28 agosto 2014
di Massimo Introvigne
Ormai è il presidente degli Stati Uniti più preso in giro dopo Jimmy Carter, quello diventato famoso per avere invitato a un vertice tra israeliani e palestinesi un gruppo di attoniti musulmani ed ebrei a mettersi d’accordo «da buoni cristiani». Quando il 20 gennaio 2014 è sceso in campo per la liberalizzazione delle droghe «leggere» affermando che la marijuana «non fa più male dell’alcol» e che da giovane l’ha fumata anche lui, non c’è comico americano che non abbia risposto con il fin troppo facile sketch del presidente suonato e stordito dagli spinelli. Ma certo che si drogava, hanno pensato tantissimi americani, e il guaio è che le conseguenze si vedono.
Obama, però, non è (solo) materia da comici. Piaccia o no, e ormai non piace quasi a nessuno, è il presidente degli Stati Uniti. È stato perfino rieletto una seconda volta, dopo un quadriennio fallimentare, e nonostante il suo oppositore, il mormone repubblicano Mitt Romney, fosse evidentemente più competente di lui, per una ragione sostanzialmente demografica. Romney ha stravinto tra gli elettori bianchi e di madrelingua inglese, che però ormai non sono più in maggioranza. A Obama è bastato tenere una solida maggioranza fra i neri e stravincere fra gli ispanici, che su tante cose non sono d’accordo con lui, ma sono stati conquistati da una massiccia sanatoria dell’immigrazione clandestina, che negli Stati Uniti è quasi tutta ispanica. In attesa che i repubblicani, che per ora continuano a fare la faccia feroce sugli immigrati, trovino una contromossa efficace, magari un candidato ispanico come il promettente senatore pro-family Marco Rubio, l’America e il mondo pagano le conseguenze dell’obamismo.
Non è sufficiente ripetere che Obama è un dilettante allo sbaraglio. Lo è certamente, da quando dai problemi del consiglio comunale di Chicago, in cui navigava in modo abile e spregiudicato, è passato alle grandi sfide globali, ma tanti presidenti americani non erano precisamente delle cime, e di solito supplisce lo staff. No: l’obamismo è un’ideologia, ed è l’ideologia che fa danno. Obama è il primo presidente sessantottino, esponente di quella che il pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira chiamava «Quarta Rivoluzione», una rivoluzione che non aggredisce solo gli Stati ma la vita, la famiglia e la stessa integrità della persona umana. Bill Clinton, sessantottino nella vita privata, manteneva qualche modesta riserva di buon senso nella vita pubblica. Obama no. Ha elevato a sistema e programma di governo la cultura del 1968, per cui i diritti prevalgono sui doveri. Quando questo accade, però, i diritti umani «impazziscono»: se ne inventano di fittizi, e si dimenticano quelli veri.
È lo spirito del ’68, descritto magistralmente da Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate: «i diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata e priva di criteri. L’esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri». E ancora: «Mentre, per un verso, si rivendicano presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche, per l’altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati». Qui c’è tutto Obama. Al centro della sua ideologia c’è un presunto diritto a «sentirsi bene», inteso in un senso sentimentale e perfino vagamente New Age, che passa per il benessere e l’«amore».
Come tutti i dilettanti, Obama cerca il benessere a breve termine (è la sua politica economica) senza curarsi delle conseguenze a lunga scadenza. E dal Sessantotto ha imparato che si sta bene quando il godimento dei propri diritti non è disturbato da fastidiosi doveri. Quanto all’«amore», e al suo indimenticabile slogan «love is love», «l’amore è sempre amore», si tratta di qualcosa che ciascuno s’inventa sulla base dei propri desideri, svincolato da ogni parametro oggettivo. Ma lo Stato di Obama lo tutela comunque.
Non è vero, come scrivono tanti giornali, che gli Stati Uniti hanno rinunciato al loro ruolo globale. Questo ruolo continua, e anzi si rafforza con la sinergia fra la diplomazia americana e le grandi lobby private cui Obama è legatissimo. Semplicemente, opera per scopi diversi rispetto alle precedenti amministrazioni. Ne ho un ricordo molto vivo, che deriva da un incontro del 2011 con Hillary Clinton, quando lei era segretaria di Stato di Obama e io Rappresentante dell’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) per la lotta al razzismo, alla xenofobia e alla discriminazione religiosa.
La Clinton, vantando un ruolo globale della diplomazia americana da fare invidia a epoche passate, ci spiegò quali erano le priorità al cui servizio operava questa grande macchina diplomatica: i diritti delle donne, con al primo posto quello alla «salute riproduttiva», cioè al libero accesso agli anticoncezionali, alle pillole abortive e all’aborto, e i diritti degli omosessuali, compreso quello al «matrimonio».
Per queste priorità (nel 2014 Obama avrebbe aggiunto la campagna mondiale per liberalizzare le droghe «leggere») le risorse da impegnare sono così massicce che non resta molto per altro. E forse, o senza forse, cause come la libertà religiosa non scaldano precisamente il cuore delle donne e degli uomini dell’amministrazione Obama, che per la religione in genere ha scarsa simpatia. Se le ultime amministrazioni repubblicane sognavano, con errori e ingenuità, di esportare la democrazia, e almeno cercavano di esportare, talora con iniziative meritorie, la libertà religiosa, Obama pensa di potere diffondere nel mondo, con meno fatica, e senza bisogno di mobilitare soldati americani, il «sentirsi bene» e l’«amore» attraverso la propaganda mondiale, che da suadente diventa minacciosa e aggressivamente imperialista per i Paesi che non si adeguano, degli anticoncezionali, dell’aborto, del «matrimonio» omosessuale e ora anche della libertà di assumere droghe «leggere».
Si dice spesso che Obama ha capito poco del mondo islamico, perché ha pensato di sedurlo con la stessa offerta di «benessere» e di «amore», che è lontanissima dalla cultura musulmana. È così, ma c’è anche un’altra faccia della medaglia. Com’è normale che sia, al di là dell’utopia dei nuovi diritti globali, il primo «benessere» che interessa a Obama è quello degli elettori americani che lo votano. Per questo, per quanti innocenti siano massacrati in Iraq, in Somalia, in Nigeria, in Siria, difficilmente vedremo Obama muovere soldati americani, che sono qualcosa di diverso dai droni e il cui dispiegamento sul terreno presuppone la disponibilità a gestire moralmente e politicamente caduti, bare che ritornano negli Stati Uniti su un aereo militare e mamme che piangono.
Perché, per quanto massacri come quelli perpetrati dagli jihadisti in Iraq possano essere a loro volta impopolari, usare la forza e pagare un prezzo per fermarli disturberebbe la vita beata, in altri tempi la si sarebbe definita beota, che Obama indica e promette come ideale ai suoi elettori. Una vita fondata sui diritti senza doveri, sulla soddisfazione dei desideri spacciata per «amore», e su un benessere narcisistico da centro estetico e villaggio vacanze. È questa ideologia che rende Obama, il dilettante globale, insieme un tipico imperialista americano quando si tratta d’imporre ai Paesi che non la vogliono l’agenda abortista e Lgbt e un imbelle globale quando, per salvare vite innocenti, si tratterebbe di combattere.