Avvenire.it domenica 24 dicembre 2017
Leonardo Morghen è morto a 10 anni per una malattia rarissima. I medici dagli Usa: “Non lo dimenticheremo”. La mamma: “Pensava sempre agli altri. Ora darà un tetto ai genitori dei piccoli ricoverati”
Lucia Bellaspiga
Leonardo era diverso da tutti i bambini. Tanto diverso da essere unico al mondo. «La sua non era una malattia rara, era il solo caso conosciuto», anzi sconosciuto. Così al decimo compleanno, il 17 febbraio di due anni fa, è salito al cielo senza una diagnosi, ma con i dolori di cento malattie. «Io sono felice anche se sono diverso – racconta Leo nel breve video che si è girato da solo e ha postato su Youtube –, per me non è un problema essere diverso…».
Poi inquadra il pancino forato da tubi e sondini, «io sono così, mi vedete?». Infine il vero obiettivo del messaggio: «Alle persone che sono come me, o che hanno altri problemi, dico: non smettete di combattere, resistete. Il mio nome è Leonardo Morghen, e spero che tutti voi ce la farete a resistere. Un bacio».
Un caso misterioso
«Leo era sempre felice, nonostante la morfina non bastasse più a calmare il male viveva così, pensando a come poter fare del bene agli altri», racconta la mamma Susanna Berlendis, 48 anni, che ci ha dato appuntamento a Treviolo (Bergamo) sotto un alberello di lagestroemia.
Solo tre mesi fa spuntava isolato in un terreno spoglio e deserto, oggi alle sue spalle sorge un grande edificio in legno ecologico, superaccessoriato e autosostenibile, dotato delle tecnologie più moderne: «È la Casa di Leo, ospiterà le famiglie dei bambini ricoverati con malattie gravi qui al vicino ospedale “San Giovanni XXIII” di Bergamo. La lagestroemia inizia per elle come Leo e ha splendidi fiori viola, il suo colore preferito, l’avevamo piantata per avere intanto un simbolo sul terreno», come i coloni che piantano una bandiera e da lì nascerà un nuovo sogno.
Il sogno di Leo comincia il 3 febbraio del 2005, quando viene al mondo a sette mesi e già conosce il suo primo ospedale, intubato in terapia intensiva. È subito chiaro che qualcosa non va: «Aveva un pancione come i bimbi in Africa, scoprimmo che non assimilava il cibo, non digeriva assolutamente nulla», spiega la madre. Da lì la sua odissea, lunga dieci anni ma senza un ritorno, attraverso gli ospedali di tutta Italia e d’Europa alla ricerca di uno specialista che capisse o di un precedente che desse speranza, ma niente, Leo restava unico al mondo.
“Guerriero e rompiscatole”
Eppure cresceva bello come il sole e sano come un torello, apparentemente, nutrito prima col sondino naso-gastrico, poi con la Peg (una sonda che entra direttamente nell’apparato digerente), infine con la pompa parenterale che lo alimentava 24 ore al giorno e che lui si portava dietro come la cosa più naturale del mondo. «Mio marito Michele cercava via via lavori più remunerati, perché le cure erano costosissime e la burocrazia folle. L’Asl non ammetteva che Leo andasse alla materna per via della pompa 24 ore nello zaino, noi volevamo che crescesse tra i bambini».
Visite, analisi, esami intanto scartavano una per una le diagnosi sospette (fibrosi cistica, ossa di cristallo, tumori rari, patologie del midollo), mentre i sintomi aumentavano e variavano impazziti, «osteoporosi elevatissima, colite retto-ulcerosa, termoregolazione anomala, passava in pochi minuti dai 40 di febbre ai 35… Soffriva tanto ma era vitalissimo, gareggiava nella scherma, suonava il violino, un trascinatore incredibile», sorride Susanna.
«Un vero rompiscatole», corregge don Andrea Pedretti, 39 anni, oggi parroco di Roncola e Costa Imagna (Bergamo), allora vicario in oratorio a Mozzo, il paese dove Leo frequentava la materna. Anche lui travolto da quel bambino felice: «Nel 2010, quando è andato negli Stati Uniti con la mamma, l’oratorio si è stretto attorno al padre rimasto qui con l’altro fratellino. Siamo andati anche negli Usa a trovarli e dal “raccogliamo quattro soldi per aiutarli”, dato che lì è tutto a pagamento, siamo arrivati a 70mila euro».
Un vortice di bene
Nasceva quindi la onlus “Eos la stella del mattino”, che iniziò a sostenere le famiglie dei bambini ricoverati a Bergamo da tutta Italia, mentre Leo negli Stati Uniti riceveva la solidarietà delle famiglie americane. Era un fermento di reciprocità, un contagio di bene inarrestabile che nel 2015, alla morte di Leo, anziché spegnersi diventò il progetto della Casa: «Quando un bambino ha una malattia grave, i genitori mancano per mesi dal lavoro – spiega Susanna –, a Roma come a Milano li abbiamo visti con i nostri occhi dormire anche in macchina pur di stargli vicino, perché dallo Stato non arrivano aiuti.
In America invece vicino a ogni ospedale pubblico sorgono le house, case di accoglienza geniali costruite solo grazie a donazioni, spesso offerte dalla Mc Donald’s. Leo è stato ricoverato 4 anni al National Wide Children’s Hospital di Columbus, nell’Ohio, e mai un giorno ci siamo sentiti soli, sempre ospitati nella stessa confortevole suite: ti cambia la vita».
Il miracolo di Leonardo
Presto a Treviolo succederà lo stesso, con i tanti viaggi della speranza che dal Sud Italia portano alla pediatria di Bergamo i bambini in cerca di cure. «La Casa accoglierà i papà durante il ricovero dei bimbi, quando le mamme dormono in reparto con i figli, e dopo le dimissioni ospiterà l’intera famiglia nei lunghi mesi dei controlli». Dei 971.000 euro necessari per la costruzione, gli arredi e le attrezzature, in pochi mesi sono stati raccolti 733.297 euro e da luglio a oggi la Casa di Leo è spuntata come un fungo. O come un miracolo.
«A Treviolo c’era già una comunità attiva – spiega don Pedretti –. Il resto è stata una gara incredibile di buone volontà». Il sindaco ha agevolato i permessi e individuato il terreno. La scuola materna parrocchiale, cui apparteneva, lo ha ceduto a buon prezzo. Il Comune ha donato un suo lotto a patto che si erigesse anche un bilocale per una famiglia bisognosa. La Fondazione Cariplo ha elargito 300mila euro a fondo perduto. I due architetti, Andrea Volpi e Guadalupe Fervenza, conosciuto il progetto hanno rinunciato ai compensi.
L’azienda Marlegno da fornitore delle pareti è diventata sponsor. La Innowatio ha fornito impianti tecnologici per 180mila euro («glieli ripagheremo a 12mila euro l’anno bollette comprese, e tra 10 anni il debito sarà estinto a 120mila euro»). Soprattutto la gente comune ha offerto 180mila euro. «Ce ne mancano 200mila, certo non ci fermeranno», sorride Susanna. E il 13 di gennaio avverrà l’inaugurazione. Facile contribuire, basta comprare un “mattone” da 50 euro, da 100 o da 250, magari regalarlo a un amico per Natale, come tanti privati e aziende stanno già facendo (www.eosonlus.org).
I medici americani: “Ci ha insegnato la bontà”
Anche dall’America sono arrivati 18mila euro, per una Casa di cui i loro figli non usufruiranno mai, racconta stupita Susanna. D’altra parte «è più quello che Leo ha insegnato a noi come bontà, che quanto abbiamo potuto fare per lui», le ha spiegato un medico dall’Ohio. Al di là dell’oceano nessuno ha dimenticato quel bambino, unico al mondo e non solo per la malattia, e la scuola che frequentava ha eretto in sua memoria una panchina speciale con il suo nome scritto in grande, che realizza il motto di Leo «non si lascia indietro nessuno»: chi ha un dispiacere si siede lì e i compagni devono andare a recuperarlo.
“Mamma, fammi sentire il profumo delle fragole”
Primo bambino in America ad avere un pacemaker allo stomaco per concedersi il lusso di ingerire almeno i liquidi, in tutta la vita Leo non ha mai assaporato un boccone, «fammi sentire il profumo delle fragole e del grana», chiedeva alla mamma, concludendo ogni volta «che fortunati siete…». Ma mai un lamento, semmai i suoi supereroi li disegnava con la pompa nello zaino e il sondino in pancia. Credente di una fede tanto adulta da essere un mistero («lasciava senza parole anche noi», dice don Andrea), aiutava volentieri medici e psicologi con i bambini problematici.
«Gli avevano tolto il colon e lui si gestiva il sacchettino con maturità disarmante», ricorda la mamma, «così il dottore gli chiese di parlare a Mary, che non voleva farsi operare. Ne era felicissimo, le parlò per due ore e alla fine la persuase». Non si reggeva già più in piedi quando invece lo chiamarono per convincere Alexia ad abbandonare la carrozzina, ma per darle il buon esempio lasciò fuori dalla stanza anche la sua e poco dopo camminavano insieme, «i medici avevano le lacrime».
Un mese prima di morire, andò con la madre in ematologia per la trasfusione. All’ingresso in un passeggino sedeva un ragazzo visibilmente malato, dal viso deforme, «tant’è che per non impressionarlo ho girato la carrozzina di Leo. Parlavo con la receptionist e non mi ero accorta che Leo non c’era più… Si era alzato, era là che accarezzava il ragazzino e quella madre in lacrime». A Boston, Chicago, Washington, quando vedeva un senzatetto gli si buttava addosso e lo abbracciava, «aveva 50 dollari per le sue spesucce, ma a 5 per volta li ha dati tutti a loro».
“Non si lascia indietro nessuno”
Lucido e consapevole della sua situazione, chiedeva ai genitori «cosa c’è dopo la morte? che cosa troverò?», e quando il dolore era acuto pregava Gesù, «dammi la forza o prendimi con te». «Scusatemi se vi ho fatto fare una vita che non era la vostra», diceva a mamma e papà, e Susanna sente ancora il tatto delle sue manine quando le prendeva il viso e in silenzio teneva appoggiate le due fronti. Prima di entrare nel coma farmacologico da cui non sarebbe più uscito, ha chiesto un solo regalo: «Non piangete mai!».
Ne aveva chiesto un altro a Make a wish, la onlus internazionale che esaudisce i sogni dei piccoli malati, voleva che lo portassero in un delfinario speciale in Florida per delfini mutilati, per nuotare insieme a loro. Le pratiche erano pronte, ma non ha fatto in tempo.
Per quel figlio che abbracciava gli alberi e stava alla finestra a parlare con il vento, Susanna e Michele hanno però avverato un sogno ancora più alto, e accanto all’albero dai fiori viola gli hanno costruito la Casa che «non lascia indietro nessuno».
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