Perché la legge naturale non è monopolio dei cattolici. Risposta a Craveri e Teodori
Alfredo Mantovano
Al filone culturale e politico che Craveri e Teodori criticano come pericoloso e illiberale si attribuisce, in particolare, l’inserimento, in regime monopolistico, dei principi cardine del diritto naturale nel recinto del cattolicesimo. Dissento radicalmente da questa valutazione e invito a trovare, in chi si ritrova in una prospettiva ideale conservatrice e/o tradizionalista, posizioni di questo tipo; posizioni, cioè, che fanno coincidere solo col sorgere del cristianesimo l’avvio della riflessione sul diritto naturale. Craveri e Teodori criticano questa coincidenza come erronea, e su questo costruiscono una serie di considerazioni e di conclusioni. Peccato che nessuno, nel filone di pensiero da loro criticato, l’abbia mai sostenuta.
Sorprenderà constatare che perfino nel Catechismo della Chiesa cattolica per esplicitare la nozione di legge naturale viene ripreso Cicerone, che certamente non appartiene all’area del “monopolio del pensiero cattolico”. Questo “laico” pre-cristiano afferma che “[…] esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano al dovere, i suoi divieti trattengono dall’errore. […] E’ un delitto sostituirla con una legge contraria; è proibito non praticarne una sola disposizione; nessuno poi può abrogarla completamente” (Cicerone, De re publica, 3, 22, 33).
Questa descrizione del diritto naturale fa emergere un limite serio del liberalismo: la tendenza a considerare l’individuo come un essere immacolato; non era questo l’intento di Cicerone, se non altro per ragioni di collocazione storico-temporale, ma il limite si evince con chiarezza da tanti classici dell’antichità che pure non hanno avuto la fortuna di studiare Kelsen. Il quesito a cui non rispondono i fautori della neutralità dello Stato – per la verità, inesistente in natura – è il seguente: l’individuo, lasciato libero, tende al bene spontaneamente?
Gli individui, riuniti in gruppi e in società, tendono spontaneamente al bene comune? Se gli epigoni di Kelesen restano nella sostanza muti, può venire in soccorso un altro “laico” della tradizione pre-cristiana: “Video meliora proboque, deteriora sequor”: (Ovidio, Le Metamorfosi, VII, 20). Perché l’uomo tende al male? Perché deve compiere uno sforzo non da poco per capire cos’è il bene, e uno sforzo doppio per attuarlo? Né il liberalismo, né la democrazia, più o meno innervata da principi, sono in grado di spiegarlo in modo esauriente.
L’uomo ha tuttavia la capacità di dirigersi verso il bene. Il senso morale originale permette all’uomo di discernere, per mezzo della ragione, che cosa è bene e che cosa è male: la legge naturale mostra all’uomo la via da seguire per compiere il bene e per raggiungere il proprio fine. La legge naturale indica le norme prime ed essenziali che regolano la vita morale. Che cosa significa “naturale”? Il termine non è in relazione alla natura degli esseri irrazionali, ma al fatto che la ragione che riconosce questa legge è propria della natura umana.
La legge naturale, presente nel cuore di ogni uomo, universale nei suoi precetti, esprime la dignità di quella “persona” di cui hanno parlato e scritto tanti Pontefici, fino a Benedetto XVI: che costoro siano intervenuti sul tema pone in pericolo la bontà di ogni loro argomentazione? E’ ovvio che l’applicazione della legge naturale richieda degli adattamenti; e tuttavia, nella diversità delle culture, essa resta a regolare gli uomini tra loro e suggerisce principi comuni, al di là delle differenze.
E’ significativo che risorga sempre nella vita degli individui e delle società (come insegna Heinrich Rommen in un bel libro di qualche decennio fa, L’eterno ritorno del diritto naturale): lungi dal rinviare a un “monopolio cattolico”, essa consente invece di trovare un terreno comune fra laici e credenti, senza che ciò appaia un riflesso di confessionalismo.
Problema: i precetti del diritto naturale non sono percepiti da tutti con chiarezza e immediatezza. L’uomo, nella sua concreta esistenza, non ce la fa a conoscere i precetti del diritto naturale senza difficoltà, con la certezza necessaria e senza mescolanza di errore. Può riuscirci qualche pensatore. Ma gli altri? i “poveri” (in senso evangelico, e non classista)? i “piccoli”? i gruppi? le società?
E quand’anche si riuscisse a cogliere i precetti del diritto naturale, permane sempre la difficoltà registrata da Ovidio: vedo ciò che è migliore, lo approvo, ma seguo ciò che è peggiore. Né il liberalismo (più o meno “virtuoso”), né la democrazia (più o meno “virtuosa”) ci forniscono gli strumenti per affrontare il problema. Già riesce arduo identificare un fondamento condiviso della legge naturale: se esso vada orientato verso l’oggettività dell’essere, ovvero debba fondato sulla ragione, e quindi avvicinarsi all’impostazione giusnaturalista; ancora più complicato è individuare un terreno comune di enucleazione dei singoli diritti, da qualificare pre-esistenti alla loro formalizzazione positiva, e quindi “naturali”.
Alcuni “laici”, persone rette, dotate di quella ragione di cui parla Cicerone, avvertono che manca qualcosa, e soprattutto qualcuno, e per questo si rivolgono alla nostra tradizione.
Von Hayek (che spero non venga iscritto pure lui nelle schiere del “monopolio cattolico”) nel 1960 scriveva che «il liberale può avere imparato molto, con beneficio, dall’opera di alcuni pensatori conservatori […] [dal momento che,] per quanto reazionari siano stati in politica, uomini come Coleridge, Bonald, De Maistre, o Donoso Cortés, dimostrano una comprensione del significato di istituzioni sorte spontaneamente (come la lingua, il diritto, la morale e i costumi), che anticipò le moderne impostazioni scientifiche, e da cui i liberali possono aver imparato” (Friedrich August von Hayek, La società libera, trad. it., Formello (Roma) 1999, p. 490).
Von Hayek però lancia una sfida. Perché aggiunge che «l’ammirazione dei conservatori per il libero sviluppo generalmente riguarda solo il passato» (id); vi è “la loro mancanza di coraggio nell’accettare un cambiamento imprevisto da cui potranno emergere nuovi strumenti per le imprese umane” (id.). Non c’è difficoltà ad ammettere che questo coraggio può essere mancato in passato a taluni “conservatori”. Oggi va raccolta la provocazione del filosofo austriaco, e usare il coraggio. Purché sia chiaro un presupposto: come insegna Nicolàs Gómez Dávila, “una tradizione non è un catalogo presupposto di virtù che si confronta con un catalogo di errori, ma (è) uno stile nel risolvere problemi. (…) La tradizione non è soluzione pietrificata, ma metodo flessibile”.
La tradizione non è un unguento, di cui va fatto un “uso esterno”. Oggi ciascuno di noi può beneficiare della tradizione proprio perché nei secoli i nostri padri non l’hanno vissuta come un mero rifugio, come una chiesa ridotta a museo, da visitare con il naso in su e la bocca semiaperta, senza indossarla e incarnarla. Il coraggio oggi sta nel convincerci che se ci si apre, come politici, come governanti, come legislatori, a un senso di tradizione così inteso, non saremo causa di danno per i nostri compatrioti, non li priveremo delle loro libertà, non saremo complici di una indebita ingerenza della sfera religiosa nella vita politica; ma al contrario, faremo insieme dei passi in avanti proprio nella direzione delle autentiche libertà.