L’Osservatore Romano 18-19 giugno 2012
Un caso emblematico di come spesso si fa ricerca storica ai tempi della Rete. Ovvero le trappole di Wikipedia
di Roberto Pertici
Collaboratore de “La Difesa della razza” e firmatario del Manifesto in difesa della razza promosso dal regime nel 1938, militò nel dopoguerra nella Dc, divenendo assessore alle Belle arti e alla Pubblica istruzione del Comune di Firenze, guidato da Giorgio La Pira».
Sono rimasto piuttosto perplesso: stranamente non si faceva riferimento al momento culminante della carriera politica di Bargellini, ai due anni, cioè, in cui fu sindaco di Firenze, il «sindaco dell’alluvione» del 1966, come ben rammentano i miei coetanei. Ma era soprattutto l’immagine di un Bargellini antisemita pervicace a non convincermi: il Manifesto razzista comparso sui giornali italiani il 15 luglio 1938 era anonimo e solo al momento della sua presentazione al segretario del Partito nazionale fascista il successivo 25 luglio, furono resi noti i nomi dei dieci “scienziati” fascisti che lo avevano elaborato.
Forse sarebbe più corretto affermare — mi dicevo — che Bargellini abbia in qualche modo manifestato la sua adesione alle tesi di quel documento: ma era poi così sicuro? Ricordavo un passo del libro di Marie-Anne Matard Bonucci su L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei (di cui mi è capitato di curare l’edizione italiana nel 2008 presso il Mulino), nel quale — fra le poche voci di opposizione a quel Manifesto — si ricordava proprio quella dello scrittore fiorentino, che sul «Frontespizio» del luglio 1938 aveva firmato con uno dei suoi pseudonimi (Lupo Cerviero) un articolo ironico intitolato O razza o stirpe o schiatta? che se ne dissociava apertamente. E, se le cose stavano così, la collaborazione alla «Difesa della razza» era proprio certa?
Come spesso succede, sopravvennero altre letture, altri problemi, e la questione per il momento mi uscì di mente. Ve l’ha ricondotta l’intervento che il collega Maurizio Torrini («Rivista di storia della filosofia», 2011, pp. 291-294) ha dedicato proprio al saggio di Torchiani. In mezzo ad altre osservazioni, Torrini esplicita dubbi e perplessità sul preteso antisemitismo di Bargellini, con una serie di argomentazioni che coincidono singolarmente con quelle che avevo fatte fra me e me qualche tempo prima.
Ho allora deciso di vederci chiaro, anche perché considero l’accusa di antisemitismo così infamante che solo a ragion veduta e con solide motivazioni sia lecito rivolgerla contro qualcuno: e poi, per uno studioso di storia, l’onore di un morto, cioè di uno che non può più esporre le proprie ragioni, conta di più di quello di un vivo, che invece ha (o almeno dovrebbe avere) tutti gli strumenti per farlo.
Ci deve pur essere una fonte di queste informazioni (mi sono detto): quale? Con tutta probabilità è quella ormai consueta a tutti, giovani e meno giovani, che vagano per la Rete, cioè Wikipedia, la quale — almeno nell’attuale versione della “voce” dedicata a Bargellini — fornisce informazioni contrastanti (ma credo di ricordare che in passato fosse assai più precisa): «Iscritto al Partito nazionale fascista e collaboratore occasionale del periodico “La difesa della razza”, accolse però spesso e volentieri sulle pagine del “Frontespizio” scritti che criticavano la filosofia del regime, fino all’articolo di Papini Razzia dei razzisti (dicembre 1934), dura reprimenda di ogni discriminazione.
Le ragioni della sua adesione al Manifesto della razza in appoggio all’introduzione delle leggi razziali fasciste sono controverse, soprattutto considerati i toni di accorata protesta riscontrabili nel contemporaneo epistolario con Papini (Roma, 2006) e il coraggioso articolo di dissenso O razza, o stirpe, o schiatta che Bargellini scrisse sempre per il “Frontespizio” (luglio 1938)».
Gli estensori di questa voce si sono chiaramente trovati di fronte a fonti discordanti: mentre ne indicano alcune (adeguatamente citate) che provano l’opposizione di Bargellini al razzismo (fascista e non) degli anni Trenta, continuano però a ripetere che lo scrittore aderì poi al Manifesto del luglio del 1938 e fu collaboratore (sia pure, si aggiunge, occasionalmente) della «Difesa della razza». Di queste ultime informazioni non si presenta però alcuna pezza d’appoggio.
Probabilmente la fonte è la stessa che Wikipedia indica nella voce Leggi razziali fasciste: dopo aver riportato l’elenco dei dieci «scienziati» italiani estensori del Manifesto della razza, aggiunge anche quelli di intellettuali e personalità che «pubblicamente sostennero le leggi razziali»: fra costoro si fa appunto il nome di Bargellini.
Ma questa volta l’«enciclopedia libera» indica anche la fonte principale: il libro del saggista Franco Cuomo I Dieci. Chi erano gli scienziati italiani firmatari del Manifesto della razza (Milano, Baldini, Castaldi Dalai, 2005), che alle pagine 202-207 pubblica un censimento dei razzisti italiani in numero di trecentoventinove.
Quello di Cuomo è un pamphlet assai modesto, che tra l’altro non chiarisce mai se queste personalità avrebbero aggiunto le loro firme a quelle degli autori del Manifesto in qualche pubblica dichiarazione successiva (di cui, infatti, non si forniscono né data né luoghi di pubblicazione) o manifestato nei loro scritti sentimenti anti-ebraici di varia natura (e questo anche prima del 1938) o sostenuto pubblicamente le leggi razziali, che furono promulgate — com’è noto — solo alcuni mesi dopo il Manifesto .
Ma anche Cuomo non ha fatto poi un gran lavoro, avendo ripreso pari pari un elenco già presente in Rete almeno dal 2003 e pubblicato a cura di Aldo Torchiaro nel sito Morashà con tanto di copyright. Le ragioni di Torchiaro sono sacrosante: denunciare il ritorno (sotto varie forme) di atteggiamenti antisemiti nella società europea del nostro tempo. Ma siamo sicuri che approntare liste di proscrizione di questo tipo serva a qualcosa?
Mettere in un fascio Benito Mussolini e il futuro storico comunista Enzo Santarelli, che nel 1938 aveva sedici anni e i cui interventi antisemiti sono semmai dei primi anni Quaranta, Roberto Farinacei e Giovanni Gentile, Galeazzo Ciano e Gabriele De Rosa, che al momento delle leggi razziali era uno studente ventenne, Francesco Casnati e Giovanni Papini con Julius Evola? Senza distinguere età, posizioni, storie personali, culture? Senza curarsi delle ricerche che, specialmente su alcuni di loro, si sono accumulate negli anni?
Soprattutto senza riportare citazioni e prove certe, soprattutto per coloro che non avevano dirette responsabilità politiche o non appartenevano alla ristretta lobby antisemita? Ma torniamo a Piero Bargellini. In alcuni dei suoi scritti degli anni Trenta si possono rinvenire spunti antigiudaici, gli stessi che riecheggiano negli scrittori (talora grandi) di quel cattolicesimo toscano, pugnace e antimoderno, che aveva dato vita con lui a «Frontespizio».
Già allora se ne parlò: in una lunga e polemica recensione al suo libro su Carducci del 1934, il giovane Piero Treves deprecava «che ora debbano cominciare le vies romancées, pure da noi, in Italia, per opera (…) del cattolico e antidemocratico e (direi, a giudicare dalla pagina 164 di questo libro) antisemita Piero Bargellini» («La nuova Italia», 1934, p. 282).
La pagina incriminata faceva parte del capitolo dedicato alla militanza massonica di Carducci. Vi si legge: «Pietro Cremona (ebreo e fratello del pittore Tranquillo) fu fatto venerabile, e il Carducci accettò di fare il segretario [della loggia Felsinea]». Il sottolineare che Cremona fosse «ebreo» oltre che massone riecheggiava una tradizionale accusa (non solo) cattolica di una larga permeabilità delle logge alla presenza ebraica.
Due anni dopo, nel gennaio del 1936, nei mesi della guerra d’Etiopia, il direttore di «Frontespizio» pubblicava un saggio (Schiamazzo in salotto) molto polemico contro gli scrittori della «Nouvelle Revue Française» che avevano attaccato l’Italia per la guerra africana e, di alcuni, tornava a sottolineare l’origine ebraica: «il ricco (come il socialista Blum) e ebreo (come il socialista Blum), André Suarèz» e Julien Benda, «un altro ebreo salonnard ». Concludeva: «La Francia, la prima figlia di Roma, non può confondere la voce del ghetto e del lupanare con la voce del sangue o peggio dello spirito».
Nel momento dello scontro, Bargellini non esitava a ricorrere a una serie di motivi polemici collaudati e diffusi, ma sulla questione di fondo aveva idee piuttosto chiare: «Un altro amico — aveva scritto a don Giuseppe De Luca il 17 marzo 1931 — mi propone una larvata campagna antisemitica [da svilupparsi su “Frontespizio”]. A me la questione della cospirazione mondiale ebreo-massonica m’è sempre stata antipatica, e quasi sudicia mi pare quando scende a questione di banca o di università, ma forse è innegabile una influenza intellettuale e morale».
Su questi problemi l’elemento qualificante del Bargellini degli anni Trenta (come fu rilevato già molti anni fa da studiosi come Giorgio Luti, Luisa Mangoni e Renzo De Felice) è proprio l’impegno di «Frontespizio», a partire dal 1934, nella polemica contro il razzismo (tedesco e non), polemica continua e diversificata negli autori e nei toni: la svolta può essere indicata nell’articoletto Razzismo dell’aprile 1934 di Alcuino (don Giuseppe De Luca): «Asvero Gravelli, direttore di “Antieuropa” (…) ha dedicato un numero intero della sua rivista al Razzismo, la nuova eresia moderna. L’importantissimo numero forma una delle più belle apologie indirette del Cattolicesimo. Infatti soltanto il Cattolicesimo ha saputo opporre alla delirante infatuazione razzista la sua luminosa e chiarissima dottrina non defettibile.
Connessa all’eresia del Razzismo è la teoria pseudo-scientifica dell’eugenetica e il sopruso morale della sterilizzazione preventiva. Anche qui la Chiesa, stupidamente accusata di conculcare i diritti dell’Uomo e di soffocarne la libertà, si è dimostrata di esser la vera tutrice della dignità umana e la custode delle vere libertà morali». Sul tema intervennero poi il germanista della rivista, Rodolfo Paoli, con l’intervento del maggio 1934 Il Cardinale e i Germani, sulle celebri omelie del cardinale Faulhaber su Giudaismo, Cristianesimo, germanesimo e poi, anno dopo anno, Bargellini, Papini, ancora don Giuseppe De Luca, Guido Manacorda e altri.
Si tratta — come si vede — per lo più di cattolici «antimoderni», quelli che nelle storie della rivista sono guardati con maggior sospetto. Certo la loro polemica aveva un taglio particolare: per loro l’antisemitismo era sostanzialmente una species del “razzismo”, come restava ricorrente la polemica anti-protestante (il luteranesimo sarebbe il loro terreno di coltura) e l’insistenza sul carattere universalistico della romanità in contrapposizione al mito ariano della razza.
In coincidenza con questi aspri attacchi al nazismo tedesco e alla sua teoria razzista, si ribadiva il proprio allineamento col regime fascista, ma sottolineando continuamente le differenze fra il fascismo italiano e il razzismo nazionalsocialista.
Sugli ebrei restavano antiche ritorsioni polemiche (paradossalmente — si ripeteva — i tedeschi ora si autoproclamano “popolo eletto” come avevano fatto per millenni gli israeliti), ma ormai si insiste più spesso sull’appartenenza di Gesù al popolo ebraico e quindi sulla continuità con la tradizione veterotestamentaria: la vera rivoluzione — scriveva “Il Vetturale” (Bargellini) nel giugno 1933 — era quella «operata proprio millenovecento anni fa da un Ebreo crocifisso».
«E allora dove mai riposa o scorre il puro sangue ariano in nome del quale codesti frenetici vociatori perseguitano gli Ebrei e decretano l’incurabile decadenza del “caos etnico” dei popoli neo-latini?», si chiedeva Papini nel dicembre 1934, dopo aver dimostrato l’inconsistenza dei miti razzistici.
Legittimamente, dunque, nello scritto del luglio 1938 sul Manifesto della razza, Bargellini poteva vantare una continuità di impegno contro il razzismo («Si ricorderà le nostre polemiche sul razzismo»). Ne scriveva a Papini il 20 di quel mese: «A Pescara lessi costernato il comunicato sul razzismo. A Roma ho trovato però tutto calmo; nessuno dà soverchia importanza a quel documento. Ciononostante, per non sembrare davvero troppo assenti e supinamente consenzienti ho fatto una colonnina molto blanda e bonaria».
Bargellini cercava di non allarmare Papini, che nello stesso fascicolo di luglio deprecava un eccessivo impegno politico dei cattolici italiani, con un articolo che avrebbe suscitato un vespaio. Il suo era in effetti un articolo pieno di ironia piuttosto che di sdegno: ma in Italia non esisteva la libertà di stampa (molti oggi sembrano dimenticarsene) e, se uno proprio voleva dire qualcosa di “scomodo”, poteva dirlo solo in via obliqua e indiretta.
Quando il fascicolo di luglio entrò nelle librerie e giunse agli abbonati (alla fine del mese), la segreteria del Pnf aveva ormai fatte proprie le posizioni dei dieci «scienziati» razzisti. Ma delle riflessioni di Bargellini sul problema ebraico resta da sottolineare anche un altro aspetto: la percezione dell’insostenibilità, nell’Europa degli anni Trenta, del vecchio antigiudaismo teologico, della consueta accusa di «deicidio».
In ciò si distingueva anche da Papini. Quando questi gli inviò (28 agosto 1935) il suo articolo La leggenda del Gran Rabbino (uno di quelli che più ha contribuito alla sua postuma fama di scrittore antigiudaico), Bargellini si fece coraggio e gli suggerì una serie di tagli sostanziali: «L’articolo è bello, in qualche punto (come nella scena della conversione, e nell’accenno alla settimana di passione) è potente. Un solo paragrafo mi lascia sconcertato e dubbioso. Non prenda la mia riserva in malaparte (…). A pag. 8 la confessione del deicidio cosciente, potrebbe sembrare crudele. L’assunto dell’articolo, se non sbaglio, è questo: l’amore per Cristo farà degni gli ebrei d’appartenere alla Chiesa. Allora quelle trenta righe mi pare che gravino troppo sugli ebrei e portino fuori strada. Non sono il suo correttore, ma poiché mi chiede il mio parere, mi permetto di consigliarle un taglio (…). Non so se convenga dare un’interpretazione nuova (e dura per gli ebrei) alle parole di Cristo sulla croce. Inoltre “l’adunanza notturna del Sinedrio” potrebbe sapere dei “Protocolli dei Sette Savi di Sion”. Faccia il conto che crede delle mie parole. Son parole di chi le vuol bene, e che vorrebbe tener lontana da lei l’accusa di uomo senza carità. Dare nel dialogo più parte all’amore e alla carità, sarebbe, secondo me, bene, e significherebbe renderlo più caldo e più alto».
Per la cronaca: Papini accettò i tagli suggeriti. E la collaborazione, sia pure «occasionale», di Bargellini alla «Difesa della razza» di cui ancora parla Wikipedia? È un’altra “bufala”, ovviamente. Ho fatto lo spoglio dell’intera collezione della rivista (che fu pubblicata dal 5 agosto 1938 al 20 giugno 1943) nell’ospitale biblioteca del Centro di documentazione ebraica di Milano e non ho trovato un solo articolo di Bargellini, ma nemmeno di Indro Montanelli, Giovanni Spadolini e Amintore Fanfani, che invece la voce La difesa della razza della stessa «libera enciclopedia» assicura essere stati fra i suoi collaboratori: la fonte stavolta sarebbe (il condizionale è d’obbligo) il libro polemico del neo-fascista Nino Tripodi Intellettuali sotto due bandiere.
Come si vede, siamo di fronte a un fenomeno analogo a quello descritto da Marc Bloch nel suo celebre saggio sulle «false notizie» di guerra, con questo di nuovo: che ai nostri tempi il processo viene moltiplicato e amplificato oltre ogni dire da internet. Sulla base di fonti inaffidabili si fanno affermazioni infondate, che poi si diffondono nella Rete coperte dall’anonimato fino a diventare a poco a poco verità largamente condivise. Così entrano nelle tesine degli esami di maturità, in qualche tesi di laurea triennale, vengono rimbalzate dai giornali e finiscono anche sulle riviste scientifiche.
Ma spesso non si tratta di puri errori di fatto: Wikipedia contribuisce a formare il mainstream dominante, ma in qualche modo (per il modo stesso in cui è elaborata) lo riflette. Per cui gli utenti (anche quelli “colti”) considerano le sue non-verità come fatti acclarati semplicemente perché esse riflettono e confermano i loro pregiudizi.