«Piantiamola di usare la parola “vivisezione”, non è quello che facciamo». Silvio Garattin, scienziato e ricercatore farmacologico spiega perché «l’uso delle cavie è necessario per il progresso della ricerca». E respinge gli animalisti. «Gridano ma mangiano carne. Protestano tanto ma usano anche le medicine»
di Emanuele Michela
«Vorrei fare subito una precisazione: piantiamola di usare la parola “vivisezione”. Non indica più nulla di ciò che si fa in laboratorio». Non aspetta nemmeno la prima domanda per entrare nel vivo del dialogo Silvio Garattini: 85 anni, dirige il centro di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, e spesso viene dipinto da animalisti e contestatori come un torturatore di animali, per l’uso che fa di cavie nei suoi laboratori.
Per questo spinge subito per mettere le cose in chiaro su un mondo, quello della ricerca scientifica, cui mai come adesso si guarda con emotività e sospetto, e che nelle ultime settimane è stato messo in grossa discussione.
Da una parte c’è la raccolta firme di “Stop Vivisection”, che sulla spinta degli attivisti green porterà a Strasburgo un milione di sottoscrizioni per chiedere al Parlamento Europeo di impedire l’uso di cavie in laboratorio. E dall’altra, ben più seria, c’è la minaccia di una normativa italiana in fase di discussione (è stata approvata la legge delega, si attende il testo finale), che accoglie le già rigide direttive europee in materia di sperimentazione animale e le rende ancora più aspre.
E tra gli scienziati c’è chi è già pronto a volare all’estero per proseguire le proprie ricerche, messe in serio dubbio dalla norma. «Perché l’uso di cavie è una pratica indispensabile per progredire nella medicina. Il problema principale è che non si riesce a parlarne in modo serio e limpido».
A partire proprio dai termini che si usano per indicare questa pratica. Se usiamo la parola “vivisezione” sono il primo a essere inorridito. Letteralmente vuoi dire “sezionare i viventi”, cosa che però non avviene nei laboratori, dove gli animali non vengono affatto aperti in maniera brutale, bensì sono soggetti ad analisi ed esperimenti sempre in sicurezza, nel rispetto di tutte le norme. Il termine giusto sarebbe “sperimentazione animale”: paradossalmente, sarebbe più corretto chiamare “vivisezione” qualsiasi intervento chirurgico facciamo sull’uomo. E non è una precisazione da poco: tempo fa abbiamo fatto un’indagine attraverso l’azienda di sondaggi Boxa. Al quesito “Sei contro la vivisezione?” tutti dicono di sì; se invece si chiede “Sei contro l’impiego degli animali nel progresso della medicina?” le risposte cambiano radicalmente.
Due settimane fa Jeremy Rifkin sul Corriere della Sera attaccava la sperimentazione animale: produce sofferenze inutili e porta a risultati poco rilevanti per l’uomo, scriveva il divulgatore statunitense. Secondo bisogna fare una distinzione importante: vogliamo parlare di questo tema sul piano etico o scientifico? Perché sul piano etico io posso capire le persone che non vogliono che vengano maltrattati gli animali. Però da questi vorrei coerenza: non si dovrebbe mangiare carne, né tanto meno usare farmaci. Ancor di più non si dovrebbe ricorrere a medicinali per i propri cani e gatti, perché tutti i farmaci che si usano per gli animali domestici arrivano dalla sperimentazione fatta dagli uomini, attraverso quelle pratiche che loro stessi contestano.
E se invece parliamo dal punto di vista scientifico? Si è cominciato a dire che usare le cavie è “cattiva scienza” e porta a dati poco interessanti perché gli animali sono troppo diversi dall’uomo. Ma questo non è vero, significa negare i tanti sviluppi della medicina di questi decenni. E dato che non vogliamo eludere il problema di come curare le sofferenze dell’uomo, allora viene subito spontanea la domanda: cosa facciamo in alternativa? E qui si entra nel vago. Computer, cellule, simulazioni…
Anche Rifkin nel suo articolo vi accenna, così come gli animalisti parlano sempre con grande enfasi delle metodolgie alternative. Ma evidentemente non sanno che queste attività le pratichiamo già tutti i giorni in laboratorio, e che in realtà sono complementari al lavoro sugli animali. D’altra parte, c’è un discorso logico: gli animali, dicono gli animalisti, non vanno bene perché somigliano poco all’uomo.
Ma le metodologie alternative si basano sull’uso di poche cellule in coltura, che quindi sono ancora meno simili all’uomo. Chiunque ha un po’ di buonsenso può capire che un gruppo di cellule isolate è troppo più semplice rispetto a un organismo vivente, che invece ha una straordinarietà unica. Come posso sapere se un farmaco diminuisce il dolore per l’uomo guardando semplicemente un gruppo di cellule? Come posso sapere se non provoca, ad esempio, mal di stomaco?
Dove sta quindi il vantaggio di sperimentare sulle cavie? Topi, ratti e tutte le specie animali hanno in comune con l’uomo molte cose: gli stessi organi, la stessa circolazione del sangue, un cervello, un cuore che pompa, il sistema nervoso, quello endocrinologico, un sistema immunitario fatto con le stesse componenti…
Oggi poi con la genomica sappiamo che il sistema genetico è fondamentalmente uguale, si differenzia solo da specie a specie per alcune componenti particolari. La sperimentazione animale va vista non come lo specchio della sperimentazione umana, ma come un modello. D’altronde, è così in ogni attività scientifica: se uno decide di costruire un aeroplano non va diretto in officina ad assemblare i pezzi, ma prima fa dei modellini e li sottopone a delle prove.
Gli animalisti contestano ancora il fatto che vengano sacrificate troppe cavie in proporzione alle poche informazioni utili cui si arriva e ai troppi dati negativi recuperati. Se i dati sono negativi ciò non significa che li buttiamo via. Faccio un esempio: se nel ratto si è scoperto che è difficile ridurre l’arteriosclerosi, allora questo non vuoi dire che il lavoro fatto sul ratto risulta inutile. Il fatto di capire perché lì non avvenga la riduzione di arteriosclerosi ci permette di acquisire conoscenze che poi aiutano a capire le dinamiche di questa malattia nell’uomo. La ricerca scientifica non è come una fabbrica, dove tutto ciò che si produce deve essere immesso sul mercato.
Oltretutto, noi ricercatori siamo i primi a non volere sofferenze per gli animali, per una ragione squisitamente scientifica: incapparvi nei nostri studi aggiungerebbe un tema da studiare, e così non ci dedicheremmo più all’argomento prescelto, bensì a questa sofferenza.
Quando sui giornali si discute di questi temi, manca ogni riflessione: sentiamo parlare di metodi alternativi e subito ci accodiamo dandovi sostegno. Il che crea non pochi problemi, come dimostrano, ad esempio, i cosmetici. Dallo scorso marzo non si possono più testare sugli animali, ma di fatto mancano le alternative e quindi l’inserimento di nuovi prodotti è stato bloccato. È vero, parliamo di cosmesi, che non ha la stessa rilevanza della medicina, però il caso è paradigmatico.
E voi scienziati come state vivendo queste settimane in cui si guarda con continuo sospetto a ciò che si fa nei vostri laboratori? Ci sentiamo penalizzati, perché i mass media sono molto attenti a riportare i pareri degli oppositori, ma non i nostri. Ci sono giornali, penso ad esempio al Corriere della Sera, che pubblicano solo le notizie dei movimenti contro la sperimentazione animale senza degnarsi mai di ascoltare la voce dei ricercatori. Questo fa sì che poi al pubblico arrivi un’immagine distorta di quanto avviene nei laboratori. Oggi con internet tutti credono di poter dire e sapere tutto: la rete è una grande conquista, ma è anche il regno della confusione.
Perché, secondo lei, quando si parla di sperimentazione animale, e più in generale di scienza, prevale sempre l’emotività sulle ragioni? Secondo me c’è una ragione profonda: la formazione scolastica in Italia è di tipo letterario, filosofico e giuridico. La scienza come forma di cultura è esclusa. Non mi risulta che ci sia alcun tipo di scuola in cui la scienza venga messa al pari degli studi di greco antico o latino. Questa è una carenza della nostra cultura, molto pesante perché oggi la scienza è una disciplina che condiziona enormemente la nostra società.
Il fatto che abbiamo scuole simili determina una carenza di comprensione di come opera la scienza, di come procede la ricerca e di quanto abbia a che fare con la vita di tutti i giorni. Basta fare un esperimento molto semplice: se un giornale scrive che Garibaldi è un pittore dell’Ottocento tutti si accorgono subito dell’errore. Se invece in un articolo si confonde il midollo osseo con il midollo spinale nessuno dirà nulla, perché nessuno si accorge della differenza. Questa è la base: è per questo che poi accade che persone intelligenti arrivino a difendere cose come Stamina.
In che senso? Ci troviamo di fronte a un tipo di trattamento di cui non si conosce la vera natura: non ha mai avuto un brevetto, anzi, negli Stati Uniti è stato pure ritirato con l’accusa di plagio. Non vi è neppure un protocollo. Solo da noi può succedere che il Parlamento ordini di sperimentare qualcosa che non è ancora pronto per essere sperimentato, stanzi dei soldi e dica addirittura di farlo «in deroga alle regole vigenti». O addirittura che magistrati ordinino che si facciano terapie prive di efficacia, e che anzi possono essere tossiche. Tutto ciò non ripete altro che il caso Di Bella: non appena ci si dimentica di una “ciarlataneria” si comincia a credere ad una nuova.
Anche quando si parla di sperimentazione animale, non mancano ovviamente illazioni su lobby e gruppi di potere che spingono perché le cose non cambino per non perdere i propri vantaggi. Verità o soltanto sospetti? Guardi, le rispondo senza alcun tipo di problema. Chi è contento se si blocca la sperimentazione animale? L’industria, perché può smettere di portare avanti una pratica che risulta molto costosa. Qui al Mario Negri, ad esempio, il mantenimento degli stabulari (gli ambienti in un laboratorio dove sono ricoverati gli animali, ndr.) è la spesa principale dopo gli stipendi. Quando parlano di lobby di interessi, gli animalisti non capiscono che i primi a essere contenti saremmo noi e le industrie farmaceutiche. Acquistiamo topi che costano anche 200 euro l’uno, perché geneticamente modificati: non ne prendiamo centinaia per il gusto di farli morire, ma solo il numero sufficiente ai nostri esperimenti.
Lei è uno degli scienziati più presi di mira dalle campagne animaliste, talvolta le è stato anche impedito di parlare a convegni. Come vive questa situazione? Ci metto sempre la faccia, molto tranquillamente. Mi inseguono dappertutto, ma non mi faccio troppi problemi. A Sarzana quest’estate c’era il “Festival della mente”, ero stato invitato a parlare dell’invecchiamento cerebrale. Gruppi animalisti e alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle hanno scritto al sindaco dicendo che io, torturatore e assassino, non dovevo neppure entrare in città. Ma ho sufficienti anni per non farmi intimorire.
Questi contestatori rappresentano sempre una minoranza che non ha idee: sono verbalmente aggressivi, ma poi quando si tratta di discutere sono niente. Va però detta una cosa, anche noi scienziati abbiamo le nostre colpe: per molti anni le società scientifiche e molti ricercatori, per paura di essere impopolari, sono stati in silenzio e solo adesso che vengono toccati da questa legge e da queste campagne escono allo scoperto. Il tutto accade con grandi difficoltà da parte loro, perché molte organizzazioni temono di ricevere meno donazioni, o meno sottoscrizioni del 5 per mille.
Raymond Tallis, ricercatore britannico, un anno fa in un articolo parlava di una preoccupante «epidemia di biologismo» che ha contagiato scienza e opinione pubblica: accusava come per molti non ci sarebbero sostanziali differenze tra l’umanità e l’animalità. È d’accordo? Sì, è anche questo un paradosso: si dice che l’uomo è superiore, quindi deve curare gli altri animali e prendersi cura del pianeta, ma al tempo stesso si spinge perché gli animali vengano riconosciuti uguali agli uomini. È un’assurdità, bisogna essere fuori dal mondo per pensare che un cane possa avere gli stessi diritti dell’uomo: che poi tutti gli animali abbiano una loro intelligenza è vero, ma non vi è evoluzione in questo. Un cane di oggi è uguale a un cane di cento anni fa. Mentre l’uomo di oggi è diverso da quello di un secolo fa, basta vedere come vive.