinquanta. Nel frattempo egli aveva spostato i propri interessi ad un’altra area. Allo stesso tempo si preparava una ricorrenza importante, destinata a stimolare le sue ricerche: il centesimo anniversario dell’Unità d’Italia.
3. La critica alla costruzione dello Stato unitario.
Durante gli anni Cinquanta Miglio si dedicò alla ricostruzione storica degli ordinamenti della pubblica amministrazione, cui attribuiva una propria sfera distinta sia dalla storia politica, sia da quella giuridica. L’avvicinarsi del centenario dell’unificazione nazionale stimolò un dibattito, che coinvolse in prevalenza storici e giuristi, avente per oggetto la relazione tra lo stato di salute delle istituzioni repubblicane e l’eredità che la classe dirigente liberale aveva lasciato in termini di ordinamenti giuridici. L’opera di Miglio in questi anni fu influenzata dal pensiero di Lorenz Von Stein.
Dalla lettura che quest’ultimo dà del rapporto tra Stato e Società Miglio deriva l’espressione obbligazione politica, usata per definire il tipo di rapporto che si concretizza nell’ambito dello Stato moderno. Tale obbligazione tende al principio dell’uguaglianza formale dei suoi sottoposti, laddove la società è lo spazio «della diseguaglianza e della soggezione» (11).
Miglio non fu sostenitore di una concezione monistica, tale per cui uno dei due aspetti era destinato o avrebbe dovuto affermarsi sull’altro. Egli, sempre citando von Stein, affermava che le due dimensioni di Stato e Società avrebbero teso a un equilibrio dinamico. Nei contributi di questi anni Miglio fece uno scarso ricorso al lemma autonomia. Una testimonianza indicativa di questa impostazione si può ricavare dalle Premesse ad una metodologia della storia amministrativa (1964), in cui il professore comasco incluse i Comuni e le Metropoli nella categoria delle corporazioni territoriali (12).
L’adozione di tale espressione, ripresa anche nel saggio Le contraddizioni dello Stato unitario (1965), sembra indicare una concezione dell’ente locale come somma di interessi economici individuali più vicina al diritto privato che a quella definizione di communitas superiorem non recognoscens che Miglio, attraverso Marsilio, aveva definito come fondamento dell’autonomia. Tutto questo non significa però che Miglio fosse sostenitore di una visione ispirata alla centralizzazione dell’ordinamento giuridico.
Al contrario egli in più riprese tra il 1959 ed il 1965 produsse una serie interventi critici in occasione degli anniversari degli eventi che portarono all’Unificazione nazionale. Egli individuò nel processo risorgimentale le ragioni dei malfunzionamenti dell’ordinamento repubblicano: la sua originalità stette nell’attenzione prioritaria data agli aspetti della amministrazione statale e nella contrapposizione tra tale dimensione ed il principio di rappresentanza elettiva.
Il dibattito storiografico degli anni Sessanta sul tema dell’unificazione amministrativa successiva al 1861 si inserì in un contesto generale segnato dalla ricerca di un nuova formula governativa (13) e dalla questione non ancora risolta dell’attuazione del Titolo V della Costituzione nella parte riguardante l’istituzione delle Regioni a Statuto Ordinario. Le varie valutazioni delle scelte compiute dalla cosiddetta Destra Storica nel processo di completamento dell’unificazione a cento anni di distanza sono state riassunte da Aimo in due filoni tra loro confliggenti (14):
— un filone neoliberale, «sostanzialmente giustificazionista nei confronti dell’operato della classe dirigente risorgimentale» (15), che rifiutava l’accezione negativa del termine piemontesizzazione, affermando la maggiore modernità della legislazione del Regno di Sardegna, la quale derivando dalla matrice napoleonica non era in realtà del tutto sconosciuta agli altri Stati pre-unitari;
— una corrente filoautonomistica, che osservò come in realtà lo sviluppo degli eventi successivi al 1859 non fosse il frutto di una scelta necessaria ed inevitabile, bensì l’espletarsi di un precisa volontà politica di una classe dirigente al fine di mantenere il proprio controllo nella gestione dello Stato.
I filoautonomisti a sua volta raggruppavano una vasta galassia, all’interno della quale potevano essere facilmente individuati i due sottogruppi dei marxisti da un lato, i quali innestavano questo ragionamento nell’ambito della interpretazione gramsciana dell’unificazione nazionale come rivoluzione mancata; dall’altro dei democratici cattolici, che evidenziarono come la classe dirigente liberale, per paura soprattutto della riconquista del potere dei Borbone nel Mezzogiorno, avesse soffocato il ricco pluralismo di corpi presente nel tessuto sociale italiano.
Miglio, pur essendo agevolmente collocabile nel gruppo dei filoautonomisti di matrice cattolica, esprimeva posizioni originali al suo interno. Egli ad esempio rifiutava l’interpretazione della piemontesizzazione degli ordinamenti giuridici nelle terre annesse allo Stato unitario: Miglio ritenne che l’applicazione a tutto il territorio italiano della legislazione sabauda non diede vita a uno Stato centralizzato.
Piuttosto nei territori degli ex Stati pre-unitari furono date applicazioni differenti agli stessi testi normativi, rendendo disomogeneo l’ordinamento complessivo. Significativa in tal senso fu la sopravvivenza all’interno dello Regno d’Italia di cinque distinte Corti di Cassazione in corrispondenza dei precedenti stati pre-unitari, di sei istituti di emissione della moneta e di tre ordinamenti penali (16).
Miglio negava un altro dato generalmente accettato da parte della storiografia risorgimentale, ossia il fatto che la scelta di adottare una architettura istituzionale centralista, con la limitazione dei poteri degli enti locali e il rifiuto delle proposte regionaliste fosse una scelta obbligata per la classe dirigente artefice dell’Unità d’Italia. Miglio menziona i disegni di legge Minghetti sulle Regioni del 1860-61, che egli valutò positivamente sostenendo che «sul piano tecnico si trattava di decentramento spinto fino al limite del ‘federalismo’» (17).
Il progetto minghettiano fu respinto, per la mancanza di una classe dirigente convintamente federalista: in particolare Miglio constatò il fallimento politico dei neo-guelfi, sostenitori dell’unificazione nazionale in uno Stato di tipo federale sotto la guida del Pontefice, i quali avevano dimostrato scarso coraggio politico durante lo sviluppo delle vicende risorgimentali. Allo stesso modo l’aspirazione della classe dirigente piemontese a realizzare un ordinamento giuridico basato sull’uguaglianza formale, caratteristica tipica degli Stati di diritto,
fu precipitosa come nessun’altra; non solo, ma si unificarono norme e ordinamenti che sarebbe stato logico lasciare molteplici e si lasciarono sussistere particolarismi legislativi che si sarebbero dovuti invece rapidamente uniformare; infine profonde differenze naturali e le peculiarità tradizionali presero la loro rivincita sull’unità superficialmente imposta, ed a norme formalmente identiche corrisposero ben presto interpretazioni ed applicazioni intimamente differenziate (18).
In questo periodo il lemma federalismo ricevette da Miglio un’attenzione superiore rispetto a quello di autonomia. Miglio, anticipando in questi anni le posizioni polemiche che avrebbe ripreso con la militanza politica, usò questa categoria per emettere il proprio giudizio storico sull’operato della classe dirigente artefice dell’Unità d’Italia. I successori di Cavour bloccarono qualsiasi progetto regionalista in quanto timorosi di resuscitare lo spettro dei particolarismi pre-unitari, non permettendo così lo sviluppo di una necessaria «fase intermedia di carattere federale» (19).
Lo stesso Miglio nota come tale fase sarebbe stata più facilmente attuabile se il processo di unificazione nazionale si fosse svolto in un arco di tempo più ampio, tuttavia egli lamentò
come distratti dalla clamorosa contesa tra ‘regionalisti’ ed ‘unitari’ noi tutti abbiamo sottovalutato la posizione di quegli esperti di amministrazione che […] continuarono ad insistere sull’idea di una circoscrizione territoriale maggiore di quella affidata, allora come oggi, al Prefetto, e di un sostanziale accrescimento dell’autonomia e della potestà dei funzionari periferici (20).
Il mancato accoglimento delle proposte di Minghetti aveva bloccato quel tipo di riforma federale ragionata, basata sul riconoscimento della presenza di differenze «climatiche, etniche, sociali, economiche e storiche» (21), che avrebbe reso possibile lo sviluppo di ordinamento più coeso ed omogeneo. In questo passaggio si può notare come il federalismo di Miglio mostri già una componente di carattere etnico.
Miglio, commentando le leggi Comunali e Provinciali del 1859 e del 1865, porta a compimento il suo complessivo ragionamento sul rapporto tra centro e periferia e tra amministrazione e rappresentanza. Egli prospetta la possibilità di un sistema dotato di un esecutivo centrale forte, la cui presenza nei territori è garantita dai sindaci e dai prefetti e nel quale il ridimensionamento del principio della rappresentanza elettiva favorisce il rafforzamento delle strutture amministrative locali, sottratte dalle logiche clientelari su cui si fonda il mandato elettorale.
Secondo Miglio, infatti, la vera ragione dell’inefficienza del sistema era da rintracciare nell’applicazione del principio della rappresentanza elettiva a tutti gli ambiti dell’amministrazione, compresi Comuni e Province. In questo quadro i termini autonomia e federalismo, pur non definiti in maniera esplicita assumono significati specifici e certamente originali.
La prima viene sganciata dalla dimensione dell’ente territoriale per essere piuttosto declinata a descrivere i rapporti tra le strutture amministrative da un lato e le istituzioni rappresentative dall’altro. Questa concezione taglia trasversalmente la dimensione verticale lungo la quale si collocano le istituzioni tra i due poli dello Stato centrale e dei Comuni, accomunando da un lato gli apparati esecutivi e amministrativi e dall’altra le assemblee (consigli comunali, provinciali e Parlamento): l’autonomia consisterebbe nella messa al riparo dei primi dalle logiche di consorterie e clientela tipiche della seconde.
La concezione del termine federalismo rimanda invece alla classica interpretazione come riconoscimento originario di una pluralità di realtà differenti nel quadro della costruzione di un ordinamento giuridico unitario.
4. La stagione costituzionalista e l’accantonamento del federalismo.
Tra il 1968 ed il 1970 si compì una importante svolta giuridica: dopo l’approvazione della legge elettorale regionale (n. 108 del 17 febbraio 1968) si tennero il 7 e l’8 giugno 1970 le prime consultazioni per l’elezione dei Consigli regionali delle regioni a Statuto ordinario. In seguito sarebbe state approvate le prime leggi sul decentramento amministrativo, con ampi trasferimenti di funzioni alle Regioni (legge 382/1975 e D.P.R. 616/1977).
L’istituzione delle Regioni apparve ai contemporanei come il definitivo completamento dell’architettura istituzionale realizzata dai padri costituenti. Fino ad allora l’opinione prevalente dei commentatori era quella secondo cui una delle maggiori ragioni del cattivo rendimento delle istituzioni era rintracciabile proprio nel mancato compimento delle disposizioni costituzionali. Dopo tale svolta invece fu proprio tale architettura ad essere considerata come fattore di debolezza istituzionali.
Negli anni conclusivi del decennio la Grande Riforma divenne una questione di importanza capitale nei dibattiti di giuristi e politici. La stesura del rapporto del Ministro della Funzione pubblica Massimo Severo Giannini per la riforma della pubblica amministrazione in Italia nel 1979 rappresentò il momento simbolico in cui le stesse istituzioni giunsero alla consapevolezza della necessità di porre mano alla Carta Costituzionale.
Nei primi anni Settanta Miglio mostrò scarso interesse per le questioni istituzionali: nel 1972 egli pubblicò il volume Le categorie del politico, raccolta dei saggi di Carl Schmitt. La sintesi dell’influsso del politologo tedesco e di quello di Von Stein, condusse Miglio al compimento della sua teoria dei fenomeni politici e sociali. Egli fondò la distinzione tra Stato e società sulla base di categorie differenti.
Lo Stato è l’ambito dell’obbligazione politica, un rapporto di fedeltà fondato sulla dicotomia amico-nemico: è lo Stato infatti a individuare al suo esterno un «nemico», e sulla base di questo fonda la propria sovranità su dei raggruppamenti umani che accettano un modello verticistico. La Società è invece l’area del contratto scambio, nella quale i partecipanti realizzano legami di natura orizzontale, animati dalla volontà, circoscritta temporaneamente, di ricavare un vantaggio dall’interazione con l’altro.
Sono gli anni in cui Miglio dedica la sua attenzione principale alla critica del regime parlamentare (peraltro già emersa nei saggi di critica del processo di unificazione nazionale) e al suo superamento attraverso il rafforzamento dell’esecutivo, con l’attribuzione di più ampi poteri al decisore, fino alla proposta di rafforzare la separazione dei poteri, con il divieto per i ministri ed i membri del governo di essere allo stesso tempo parlamentari.
Come si può notare, in questa fase del pensiero migliano il tema del rapporto istituzionale tra lo Stato centrale e la periferia è quasi del tutto assente. Costituisce una eccezione a questo panorama un articolo sul Corriere della Sera, del 1975, nel quale Miglio mostrò il proprio favore alla proposta lanciata dal presidente della Regione Emilia-Romagna, Fanti, il quale suggeriva la creazione di una aggregazione delle regioni settentrionali, cui attribuì il nome, poi divenuto celebre, di Padania.
Miglio si associò alla proposta, criticando l’istituto della regione previsto in Costituzione, osservando come esse fossero una invenzione della classe dirigente piemontese, oramai anacronistica. In tale circostanza ripeté l’accenno ad un ordinamento federale basato sul riconoscimento reciproco delle grandi aggregazioni climatiche e socio-economiche, affermando che mentre lo Stato italiano era di dimensioni troppo grandi per essere governato, le venti regioni erano in tal senso troppo piccole (22).
Alla fine del decennio anche Miglio prese atto della necessità di mettere mano all’architettura istituzionale introdotta nel 1948. Egli, d’altro canto, aveva anticipato di un anno la stesura del rapporto Giannini, avviando i lavori di un gruppo di studiosi (il «Gruppo di Milano»), che si pose l’ambizioso compito di proporre ai legislatori un modello di riforma della Costituzione. L’avvio della stagione «costituzionalista» di Miglio può essere fatto risalire alla pubblicazione del saggio Una costituzione in corto circuito, nel 1978, nel quale fu ribadita la necessità di superare il regime parlamentare puro.
L’interesse per la questione dell’autonomia e per il federalismo toccò in questa fase il suo punto più basso: Miglio in seguito avrebbe giustificato la scarsa attenzione come il risultato di una scelta presa all’interno del Gruppo di Milano, da lui non condivisa; tuttavia va fatto presente che agli inizi degli anni Ottanta il clima culturale era tale da non considerare questo tema degno dell’attenzione del processo riformatore.
Il risultato del lavoro del Gruppo di Milano, raccolto nel volume Verso una nuova costituzione, del 1983, si limitò ad auspicare una più ampia autonomia regionale e la trasformazione del Senato in una camera delle regioni, senza fare alcun accenno a una possibile strutturazione federale dell’ordinamento (23). Il disinteresse di Miglio fu speculare a quello dei suoi contemporanei: basti pensare che la Commissione Bicamerale Bozzi (1983-85), primo tentativo concreto di procedere a una incisiva riscrittura della Costituzione, concluse i suoi lavori presentando una relazione nella quale non vi era né un’analisi, né tantomeno una proposta di modifica, del Titolo V sull’ordinamento regionale.
Nonostante tale disinteresse, la questione del rapporto tra Stato e Regioni stava acquisendo una consistenza politica. Nei primi anni Ottanta si registrò una fioritura di movimenti etno-regionalisti. Essi non costituivano una novità assoluta nel panorama italiano, ma fino ad allora la loro diffusione si era limitata alle Regioni a Statuto speciale (SVP, Union Valdôtaine, Partito Sardo d’Azione) (24).
La realizzazione delle regioni a statuto ordinario aveva creato una forte disparità: queste ultime prendevano atto che le regioni definite autonome nel linguaggio della Carta Costituzionale disponevano di maggiori risorse economiche (25). Il primo movimento etnoregionalista in grado di ottenere un significativo risultato elettorale fu la Liga Veneta, che nel 1983 elesse un deputato ed un senatore. Le rivalità interne a quest’ultima ne determinarono il rapido declino a vantaggio di un altro soggetto: la Lega Lombarda.
Questi movimenti politici nei loro albori rivendicavano identità locali e sollevavano due questioni in materia di redistribuzione del potere tra centro e periferia: l’aspirazione all’autonomia configurata come richiesta specifica dello Statuto speciale da parte di Lombardia e Veneto, ed il federalismo ridotto alla tematica della leva fiscale con la richiesta di trattenere all’interno delle regioni il gettito delle imposte. In questo senso è significativo il nome del primo giornale della Lega Lombarda: Lombardia Autonomista ( 26).
Il federalismo costituiva inoltre un termine dal connotato polemico, svuotato della sua dimensione giuridica e utilizzato come polo opposto a quello dell’Unità nazionale. La crescita elettorale di questi movimenti alla fine degli anni Ottanta alimentò la confusione sul termine federalismo, peraltro alimentata anche dalle forze politiche di governo.
La relazione tra i leghisti e Miglio fu biunivoca: i primi ripresero alcuni argomenti che lo studioso aveva seminato in maniera non sistematica negli anni precedenti, in particolare la critica al concetto di nazione italiana nella sua militanza politica nella rivista Il Cisalpino durante la Resistenza (27) e le argomentazioni contro il processo di unificazione nazionale addotte in occasione del centenario dell’Unità d’Italia. Il secondo vide nel nuovo movimento politico la ripresa e l’applicazione delle sue aspirazioni al superamento dell’ordine costituzionale eretto nel dopoguerra.
Miglio aveva constatato già nel saggio Genesi e trasformazione del termine concetto Stato del 1981 quello che a suo dire era il compimento del modello dello Stato di diritto, che si avviava ad essere superato per un ritorno a una società di stampo medievale, ordinata per statuti. In tale nuovo ordinamento le corporazioni sarebbero tornate a svolgere un ruolo centrale.
In questo passaggio si registra la ripresa del concetto di corporazioni locali per definire Comuni e Province, associate a quelle di carattere economico e lavorativo (di cui esempio principe sono le organizzazioni sindacali). Lo Stato è una «persona ficta» (28) tanto quanto lo fu in età medievale il Sacro Romano Impero: l’obbligazione politica schmittiana è destinata a lasciare spazio alla sfera del contratto-scambio (29), nella quale si concretizza l’autonomia dei privati e delle corporazioni.
L’avviarsi verso un nuovo Medioevo, ben si accompagnava allo spirito comunalistico (30) della Lega Lombarda, che trovava una vasta rispondenza nella propria simbologia (il richiamo alla Battaglia di Legnano e la presenza nel simbolo di Alberto da Giussano).
5. La crisi dello Stato di diritto e il neo-federalismo.
Il saggio Una repubblica mediterranea? del 1987 segna con ogni probabilità l’effettivo punto di contatto tra il costituzionalista e i movimenti leghisti. Miglio, analizzando criticamente l’esperienza del Gruppo di Milano, sostenne che l’insuccesso di tale progetto dipese dal tentativo di applicare una costituzione fondata sullo Stato di diritto a un popolo che rifiuta il «gusto occidentale alla impersonalità del comando», convinto che «a comandare non possano (e quindi non debbano) essere le prescrizioni astratte, ma le persone concrete in grado di farsi obbedire» (31).
In questo saggio il politologo espresse per la prima volta l’ambizione, reiterata negli anni successivi, a costituzionalizzare la mafia, ritenuta una delle espressioni della natura clientelare in cui si concretizza la «personalizzazione dell’autorità». Il punto di contatto tra Miglio e il leghismo era rintracciabile nella comune condanna delle modalità del processo di unificazione nazionale e nel riconoscimento da parte di entrambi della presenza di radicate differenze etniche nel territorio italiano. In particolare la convinzione, intrisa di realismo, secondo cui a popoli con caratteristiche differenti andrebbero date costituzioni differenti fu un punto chiave delle rivendicazioni leghiste in merito alle differenze tra Nord e Sud Italia.
Lo stesso Miglio sostenne in seguito che la popolazione del Nord era affine ai popoli freddi europei e quindi auspicava una costituzione di tipo moderno occidentale, mentre il Sud avrebbe necessitato di una costituzione diversa, individuata secondo i criteri enunciati nel 1987 (32). L’incontro tra Miglio e il leghismo avrebbe dato vita a una collaborazione breve ma foriera di contributi interessanti sia per il dibattito politico che per quello giuridico.
Per ciò che ci attiene, ossia l’utilizzo dei termini federalismo e autonomia, è necessario riordinare lo stato della questione alla fine degli anni Ottanta, per poi procedere ad analizzare gli sviluppi. La rinnovata attenzione di Miglio per la tematica del rapporto tra centro e periferia fu legata non solo all’emersione del leghismo, ma anche alla crisi del sistema internazionale bipolare che stimolò il costituzionalista ad osservare i processi in corso nell’Est Europa dopo la caduta dell’Unione Sovietica.
Proprio dall’analisi delle trasformazioni dell’URSS e della Jugoslavia, Miglio maturò l’ultimo suo grande apporto di carattere accademico: il neo-federalismo (33). In tale concezione sembra chiudersi il cerchio del suo pensiero giuridico: lo Stato sta attraversando una fase simile a quella che tra la metà del XIII e del XIV aveva caratterizzato le istituzioni universali descritta da Marsilio, con nuovi soggetti che invocano la propria autonomia, intesa come espressione della propria autosufficienza, segnando l’avvento di una nuova fase storica.
Curiosamente, lo Stato moderno è destinato ad essere superato per effetto di un processo simile a quello che ne aveva determinato l’affermazione sette secoli prima. Le istituzioni statali si dirigerebbero a livello mondiale verso un nuovo federalismo: mentre quello antico determinava l’effetto di unire in una sola comunità statale soggetti differenti (l’e pluriuso unum, motto fondante originario degli Stati Uniti d’America), il nuovo segnava il percorso inverso, ampliando l’area dei rapporti privati e delle realtà locali a discapito delle grandi aggregazioni, destinate a riformulare la loro presenza solo ai fini della politica estera (ex uno plures (34)).
Tale tendenza appare a Miglio come la conseguenza dell’affermazione della sfera del contratto-scambio sull’obbligazione politica, cui si affianca il tramonto del modello dello jus publicum europaeum e della sua aspirazione alla razionalità degli ordinamenti giuridici e all’impersonalità del comando. Ad essa si sostituisce l’idea della necessità di fondare il diritto e gli ordinamenti costituzionali su basi di natura etnica: gli Stati costituzionali lasceranno spazio a più circoscritte Società di Statuti.
La consapevolezza di tale tendenza indusse Miglio a catalogare i sistemi federali, sulla base del suddetto criterio: esisterebbero pertanto federalismi «falsi» o addirittura «degenerati», contrapposti al nuovo modello, unica reale espressione del principio federale. Dei primi costituisce un esempio il caso tedesco, dove nel dopoguerra gli USA imposero la struttura dei Länder e la associarono ad un forte potere del governo centrale; i secondi sono invece rappresentati proprio da quegli Stati Uniti d’America che per lungo tempo hanno costituito il modello di riferimento della letteratura sul federalismo.
In essi nel corso del XIX secolo e ancor di più con la politica del Welfare State di Roosevelt si ridusse fortemente il potere degli Stati componenti la federazione (35). Solo recentemente, in seguito alla proposta del presidente Reagan dell’introduzione di un new federalism, gli USA avrebbero intrapreso un processo di abbandono delle strutture dello Stato moderno, in favore di un rafforzamento del potere degli Stati a discapito del governo federale.
Il vero federalismo prevedrebbe, invece, il riconoscimento di entità originarie e autoctone da parte di una federazione costituita ai meri scopi di coordinamento e gestione della politica estera. Ad esse si assocerebbe un governo di tipo direttoriale, capace di evitare le degenerazioni del parlamentarismo ed in grado di garantire l’unità federale attraverso la regola dell’unanimità come criterio decisionale.
Miglio interpreta tale sviluppo dei sistemi istituzionali come una tendenza in atto a livello globale: non si tratta dunque di un modello auspicabile o da perseguire, bensì il risultato non evitabile e necessario dell’evoluzione degli ordinamenti giuridici. Il modello cui Miglio fa riferimento per descrivere la natura dei veri federalismi è la Svizzera, con la sua struttura di «cantoni» indipendenti. Il culmine di questo ragionamento è la negazione della classica distinzione tra federazione e confederazione: più precisamente sarebbero solo queste ultime le espressioni del vero federalismo.
Così facendo Miglio rinnega la tradizione del pensiero federalista americano di Hamilton per attestarsi, per sua stessa ammissione, sulle posizioni di Jefferson e del filone di pensiero tradizionalmente definito come «antifederalista» tra la Rivoluzione Americana del 1776 e l’approvazione della Costituzione nel 1787. L’interesse di Miglio verso questo sviluppo del pensiero politico lo portò a introdurre nella pubblicistica nazionale le opere dei principali studiosi americani neo-federalisti quali David J. Elazar (36) e Martin Diamond (37).
6. Conclusioni.
L’eredità di Gianfranco Miglio. L’eredità dell’opera di Gianfranco Miglio si mostra agli occhi dei contemporanei come un Giano bifronte. Da una parte si può osservare il suo contributo politico, al consolidamento del linguaggio e della terminologia delle leghe regionali; dall’altro la lezione scientifica e accademica. Senza dubbio egli ha avuto il merito di introdurre nel circuito accademico italiano le opere di studiosi come Schmitt, von Stein, Elazar e Diamond, nella continua ricerca di una posizione anticonformista.
La rivisitazione della storia italiana e la conduzione alle estreme conseguenze della teoria schmittiana lo hanno portato ad essere uno dei più attenti studiosi del fenomeno dello Stato, fino ad arrivare a analizzarne il deperimento e a prospettare scenari per il suo superamento. In questo senso il suo neo-federalismo costituisce una sintesi in direzione di sistemi confederali, nei quali autonomia e federalismo coesistono come espressioni indicative di nuovi ordinamenti giuridici.
Gli allievi di Miglio continuano a tutt’oggi a sviluppare l’analisi sulla distinzione tra federalismi veri e presunti: basti pensare alla ricerca di Bassani sugli sviluppi del federalismo americano dalla convenzione di Filadelfia alla guerra di secessione (38), nel quale egli riprende la tesi di Miglio secondo la quale gli USA hanno adottato il modus operandi dello Stato moderno europeo. Un altro erede del politologo lombardo, Vitale, ha invece ripreso e sviluppato la prospettiva di uno sviluppo delle istituzioni comunitarie europee verso un modello ispirato al Sacro Romano Impero (39).
Il neo-federalismo è stato criticato da parte di studiosi che hanno osservato come esso si basasse sulla negazione della distinzione tra federazione e confederazione. Malandrino, pur condividendo l’ipotesi di partenza del «deperimento» dello Stato nazionale, rifiuta tale esito, sostenendo che la proposta di Miglio costituirebbe uno «pseudofederalismo a senso unico di tipo localista e parossisticamente decentratore» (40).
Malandrino invece indica la propria preferenza per una soluzione che non implichi «l’abbandono di potestà sovrana e statualità condivisa tra federazione e Stati membri» (41). Tra i critici di questa eredità del pensiero migliano vi è anche uno dei suoi maggiori allievi, Schiera, il quale esprime dubbi sulla prospettiva di ritorno al Medioevo logicamente associata alle espressioni come Società di Statuti e Stato per ceti caratterizzati dalla funzione pubblica diffusa e dal potere contrattato, ritenendo piuttosto necessaria la creazione di un «nuovo ‘sistema’ concettuale e istituzionale» (42).
Parimenti interessante è il contributo di Miglio al dibattito politico: oltre ad avere nobilitato un movimento visto con scetticismo se non con ostilità dal mondo accademico, egli ha dato un apporto cruciale alla Lega Nord negli anni della sua ascesa da piccolo movimento regionalista a soggetto di importanza primaria negli equilibri italiani. Miglio già da anni aveva criticato l’assetto istituzionale dello Stato unitario e menzionato l’esistenza di una aggregazione delle regioni del Nord, la Padania, poi evocata dalla Lega per dare un collante unitario alla propria proposta politica; con ogni probabilità si debbono a lui anche l’immissione nel linguaggio leghista di termini come macroregione e confederazione.
Gli stessi termini federalismo e autonomia, acquisirono un significato più denso all’interno del leghismo proprio grazie all’apporto di Miglio: non va dimenticato che il leghismo degli albori aveva una accezione dell’autonomia limitata alla sola richiesta dello Statuto speciale, mentre il termine federalismo era ambiguamente adottato come aspirazione alla rottura dell’unità nazionale.
Dopo l’ingresso di Miglio nella Lega l’autonomia divenne la rivendicazione di un ruolo più forte per gli enti locali, a partire dai comuni e dalle città, nei confronti dello Stato, mentre il federalismo si trasformò nella prospettiva di un rinnovato e più efficiente ordine costituzionale. Infine va fatto notare come entrambe le eredità di Miglio si basino sull’assioma della coesistenza dei termini autonomia e federalismo.
Tale coesistenza non solo non è un dato pacifico, ma al contrario alimenta dubbi e critiche da parte di chi, anche recentemente, ha osservato come una concezione di tipo autonomista, diretta a dare maggiori poteri a soggetti quali comuni e città, sia potenzialmente in conflitto con una che ritenga lo Stato composto da una federazione di entità. Caciagli, ad esempio, osserva come tale lascito alimenti ancora oggi una confusione nell’uso dei termini.
Nel dibattito contemporaneo si registra spesso l’utilizzo dell’espressione federalismo fiscale per descrivere piuttosto un obiettivo di municipalismo fiscale, quale l’attribuzione ai comuni della facoltà di determinare le aliquote delle proprie imposte e di trattenere al proprio interno il gettito da esse ricavato. In tal senso, va aggiunto, è più assimilabile al federalismo fiscale quell’impostazione, tipica della retorica leghista delle origini ma ancora oggi presente, in base alla quale il gettito fiscale versato in una regione deve rimanere all’interno della stessa. Caciagli fa notare come le due impostazioni qui enunciate siano tutt’altro che coincidenti: al contrario la tradizione localista e campanilista della cultura italiana fa sì che le due impostazioni debbano piuttosto essere considerate mutuamente confliggenti.
In conclusione possiamo osservare come la parabola del pensiero di Gianfranco Miglio non sia incoerente come potrebbe sembrare da una disattenta lettura delle sue opere. Egli nella fase finale della sua carriera riprese le intuizioni giovanili sulla definizione dell’autonomia come corollario dell’autosufficienza e sull’analisi critica del processo di unificazione nazionale, per combinarle alla teoria schmittiana dello Stato e alla categoria di von Stein dell’obbligazione politica.
Il pensiero del politologo e costituzionalista sembra seguire infatti una traiettoria ciclica, secondo un andamento dialettico che lo portò a recuperare alla fine della propria carriera la prospettiva del federalismo e dell’autonomia propugnata in età giovanile fino agli Sessanta, dopo l’interruzione degli anni Settanta e Ottanta in cui si dedicò in prevalenza al tema del decisore e del rafforzamento del potere esecutivo a scapito del legislativo.
Tutti questi apporti risultano sistematizzati in un modello interpretativo in cui la crisi dello Stato avrebbe dato spazio a nuove istituzioni, dove il ricorso a legami di natura federale avrebbe consentito l’adeguamento delle comunità umane alle trasformazioni di fine secolo.
La nuova era, secondo Miglio, avrebbe invertito la relazione tra popoli ed ordinamenti giuridici: il principio dell’oggettività e razionalità degli ordinamenti giuridici, particolarmente caro alla tradizione dello jus publicum europaeum, avrebbe lasciato spazio a nuovi assetti costituzionali fondati sulle determinazioni volontariste dei raggruppamenti umani, i quali avrebbero deciso da soli, secondo l’assunto marsiliano di avere in sé il principio della propria organizzazione, se affidarsi a un fondamento impersonale o ad uno soggettivi del comando.
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1) C. PETRACCONE, Federalismo e autonomia in Italia dall’unità ad oggi, Roma Bari, Laterza, 1995, p. 7
2) Sul tema si veda G. MIGLIO La sovranità popolare negata, in ID., Una repubblica migliore per gli Italiani (Verso una nuova Costituzione), Milano, Giuffrè, 1983, pp. 98-124.
3) G. MIGLIO, Una costituzione per i prossimi trent’anni. Intervista sulla terza repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 96.
4) A. CAMPI, Schmitt, Freund, Miglio. Figure e temi del realismo politico europeo, Firenze, La Roccia di Erec, 1996, pp. 113-114.
5) I motivi dell’abbandono della Lega Nord da parte di Miglio nel maggio 1994, all’indomani della vittoria elettorale della coalizione guidata da Berlusconi e comprendente la stessa Lega sono ancora oggi incerti. Miglio sostenne che vi fossero già stati motivi di tensione con il segretario leghista in precedenza, mentre Bossi sostenne che l’abbandono fu la reazione alla mancata nomina del professore comasco a un incarico ministeriale. Per la prima versione si veda G. MIGLIO, Io, Bossi e la Lega. Diario segreto dei miei quattro anni sul Carroccio, Milano, Mondadori, 1994; per la seconda invece G. PASSALACQUA, Il vento della Padania, Storia della Lega Nord 1984-2009, Milano, Mondadori, 2009, p. 70.
6) G. MIGLIO, Le regolarità della politica. Scritti scelti raccolti e pubblicati dagli allievi, 2 voll., Milano, Giuffrè, 1988.
7) Trattasi di G. MIGLIO, La controversia sui limiti del commercio neutrale fra Giovanni Maria Lampredi e Ferdinando Galiani: ricerche sulla genesi dell’ indirizzo positivo nella scienza del diritto delle genti, Milano, ISPI, 1942 e del saggio qui menzionato ID., La crisi dell’universalismo medioevale e la formazione ideologica del particolarismo statutale moderno, Padova, CEDAM, 1942
8) S. ROMANO, Decentramento amministrativo, in Enciclopedia giuridica italiana, vol. 4, parte 1, Milano, Società Editrice Libraria, 1897.
9) MIGLIO, La crisi dell’universalismo medievale, cit.
10) G. MIGLIO, Considerazioni retrospettive, in ID., Le regolarità della politica, cit., vol. I, p. XXXIII.
11) G. MIGLIO, Le origini della scienza dell’amministrazione, in La scienza dell’amministrazione. Atti del I Convegno di studi di Scienza dell’amministrazione, ora in ID., Le regolarità della politica, cit., p. 302.
12) G. MIGLIO, Premesse ad una metodologia della storia amministrativa, ora in ID., Le regolarità della politica, cit., p. 436.
13) Nel 1962 prese forma il primo governo Fanfani di centro-sinistra, con l’astensione del PSI, che entrò nella compagine governativa e nella maggioranza dopo le elezioni politiche dell’aprile del 1963.
14) La definizione dei tre filoni alternativi di pensiero sul tema dell’unità nazionale in occasione del centenario è tratta da P. AIMO, Stato e poteri locali in Italia dal 1848 a oggi, Roma, Carocci, 2010, pp. 48-49.
15) Ibidem.
16) P. UNGARI Giuseppe Zanardelli guardasigilli e l’avvocatura, in Giuseppe Zanardelli. Atti del Convegno Brescia 29-30 settembre 1983, a cura di R. Chiarini, Milano, Franco Angeli, 1985, p. 186.
17) G. MIGLIO, Gli aspetti amministrativi dell’unificazione nazionale, in ID., Le regolarità della politica, cit., p. 383.
18) Ivi, p. 393.
19) G. MIGLIO, Le contraddizioni dello Stato unitario, in ID., Le regolarità della politica, cit., p. 383
20) Ivi, p. 499.
21) Ivi, p. 501.
22) PETRACCONE, Federalismo e autonomia, cit., pp. 296-301
23) Verso una nuova costituzione, a cura del Gruppo di Milano, Milano, Giuffrè, 1983, vol. I, pp. 47-49.
24) M. CACIAGLI, Fra regionalismi e localismi: sull’improbabile attuazione dello Stato federale in Italia, in Alla ricerca della statualità. Un confronto storico-politico su Stato, federalismo e democrazia in Italia e in Europa, a cura di L. Tedoldi, Verona, QuiEdit, 2012, pp. 162-163.
25) Ivi, pp. 161-165.
26) D. VIMERCATI, I lombardi alla nuova crociata. Il fenomeno Lega dall’esordio al trionfo, Milano, Mursia, 1990.
27) PETRACCONE, Federalismo e autonomia, cit., p. 252.
28) G. MIGLIO, Genesi e trasformazione del termine-concetto Stato, in ID., Le regolarità della politica, cit., p. 841
29) Il superamento delle teorie di Carl Schmitt è evidente in questo passo. Miglio afferma che lo stesso politologo tedesco era consapevole della crisi dello Stato moderno, come testimoniavano i suoi studi sulla guerra civile condotti nel dopoguerra. Tuttavia, sempre secondo Miglio, egli non volle rinnegare la tradizione del jus publicum europaeum nel quale si era formato. Si veda al proposito G. MIGLIO, Oltre Schmitt, in ID., Le regolarità della politica, cit., pp. 753-760.
30) M. CACIAGLI, Dal localismo al federalismo?, in Quale federalismo per l’Italia di oggi, Atti della giornata di studi promossa dalla Facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri” per i 150 anni dell’Unità d’Italia, a cura di S. Rogari, Firenze, Firenze University Press, 2013, pp. 58-59.
31) G. MIGLIO Una repubblica mediterranea?, in ID., Le regolarità della politica, cit., p. 1098
32) G. MIGLIO, L’asino di Buridano. Gli italiani alle prese con l’ultima occasione di cambiare il loro destino, Vicenza, Neri Pozza, 1999, pp. 37-41.
33) C. MALANDRINO, Democrazia e federalismo nell’Italia unita, Torino, Claudiana, 2012, pp. 90-99.
34) CAMPI, Schmitt, Freund, Miglio, cit., pp. 133-136.
35) G. MIGLIO, M. DIAMOND, Federalismi falsi e degenerati, Milano, Sperling e Kupfer, 1997, pp. XIII-XV; sul rapporto tra Welfare State e federalismo in Miglio si veda A. BARBERA, G. MIGLIO, Federalismo e secessione, Milano, Mondadori, 1997, pp. 38-90.
36) D.J. ELAZAR, Idee e forme del federalismo, Milano, Edizioni di Comunità, 1995.
37) MIGLIO, DIAMOND, Federalismi falsi e degenerati, cit.
38) L.M. BASSANI, Dalla rivoluzione alla guerra civile. Federalismo e Stato moderno in America 1776-1865, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009.
39) La prospettiva di una evoluzione neo-federalista dell’Unione Europea è accennata da Miglio in BARBERA, MIGLIO, Federalismo e secessione, cit. Si veda anche MALANDRINO, Democrazia e federalismo, cit., p. 92.
40) Ivi, p. 93.
41) Ibidem.
42) P. SCHIERA, Il problema dello Stato e della sua modernità. Gianfranco Miglio dalla storia alla scienza politica, introduzione a G. MIGLIO, Genesi e trasformazione del termine-concetto Stato, Brescia, Morcelliana, 2007, pp. 31-36.