Avvenire venerdì 29 gennaio 2021
Amanuensi, copisti e poeti, ma anche agricoltori, speziali, idraulici, ingegneri: un volume a cura di Cantarella spiega perché i pilastri dell’Europa sono i benedettini
Franco Cardini
La storia del monachesimo è immensa: al punto che nemmeno sappiamo come e da dove farla cominciare. Se cerchiamo nel mondo ebraico alla caccia di presupposti al monachesimo cristiano, abbiamo voglia di parlare di Nag Hammadi e di “rotoli del Mar Morto”: non basta. Bisogna aver il coraggio di risalire la Nubia e d’inoltrarci in Siria: la via nubiana ci condurrà in Etiopia, che un tempo si chiamava India minor; e da lì all’India, e quindi magari alla Cina; la via siriana ci condurrà in Persia, e quindi ancora una volta in India.
Eppure, nei confronti del monachesimo – del nostro monachesimo euro-occidentale – noi europei moderni siamo singolarmente ottusi e ingrati. In parte dipende dalla polemica antimonastica della Cristianità riformata, ch’è senza dubbio uno degli elementi fondatori della Modernità: Lutero, che voleva scusarsi di essere stato agostiniano, non perdeva occasione per parlarne male; per Calvino, seguito dal Voltaire, i monaci erano dei ghiottoni ipocriti, ignoranti, poco puliti e fanatici.
Quando poi si tratta al contrario di elogiarli (e non si può fare a meno di farlo) allora si ricorre a Cassiodoro e a Benedetto, sentiti sempre come avversari dell’imbarbarimento dell’impero romano dal quale poi sarebbe uscito il “buio” medioevo appunto popolato da monaci fanatici odiatori del mondo.
E siamo così incoerenti e superficiali, nelle nostre critiche, da non accorgerci nemmeno che i pochissimi elementi positivi che riscontriamo nella cultura monastica medievale (a parte l’arte: che architettura romanica e musica liturgica fossero belle siamo tutti d’accordo) sono in realtà delle spie di un mondo geniale nelle sue realizzazioni.
Potete anche non aver mai letto una riga dei Padri della Chiesa, in gran parte fra VI e XII secolo espressioni di quel mondo: ma che gran parte delle centinaia di tipi diversi di formaggio, di birra e di liquore che si producono nella sola Francia siano stati selezionati nelle abbazie benedettine dovreste pur saperlo: e del resto le parole son lì a far la spia.
Non vi dicono nulla il Certosino e la Chartreuse? E se non ci fossero state grandi comunità monastiche come Nonantola da sfamare nella pianura padana, credete che sarebbero nate quelle splendide immense ruote del parmigiano reggiano? I meno ignoranti fra noi riconoscono comunque, almeno, che alla base della rinascita europea ci sono tre elementi, nel Duecento: la città con la sua cattedrale, l’Università e il dinamismo degli Ordini mendicanti, i quali ultimi (si aggiunge trionfalmente) reagirono allo sterile ascetismo dei monaci che fuggivano dal mondo.
Altro errore: nulla di questi tre elementi sarebbe stato così vitale, se non si fosse fondato e sostenuto sulle precedenti e coeve istituzioni monastiche. Sono le abbazie, e le abbazie benedettine, che hanno tessuto la costruzione europea tra VI e X secolo e che, da allora, hanno presieduto alla sua splendida fioritura.
Parola di Glauco Maria Cantarella, Università di Bologna, uno dei nostri medievisti più geniali. È alla sua cura che si deve oggi un volume a più mani, I castelli della preghiera. Il monachesimo nel pieno Medioevo (secoli X-XII) (Carocci, pagine 272, euro 26,00), che molti di voi troveranno – ne sono certo, sorprendente. Se non sconvolgente. Cantarella, che è un grande specialista degli Ordini monastici, ha raccolto attorno a questo libro sei dei migliori specialisti delle generazione dei grosso modo quaranta-cinquantenni ai quali ha proposto lo studio analitico delle “congregazioni” sorte dal tronco dell’Ordine benedettino: che mantennero la regola del Padre, san Benedetto, ma introdussero accanto ad essa ciascuna un certo numero di “consuetudini” diverse.
Accanto quindi ai due modelli di benedettinismo classico – Montecassino e Cluny -, che l’esperienza carolingia aveva irrobustito, ecco sorgere i camaldolesi di san Romualdo e gli avellaniti di san Pier Damiani, che seppero far tesoro anche di parte delle esperienze monastiche orientali vive nel vicino mondo adriatico, e poi i vallombrosani, i cistercensi, i certosini.
Ed ecco le storie incredibili di questi abati che furono spesso dei politici e degli organizzatori, di questi monaci che seppero essere amanuensi, copisti e poeti, ma anche agricoltori, speziali, idraulici, ingegneri edili, perfino costruttori di mulini, di fucine, di forni, di gualchiere. Gente il cui modo di “fuggire il mondo” consisteva nell’aggredirlo e nel sottometterlo. Questa grande storia è narrata in sette ampi, lucidi, densi capitoli.
Glauco Maria Cantarella si è preso Cluny, la madre di un impero monastico, con la sua vita raffinata e la sua grandiosa liturgia; Enrico Veneziani ha studiato Montecassino con al sua storia dinamica e sovente drammatica; Umberto Longo si è occupato di camaldolesi e avellaniti; Nicolangelo d’Acunto di camaldolesi e vallombrosani (la ‘triangolazione’ Camaldoli-Fonte Avellana-Vallombrosa è stata così audacemente risolta); Guido Cariboni si è assunto la gatta da pelare dei cistercensi, lavoratori e costruttori abilissimi, disboscatori e bonificatori instancabili, filosofi e mistici d’impietoso rigore; Francesco Renzi ha affontato il tema affascinante e spinoso dei rapporti tra i cistercensi e i laici, con il corollario dei “conversi”; Giorgio Milanesi ha affornatto il problema artistico.costruttivo, il che significa anche estetico e teologico.
Non per caso il libro si chiude sull’appassionante polemica tra Cluny e Citeaux, quindi tra il cistercense Bernardo nemico di ogni lusso e di qualsiasi ornamento e il principesco, opulento cluniacense Sugero, abate dell’abbazia ragia di Saint-Denis presso Parigi, santuario di un cristianesimo rutilante d’oro e di gemme.
Il duello tra Bernardo e Sugero è un duello sulla luce: quella pura e incorrotta del sole che passa attraverso il puro vetro incolore delle grandi finestre e quella sfolgorante delle vetrate che inondano la basilica di rosso rubino e d’azzurro zaffiro. Discutono di Bellezza, i due abati: e facendo filosofia, facendo teologia, creano Bellezza. Siamo nel XII secolo. Questi, amici, sono i pilastri incrollabili della nostra Europa cristiana.