Viaggio nel più impermeabile baluardo del comunismo, dove tra carestie e velleità nucleari l’unica speranza per il futuro è abbattere il muro invisibile che separa Nord e Sud Corea
di Piergiorgio Pescali
Munyol, quando può, si reca sulla linea di demarcazione a guardare oltre. Sa che lì, da qualche parte, suo padre sta vivendo o ha vissuto la propria vita in nome di un’ideologia che oggi fatica a sopravvivere. «Chissà se si è mai pentito della sua scelta, se avrebbe mai voluto tornare al Sud per ricongiungersi a noi», chiede assorto lo scrittore. A Wonsan, sulla costa orientale della Corea del Nord, Kyung Mi tenta di dare una risposta: «Penso che se avesse potuto sarebbe fuggito. Molto più probabilmente, però, sarà stato mandato in un campo di rieducazione.
Era lì che molti sudcoreani venivano confinati. Il governo non nutriva alcuna fiducia in chi era cresciuto nel mondo capitalista». Kyung Mi fa parte di quel minuscolo drappello di cittadini nordcoreani che, approfittando dei rapporti regolari con stranieri concessi dal proprio lavoro, sfida ogni censura e spedisce dettagliati rapporti sulla situazione della nazione
«È molto pericoloso, ma è l’unico modo per dire al mondo cosa significa vivere in Corea del Nord», aggiunge mentre ci facciamo strada verso il porto, giusto in tempo per vedere attraccare la Mangyonbong-92, la nave che saltuariamente fa la spola con Niigata, in Giappone. Nella sua stiva vengono ammassati beni di ogni genere, dagli alimentari ai macchinari, dai computer ai televisori Lcd. Tutta merce inviata dal Chongryun, la potente organizzazione che raggruppa 200 mila coreani che, pur risiedendo in Giappone dove furono deportati durante la colonizzazione della loro penisola, continuano a mantenere passaporto nordcoreano.
Dall’imbarcazione scendono anche diverse scolaresche di giapponesi: allegri e ciancianti, si distinguono immediatamente dai loro coetanei nordcoreani, più seri e taciturni. «Faremo un tour della Corea, ci daranno lezioni di taekwondo e di coreano», confida Shin, un ragazzo quindicenne di Yokohama, alla sua prima esperienza nel paese dei suoi nonni. L’eccitazione di Shin viene immediatamente smorzata da Jung Hee, il veterano del gruppo, terza volta in Nord Corea: «Finché si tratta di fermarmi una settimana va bene, ma non vorrei vivere qui. Mi annoierei.
Hai mai visto quello che qui chiamano “department store”? Il negozietto di fronte a casa mia è più fornito. Non c’è alcuno svago per chi vuole divertirsi. Tutta la giornata è imperniata sull’idea che bisogna lavorare per il paese e il Partito». Shin e Jung Hee rappresentano l’evoluzione generazionale di chi, dopo un primo amore con la Corea del Nord e tutto ciò che di alternativo essa rappresenta, ne percepisce il parziale fallimento giungendo alla disillusione. Forse è la stessa strada percorsa dal padre di Yi Munyol.
Procedendo verso Pyongyang incontriamo una cooperativa agricola. Il raccolto di grano è fermo nei piazzali: «Non abbiamo modo di trasportarlo nei silos e nelle altre province», spiega il direttore, Youn Chin Ho mostrando il parco macchine della cooperativa. Trattori e camion sono stati donati da organizzazioni non governative straniere, ma la mancanza di pezzi di ricambio e di carburante costringe la maggior parte dei mezzi a soste forzate. Così, i diversi negozi statali che si riescono a visitare, hanno mensole desolatamente vuote.
Le tessere annonarie, che dovrebbero garantire il sostentamento famigliare, rimangono nei cassetti e i nordcoreani preferiscono rifornirsi nei jangmadang, i mercatini privati che si tengono ogni dieci giorni in vari distretti. Qui si vende di tutto, ma a prezzi fino a cinque-sei volte superiori a quelli governativi
Secondo Marcus Noland, professore al Peterson Institute for International Economics e autore del libro Famine in North Korea: Markets, Aids and Reform, «il 37 per cento della popolazione sopravvive grazie agli aiuti internazionali e almeno metà del cibo consumato internamente proviene dai mercati privati organizzati dai contadini». Il “problema alimentare” (ufficialmente non si parla mai di carestia) si ripete oramai periodicamente. Per capire la drammaticità della situazione basta visitare un orfanotrofio di Pyongyang, che ospita bambini lasciati in custodia dai genitori, impossibilitati a sfamarli.
La responsabilità di questo disastro umanitario si divide tra la cattiva gestione delle risorse all’interno del governo e la decisione delle diplomazie occidentali di considerare la Corea del Nord un paese canaglia. L’embargo imposto dagli Stati Uniti e avvallato dalle Nazioni Unite ha inferto un duro colpo alla già stremata agricoltura nordcoreana. Con uno won (la moneta locale) improponibile al di fuori dei propri confini, l’unica arma di scambio a disposizione di Pyongyang rimane quindi il nucleare.
Diversi analisti non considerano mai concretamente le minacce del governo nordcoreano di un’eventuale attacco militare al Sud e al Giappone. Kim Jong Il sa benissimo che il suo è un esercito di latta, che verrebbe spazzato al primo colpo dalle forze armate supertecnologiche nipponiche e sudcoreane. In nessuna città nordcoreana si respira aria di guerra: nessuna manifestazione di protesta contro i “nemici” del paese, nessun accenno di panico.
Piuttosto il programma nucleare è l’arma di negoziazione con l’esterno e di stabilizzazione interna. L’ambizioso programma di Kim Jong Il, di trasformare il Nord Corea in un «paese forte e prospero» entro il 2012 (centesimo anniversario della nascita di Kim Il Sung), ha bisogno di appoggi esterni e di enormi capitali.
«Kim Jong Il non è il pazzo maniacale che viene descritto nei media occidentali» secondo Garet Evans, copresidente della Commissione sulla non proliferazione nucleare e disarmo australiana, che rileva come il Caro Leader (così viene chiamato Kim Jong Il) sia colui che in fondo «ha aperto la Corea del Nord all’esterno, ha implementato le prime riforme economiche, ha accettato di incontrare la controparte sudcoreana. Ma per continuare la politica di apertura osteggiata dai militari, Kim Jong Il ha bisogno di mostrarsi forte».
I cattolici in città
Un importante segnale di tolleranza viene dalla chiesa cattolica di Changchung, in pieno centro della capitale, dove la Messa domenicale è seguita da un centinaio di persone e dallo scorso novembre il francescano padre Paul Kim Kwonsoon vive a Pyongyang, dove gestisce un centro sociale. Nel 2000 il governo nordcoreano aveva addirittura invitato papa Giovanni Paolo II a visitare il paese.
Provato dalla recente malattia, Kim Jong Il ha voluto garantire la continuità del suo operato nominando il suo terzogenito Kim Jong-un come successore. La giovane età di Jong-un, classe 1983, e la formazione presso l’International School di Berna, in Svizzera, indicano già l’indirizzo che prenderà la nazione dopo la morte del Caro Leader.
Un assaggio di ciò che potrebbe essere la Corea del Nord tra qualche lustro si può assaporare nella bella città storica di Kaesong, a pochi chilometri dal trentottesimo parallelo. È qui infatti che sorge il complesso industriale aperto nel 2004, dove 106 ditte sudcoreane impiegano 39 mila operai del nord. Do Eun Ae è impiegata alla Hyunday Asan dopo essere stata trasferita da Nampo, dove vive ancora la sua famiglia: «Qui riesco a guadagnare 60 dollari al mese, il doppio di quanto venivo pagata a Nampo. Gran parte del mio stipendio lo invio a casa».
Aziende del Sud, operai del Nord
Kim Hyo, invece, è un operaio: «Dopo le riforme del 2002 lo stipendio era sempre più proporzionato alla redditività, ma la continua mancanza di energia elettrica ci impediva di produrre secondo le nostre possibilità. Qui abbiamo energia elettrica 24 ore al giorno e riesco a guadagnare anche 80 dollari al mese».
Il direttore del complesso di Kaesong, Kim Young-tak, si dice soddisfatto della preparazione culturale e tecnica degli operai nordcoreani: «La cooperazione tra le due Coree non può che portare risultati positivi per entrambe i popoli: i coreani del nord guadagnano di più e lavorano con più serenità, le ditte del sud hanno a disposizione una manodopera a costi contenuti e, cosa importante, nessuna barriera linguistica».
A pochi minuti d’auto da Kaesong si incontra un altro esempio di convivenza tra Nord e Sud: Kumgangsan. Questa regione idilliaca e ricca di mitologia, è sempre stata off limits per i sudcoreani fino a quando, nel 1998, Kim Jong Il decise di aprirla al turismo. Qui Mok Tae-hyun, un importante dirigente d’azienda di Seoul, spiega volentieri i rapporti tra Nord e Sud nella hall del lussuoso albergo dove alloggia a 300 dollari al giorno: «La federazione intercoreana, in cui i due paesi mantengono governi separati, ma con un confine economico osmotico, è l’unica soluzione possibile per un’unificazione a lungo termine della penisola. La Corea del Nord ha sempre suscitato un fascino particolare su di me. Un giorno spero di poter vedere anche il resto del paese».
La mattina seguente ci accomiatiamo per ripartire alla volta di Pyongyang a prendere il treno per Pechino. Tae-hyun con moglie e figli, invece, torneranno al Sud. Tutto intorno lo spettacolo stupefacente di una natura magnifica. Tornano alla mente i versi del poeta, Yi Munyol scrive: «Dicono che non vi siano fiori, sulla terra dei barbari,/ ma com’è possibile che i barbari non abbiano i loro fiori?/ Dicono che non vi siano fiori, sulla terra dei barbari,/ ma com’è possibile, poiché essa è pur sempre terra?».