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Card. Giacomo Biffi
Arcivescovo di Bologna
I convincimenti da cui siamo guidati.
Mi pare importante, e anzi ineludibile, chiarire quali siano le persuasioni di fondo che ci sorreggono in questa avventura. Possono apparire alquanto remote: sono in ogni caso preliminari e vengono qui richiamate a esorcizzare ogni malinteso e ogni possibile ambiguità.
1. Fede e ragione
A proposito dei rapporti tra fede e ragione, la mentalità contemporanea è gravemente annebbiata dalla prospettiva illuministica, ancora oggi dominante, che vede i due termini del tutto estranei tra loro, addirittura in conflitto, in ogni caso alternativi. Noi respingiamo questa concezione come arbitraria e ingiustificata. C’è invece tra fede e ragione una interdipendenza, della quale possiamo qui elencare in sintesi alcuni elementi.
a) La ragione è un principio conoscitivo che ha una sua intrinseca validità, indipendentemente dalle condizioni esistenziali del soggetto (credente o non credente che sia) e possiede proprie leggi, universali ed eterne, cui nessuno può derogare. Nessuno può rinunciare a ragionare, e tanto meno il credente.
b) La ragione entra come elemento costitutivo necessario dell’atto di fede e resta come elemento costitutivo necessario dello sviluppo omogeneo dell’atto di fede, che è il pensiero teologico.
c) Poiché l’uomo di fatto è stato pensato e voluto in Cristo dall’eternità, e tutte le cose di fatto esistono entro l’unico disegno salvifico del Padre, la ragione umana vive e opera in un mondo dove il Verbo di Dio, “luce vera”, “illumina ogni uomo”, anche se non ogni uomo “accoglie” questa luce (cf Gv 1, 9.12).
d) Se la ragione positivamente si chiude alla luce del Verbo, si autoriduce in una condizione di insufficienza e di inadeguatezza rispetto alla “realtà totale” di fatto esistente. E anzi può finire coll’ alterare le sue stesse capacità naturali e coll’ approdare a risultati irrazionali, come rileva San Paolo a proposito della grande cultura greco-romana: “Hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti sono diventati stolti” (cf Rm 1, 21-22).
e) Viceversa, nella concretezza esistenziale dell’uomo pensante, la luce della fede soccorre la ragione anche nel suo proprio campo, la purifica e la preserva dalle intemperanze, dalle aberrazioni, dalle “aporìe” alle quali è spesso tentata di abbandonarsi. Come dice un esimio teologo bolognese, contemporaneo e confratello di San Tommaso d’Aquino: “La ragione, condotta per mano dalla fede, si sviluppa così che poi può capire… Il credere apre la strada al capire, perché la fede purifica e monda” (“Ratio manducta per fidem excrescit, ut possit postea intelligere… Credere introducit intelligere, quia fides purificat et mundat”: Bombolonio de’ Mussolini, nel Prologo al suo Commento alle Sentenze).
2. I significati di culturaI discorsi correnti circa la “cultura” – senza escludere quelli
ecclesiastici – mancano quasi sempre di una seria “explicatio terminorum”. Tutti ne parlano, tutti l’apprezzano, tutti la ritengono un “valore”; ma in che cosa consista propriamente questo “valore” raramente si dice. Le definizioni date dagli esperti sono innumerevoli. Ai nostri fini può bastare distinguere tre diversi concetti.
Primo concetto. Alla sua origine, il vocabolo allude al mondo agricolo, ne mutua una immagine e la trasferisce in un contesto antropologico: “cultura” è primariamente “coltivazione dell’uomo”. E, se non è diversamente specificato, si intende riferita all’uomo “interiore”. Già Cicerone e Orazio parlano di una “cultura animi”. Nella classicità greco-romana, da cui l’idea ci è venuta, è implicito che la “coltivazione dell’uomo” avvenga mediante l’assimilazione dei “valori” che sono ritenuti assoluti, quali il “vero”, il “bene”, il “giusto”, il “bello”.
Restando entro la stessa visione delle cose si passò poi a intendere per “cultura” non solo l’azione in se stessa della “coltivazione dell’uomo”, ma anche il suo risultato. La parola prese perciò a indicare il patrimonio spirituale (intellettuale, morale ed estetico) acquisito da una persona; la quale, se il patrimonio è consistente, viene definita “colta”. Con l’esaltazione moderna dell’idea di popolo e di nazione, la parola “cultura” – sempre mantenendosi collegata col significato originario – assume una dimensione “sociale”. La “cultura” di una società è data dai mezzi “sociali” di coltivazione dell’uomo e dai suoi risultati “sociali”: le scuole, i mezzi di comunicazione, gli istituti di ricerca; ma poi anche dalla sua produzione letteraria, artistica, musicale.
Secondo concetto. Un vero e proprio capovolgimento del concetto avviene a partire dalla seconda metà del secolo scorso. L’uomo entra sempre come elemento determinante, ma come soggetto e principio e non più come destinatario e termine dell’azione. Il vocabolo comincia a indicare tutto ciò che, provenendo dall’attività sociale di un gruppo o di un popolo, diventa suo proprio e collettivo possesso. Acquistano allora dignità “culturale” anche le pietre scheggiate dei primitivi, le fiabe e le costumanze dei pigmei, gli attrezzi del vecchio mondo contadino.
Terzo concetto. Nel nostro secolo è andata emergendo una terza e ben diversa accezione. “Cultura” viene a indicare un sistema collettivo di valutazione delle idee, delle realtà, degli accadimenti; e quindi anche un complesso di “modelli” di vita socialmente ricercati o quanto meno socialmente accolti. Ogni “cultura” intesa così comporta dunque una “scala di valori” proposta e accettata entro un raggruppamento umano determinato. E poiché le “scale” vengono liberamente e perfino arbitrariamente stabilite, molte e diverse possono essere le “culture” presenti in una società, ciascuna delle quali è identificabile per i valori che essa ritiene primari. Così, per limitarci alla scena italiana, in questo 900 abbiamo subìto il succedersi e il prevalere via via di una cultura positivistica, di una cultura idealistica, di una cultura marxista, di una cultura radicale, eccetera; tutte molto critiche verso la “cultura” altrui, tutte molto asseverative e indiscutibili nel proporsi come definitive e insuperabili.
3. La cultura cristiana
Esiste – può esistere, deve esistere – una cultura cristiana? Anche negli anni in cui un atteggiamento negativo o almeno perplesso era abbastanza diffuso pur negli ambienti ecclesiali, Paolo VI non ha mai avuto dubbi a rispondere affermativamente. Egli “usa senza velatura alcuna l’espressione ‘ cultura cristiana ‘, anzi ‘ cultura cattolica ‘, aggiungendo sovente che si tratta della ‘ nostra ‘ cultura, distinta dalle altre e idonea a qualificare in modo originale il pensiero e l’azione dei credenti” (E. Giammancheri, in: Paolo VI e la cultura, Brescia, 1983). È facile ravvisare qui uno dei tratti salienti anche del magistero pastorale di Giovanni Paolo II.
Fin dai primi anni di pontificato egli esorta a “non far mancare una forte, seria, operosa presenza culturale cattolica” (Ai Vescovi lombardi, 15 gennaio 1982). Per lui l’elaborazione di un’autentica e vivace cultura cristiana può dirsi addirittura indispensabile alla stessa sopravvivenza della fede nell’umanità contemporanea. In perfetta comunione di pensiero col Successore di Pietro, noi condividiamo questa persuasione e ci vogliamo risolutamente porre sulla strada da lui indicata. A questo punto, però, ci dobbiamo chiedere: dei molti significati correnti di “cultura”, quale va correttamente assunto in questo nostro discorso?
Noi non abbiamo esitazioni a rispondere: tutta la “cultura” (secondo tutte le diverse nozioni che abbiamo individuato) è chiamata a esporsi all’azione fecondatrice della fede, proprio perché il credere – che nella sostanza vuol dire contemplare la realtà con gli occhi di Cristo – è di sua natura uno sguardo totalizzante. E dunque si potrà parlare di cultura cristiana in tutte le possibili accezioni del termine.
a) Quanto alla “coltivazione dell’uomo”, noi sappiamo che questa è prerogativa, prima di tutto, del Padre: “Il Padre mio fa l’agricoltore” (cf Gv 15,1), ha detto Gesù. E perciò solo da chi, tra gli uomini, si fa suo strumento e suo collaboratore questa funzione può essere adeguatamente esercitata. Di più, se siamo stati dall’inizio modellati su Cristo, solo guardando a lui e inseguendo la sua somiglianza si può offrire una formazione integrale che non sia deformata o alienante.
Attendendo a questo compito (oltre che in una visione generale delle cose), non va mai dimenticato che ogni valore autentico – sia esso maturato entro la cristianità o al di fuori dell’influenza del Vangelo – può e deve essere riconosciuto nel suo pregio e nella sua capacità di arricchirci. Anzi, può essere riconosciuto come “nostro”. Perché tutti i valori “sono in se stessi riverberi dell’eterna verità, dell’eterna giustizia, dell’eterna bellezza, che in Cristo ha assunto volto e cuore di uomo, così da poter essere personalmente contemplata e amata” (G. Colombo,Discorso di Sant’Ambrogio, 1978).
“Quanto di assoluto e di perenne è stato prodotto dalla cultura profana nella sue radici profonde è cristiano: tutto infatti – quale che sia la consapevolezza degli autori – o parla implicitamente di Cristo o ne esprime il desiderio inconscio o per assurdo lo invoca, confessando la pena e la vuotezza per la sua assenza” (Ib.).
b) Se poi il termine “cultura” viene a significare ciò che è stato espresso da una porzione concreta di umanità, la cultura cristiana si riconoscerà in tutto ciò che è nato dal popolo di Dio in una vicenda che dura da venti secoli. La sua storia, le sue leggi, le sue costumanze, gli atti della sua pietà, la sua letteratura, la sua arte: tutto sarà oggetto di amorosa attenzione, di esplorazione rispettosa e severa, di intelligente divulgazione.
c) “Quando invece con la parola ‘ cultura ‘ si indica una concezione della realtà che sia criterio e misura delle cose e degli eventi e si arroghi il compito di guida dell’uomo, allora il nostro dovere di credenti diventa quello di affermare senza equivoci l’identità culturale cristiana” (Ib.). Ogni altra cultura, che pretendesse di essere un’interpretazione esauriente e totalitaria dell’universo e della storia, si porrebbe in alternativa con la visione che noi mutuiamo dalla Rivelazione di Cristo e sarebbe con essa incompatibile. La nostra identità culturale ci sorreggerà e ci illuminerà tanto nella ricerca teorica quanto nella elaborazione di proposte operative nei vari campi attinenti l’uomo, il suo destino, il suo lavoro, le sue forme di convivenza: quali, ad esempio, l’antropologia, l’approccio scientifico al reale, l’etica, la dottrina sociale, eccetera.
4. Il “dialogo”
Una volta riaffermata l’identità culturale cristiana e la necessità che essa sia non solo salvaguardata ma anche resa sempre più fertile, attiva, irradiante, la nostra riflessione si imbatte fatalmente nella questione del “dialogo”: il dialogo della cultura cristiana con le altre culture e, sul piano personale, il dialogo del credente con il non credente. Oggi il dialogo è diventato nella cristianità una specie di “mito” indiscutibile. Noi però riteniamo che anch’esso – come tutte le convinzioni e tutti i programmi – debba essere criticamente valutato alla luce della parola di Dio.
a) Un primo fondamentale insegnamento ci è dato dalla prima Lettera ai Corinti. C’è una radicale incomunicabilità tra l’uomo “psichico” (cioè l’uomo lasciato alle sue sole forze conoscitive) e l’uomo “pneumatico” (cioè l’uomo investito dallo splendore e dall’energia trasformante dello Spirito): “Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha detto… L’uomo ‘psichico’ invece non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito” (cf 1 Cor 2, 12-15).
Non ci si può dunque attendere dai non credenti qualche comprensione sostanziale di quelle realtà che più direttamente attingono al cuore del “mistero nascosto dai secoli in Dio” (cf Ef 3, 9); mistero che adesso nell’atto di fede noi conosciamo “con ogni sapienza e intelligenza” (cf Ef 1, 8).
Per esempio, non ci si può aspettare che capiscano qualcosa circa l’incarnazione del Figlio di Dio e la redenzione del mondo attraverso il suo sacrificio; circa la vita intima di Dio come vita trinitaria; circa la Chiesa, sposa del Signore risorto e ‘ corpo ‘, che cammina in questa nostra storia di errori e di peccati senza sviarsi e senza contaminarsi; circa la presenza del ‘ Corpo dato ‘ e del ‘ Sangue sparso ‘ sotto i segni eucaristici; circa il valore del matrimonio indissolubile e della verginità consacrata; circa la positività e anzi la preziosità del dolore. Non per questo dobbiamo sfuggire a ogni contatto e a ogni discorso che non sia tra coloro che sono “illuminati”.
“Altrimenti – per usare l’espressione un po’ umoristica di San Paolo – dovremmo uscire dal mondo” (cf 1 Cor 5, 10). Si può e si deve sempre cercare di dialogare con tutti, nella speranza di imbatterci in qualche parziale concordanza di vedute e in qualche frammentario riconoscimento dei valori cristiani. Se li troveremo, non potremo che rallegrarci.
Ma sarà meglio persuadersi che non potrà essere né troppo facile né troppo frequente la convergenza sia pure parziale tra coloro che negano un disegno divino all’origine dell’universo e coloro che non solo l’affermano ma anche positivamente ne hanno ricevuto una impreveduta e gratuita conoscenza. Le comunità cristiane devono prepararsi ad affrontare le inevitabili tensioni tra le diverse “culture” che di fatto convivono in una società pluralistica.
b) Ma la Rivelazione, secondo la prospettiva cristocentrica che le è propria, ci offre un secondo insegnamento, complementare al primo, in virtù del quale bisogna essere cauti a ritenere che un “non credente” sia assolutamente e totalmente tale, e una cultura non cristiana sia assolutamente e totalmente estranea alla luce del Logos che “illumina ogni uomo” (cf Gv 1, 9). Tre considerazioni a questo proposito sarà bene richiamare. Dall’eternità tutti gli uomini sono stati pensati e voluti in Cristo, esemplati dall’inizio su di lui, finalizzati a lui, posti in radicale connessione con lui. Ogni uomo dunque riproduce in se stesso in qualche modo i lineamenti del Figlio di Dio, prima ancora di partecipare alla sua vita divina. Cristo, dice San Paolo “è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui” (cf Col 1, 7).
Ogni uomo, già in quanto uomo, è perciò un’immagine del Signore; un’immagine appena sbozzata, incompleta, magari deteriorata; ma un’immagine autentica che attende di essere restaurata e rifinita. E a misura che si conosce nella sua verità umana e rispetta la sua natura originaria, egli si apre almeno incoativamente all’ordine della salvezza soprannaturale già col normale sbocciare della sua vita intellettuale. Un secondo elemento – che può rendere possibile qualche forma di dialogo – è dato dal fatto che l’annuncio evangelico ha permeato storicamente e permea di sé ogni cultura, anche quella che con più tenacia si vuol qualificare “profana” o “laica”, cioè dichiaratamente lontana e indipendente da ogni visione cristiana.
Questo è particolarmente incontestabile per chi, appartenendo alla nazione italiana, è fatalmente segnato (gli piaccia o no) dalla sua tradizione, dal suo patrimonio letterario e artistico, dalla sua civiltà. In terzo luogo, non è da sottovalutare la libera azione illuminante che è propria dello Spirito di Dio, effuso sull’umanità dal Risorto che sta alla destra del Padre. È un’azione alla quale noi non possiamo assegnare confini.
Le intelligenze, anche se di solito non arrivano a percepirlo, sono spesso più o meno largamente “pneumatizzate”, quando si pongono sinceramente al servizio della verità. “Omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est”. In conclusione, non c’è alcuna possibilità di dialogo tra la fede e l’incredulità, considerate come atteggiamenti mentali e spirituali totalmente estranei tra loro e tra loro antitetici.
Però ogni uomo e ogni cultura può essere portavoce inconsapevole dello Spirito; può essere, non è detto che sempre lo sia. Si rende quindi necessario un atteggiamento vigile, che sappia accuratamente esaminare e vagliare. Ma tale vigilanza e tale discernimento devono essere esercitate dal credente anche su se stesso e sulla cultura cristiana, perché non è affatto scontato che quanto scaturisce e viene espresso dal nostro mondo sia sempre e soltanto in coerenza con la nostra fede e in sintonia con la nostra esistenza rinnovata. A portare a compimento questa riflessione possiamo richiamare il problema dell’attenzione pastorale verso gli “uomini di cultura”.
A questo proposito merita di essere riferita una pagina del Cardinal Giovanni Colombo. “Sono gli uomini di pensiero e di scienza, esploratori dell’uomo, dell’universo e della storia e sono anche gli uomini innamorati della bellezza: poeti e uomini di lettere, pittori, scultori, architetti, musicisti… Sono i nostri fratelli più inquieti e in fondo più bisognosi. “Noi li stimiamo nelle loro difficili ricerche; noi li rispettiamo quando si dibattono nella nebbia del dubbio, nel groviglio dei miraggi e delle delusioni; noi li attendiamo con fraterna comprensione quando dal fondo dell’umana debolezza ci interpellano, forse senza esprimerlo a parole se non in qualche istante di estrema sincerità. “Essi sono coloro che, secondo la Parola di Gesù, più faticano a conoscere quei “misteri del Regno” che sono invece alla portata degli umili, dei “piccoli”.
“Talvolta al loro sguardo, offuscato da dotti pregiudizi, la verità è tormentosa ed esigente… “Sovente nelle vicissitudini della storia, piegandosi al vincitore del momento, anzi soccorrendolo nel suo trionfo col prestigio del loro nome e della loro adesione, essi hanno dimostrato che una cultura sradicata da Cristo non si regge nella tempesta e contro l’arroganza del potere non riesce a mantenersi inflessibile nella rettitudine. “Proprio per questo, più forte dobbiamo sentire il dovere di offrire loro nel clima di una disinteressata e sincera amicizia la parola e la grazia del Vangelo di Cristo” (Discorso di Sant’Ambrogio, 1978). [….]