Maggio 2019
Un convegno alla Lumsa mette al centro i nati dalla cosiddetta “surrogacy”, mentre la californiana Jennifer Lahl rimarca: «Va abolita, non regolamentata».
di Raffaella Frullone
«Nascere da madre surrogata. Implicazioni sociali, etiche e psicologiche». Il convegno del 10 aprile scorso a Roma sull’utero in affitto, organizzato dal Dipartimento di Scienze umane dell’Università Lumsa, ha ribaltato la prospettiva dominante sui media è ha messo al centro il bambino, il concepito, desiderato e ottenuto ad ogni costo.
Il titolo ha richiamato alla mia mente la storia di Jessica, una ragazza americana, che nel documentario Breeders (allevatrici) spiega: «Sono un prodotto della cosiddetta maternità surrogata. I miei genitori non potevano concepire, il mio papà è il mio padre biologico mentre mia mamma è la mia madre adottiva, ho trovato la mia madre biologica solo quando avevo 26 anni.
Se è vero che credo che la maternità surrogata possa partire da un moto di compassione, da “prodotto” della surrogata è difficile non essere consapevoli che c’è un cartellino con il prezzo. C’è la consapevolezza di essere stata essenzialmente comprata dalla famiglia con cui sei cresciuta, alla fine sei un prodotto»
Mamme o allevatrici?
Il documentario – disponibile online, in inglese, sulla piattaforma Vimeo – è stato realizzato dal Center for Bioethics and Culture di San Francisco diretto da Jennifer Lahl, che da anni fa informazione su una delle pratiche che il mondo moderno e consumista vorrebbe sdoganare mentre rende le donne schiave e i bambini merci.
Il convegno è stato organizzato da Daniela Bandelli, ricercatrice triestina che sta svolgendo un’indagine su quella che nel mondo accademico prende il nome di Gestational surrogacy in rapporto ai movimenti per i diritti delle donne in quattro Paesi: Stati Uniti, Italia, Irlanda India e Messico.
Proprio nel suo soggiorno negli Usa la Bandelli ha conosciuto Jennifer Lahl, che al convegno romano ha aperto uno squarcio sui rischi sottaciuti dell’utero in affitto. Noi l’abbiamo incontrata e le abbiamo chiesto di aiutarci a capire fino a quale punto i contratti di compravendita di questi bambini vincolino le donne.
«La maggior parte dei contratti – spiega Lahl – regolamenta anche i dettagli come la dieta, l’esercizio fisico, lo stile di vita. Molti “genitori d’intenzione”, ovvero i committenti, chiedono alla donna di seguire un regime alimentare particolare, sia esso vegano, macrobiotico o altro. C’è poi chi chiede di limitare i viaggi, chi arriva a chiedere di non tingersi i capelli, tutti ovviamente chiedono che la madre surrogata si impegni a non creare alcuna relazione con il figlio, come fosse questione di mera volontà. Poi ci sono le richieste relative alla vita sessuale, fino a quelle ben più gravi di aborto se per qualche ragione il concepimento andasse in un modo diverso da quanto pianificato».
Il silenzio dei media
Eppure di questo nessuno parla: all’utero in affitto si associano piuttosto concetti come «amore», «libertà di farsi una famiglia», «autodeterminazione», almeno sui media italiani. Negli Stati Uniti invece? «Purtroppo è la stessa cosa – risponde Lahl – i media non si occupano del nostro lavoro, le poche volte che mi danno uno spazio in televisione mi trovo puntualmente da sola a dover affrontare due, tre, quattro persone che sostengono una posizione opposta alla mia. Tra loro ovviamente c’è sempre una famiglia “meravigliosa e bellissima” che per il solo fatto di esistere dovrebbe dimostrare che l’utero in affitto è una pratica altruistica».
«E’ molto difficile trovare uno spazio adeguato nel sistema mediatico. A Roma ho aperto il mio intervento spiegando che negli Usa nessuno ha voluto raccontare la storia di Brooke Brown, una “mamma surrogata” dell’Idaho che è morta per le complicanze della gravidanza insieme ai gemelli che stava portando in grembo, per conto di una coppia spagnola. Come nessuno ha voluto raccontare la storia di Melissa Cook, una “mamma surrogata” californiana che stava portando in grembo tre gemelli quando i “genitori intenzionali” con cui aveva stipulato il contratto le hanno chiesto di abortire uno dei tre».
«La stessa richiesta è stata fatta a Brittneyrose Torres, un’altra “mamma surrogata” californiana che per essersi rifiutata ha dovuto portare avanti un’estenuante battaglia legale. Ma nessuno ne parla, ed è proprio per questo che abbiamo dato vita al Center for Bioethics and Culture, per raccontare quello che altri non dicono»
L’apertura di Strasburgo
Ricordiamo a Lahl che in Europa la Corte di Strasburgo si è espressa, su richiesta della Corte di Cassazione francese, stabilendo che nei casi di gestazione cosiddetta “per conto terzi” gli Stati devono riconoscere legalmente, in nome dell’interesse del minore, il legame genitore-figlio con la cosiddetta “madre intenzionale”, ovvero la donna indicata come madre legale nei certificati di nascita di altri Paesi.
Una decisione pilatesca: da un lascia intendere che non si avalla la pratica dell’utero in affitto, rimandando all’istituto dell’adozione, dall’altro di fatto si cancella burocraticamente la madre biologica. «Penso sia necessario intervenire prima – dice la ricercatrice americana – il primo e urgente passo da fare è quello di togliere di mezzo il denaro da questa pratica: dobbiamo impedire alle donne di vendere i propri ovuli, perché questo genera un business».
«Non possiamo permettere che una persona possa vendere i propri organi soltanto perché ha bisogno di denaro. Vale lo stesso per le cosiddette madri surrogate: nessuna donna è disponibile a farsi mettere incinta e portare avanti una gravidanza, con tutti i rischi che comporta, solo per altruismo, è chiaro che lo fa per soldi, quindi bisogna partire da qui».
Un problema culturale
Eppure il denaro non è tutto, lo dimostra il caso del Nebraska, di cui si è occupata la stampa nelle ultime settimane, in cui una donna in menopausa ha deciso di diventare “madre surrogata” per conto di suo figlio, ovvero si è fatta impiantare un embrione frutto del seme del figlio e dell’ovulo della sorella del convivente del figlio stesso… «certamente, togliere il denaro è il primo passo ma non è sufficiente – dice sempre la Lahl – ma dobbiamo combattere per l’abolizione di questa pratica: non basta regolamentarla, perché nessuna regolamentazione tutela fino in fondo le donne e i bambini coinvolti».
«Immaginate come potrà crescere la bambina del caso del Nebraska: sua madre è anche sua nonna, suo padre è in realtà suo fratello, quella che lei chiama zia è in realtà sua mamma, ma vivrà con due uomini che verosimilmente chiamerà papà. Inoltre ci sarebbe da dire che questa è stata una gravidanza con un rischio altissimo per la madre e per la bambina stessa: io sono stata un’infermiera, ma chiunque di noi sa che 61 anni non è affatto l’età per portare avanti una gravidanza, mi chiedo come un medico abbia potuto acconsentire».
«La ragione probabilmente sta nel fatto che siamo tutti intrisi di sentimentalismo, che ci fa dire “che bello, possiamo dare un figlio a questi due uomini che non possono averlo, questa è una grande e generosa famiglia”. Credo sia un problema culturale, le persone restano in superficie e vedono soltanto qualcuno che non può avere figli e qualcun altro che può aiutarli a farlo. Io ho deciso di realizzare documentari proprio per aprire gli occhi alle persone che hanno una gigantesca lacuna educativa».
Il Center for Bioethics and Culture ha fatto un enorme lavoro mettendo insieme persone e realtà di provenienza culturale molto diversa: chiediamo a Jennifer Lahl se è una strategia vincente, «Penso sia l’unica strada possibile – risponde. Il modello va in direzione opposta quindi occorre fare rete coinvolgendo le persone che sono consapevoli. Qui in Italia dovete lavorare per fare in modo che l’utero in affitto continui a rimanere illegale e insieme dobbiamo fare in modo che a livello internazionale la mobilitazione arrivi a bandire la pratica dove oggi è legale».