Tempi.it Ottobre 3, 2017
Ateo, di sinistra e repubblicano, dopo 15 anni passati a dirigere scuole nelle banlieue di Marsiglia, ha rivelato il tentativo (spudorato) di islamizzazione in atto
Leone Grotti
«Basta, mi sono sbagliata. Io non voglio più fare questo lavoro, non fa per me, non ce la faccio più». Quando la giovane insegnante di storia e geografia ha fatto irruzione nel suo ufficio di preside con la faccia stravolta, Bernard Ravet non si è neanche scomposto. Dopo quindici anni passati a dirigere tre collège pubblici (l’equivalente delle nostre scuole medie) nelle banlieue di Marsiglia, piagate da una forte immigrazione, dove il sogno dell’integrazione si è trasformato nell’incubo del ghetto, poche cose erano ancora in grado di sorprenderlo. Ma questa era una di quelle.
«È Mustapha, 15 anni, ha preso la parola durante il corso sui diritti umani e ha arringato tutta la classe dicendo che le donne sono inferiori agli uomini, che le adultere vanno lapidate e che la mano di chi ruba va mozzata. Io ho provato a controbattere, citandogli la legge francese, ma lui mi ha risposto che chi segue un’altra legge rispetto a quella di Allah è un infedele».
Mustapha era un ragazzo come tanti e non si inventava nulla. Era tutto scritto nero su bianco in un piccolo libretto sulla sharia che gli avevano regalato in moschea, una delle tante presenti nei quartieri nord della seconda città più grande della Francia, colonizzati da magrebini, algerini, ceceni e comoriani (provenienti dallo Stato insulare africano che ha guadagnato l’indipendenza dalla Francia nel 1975).
La moschea in questione era quella frequentata da Abdel, il factotum della scuola, «il nostro miglior inserviente», efficiente, sempre gentile, vestito all’occidentale, «perfettamente integrato». Dopo alcuni colloqui con le forze dell’ordine, il preside Ravet scoprirà che Abdel era sotto sorveglianza dei servizi segreti da sei mesi. Mancava ancora qualche anno agli attentati di Charlie Hebdo e del Bataclan, ma Abdel era «quello che oggi chiameremmo un “fiche S”, un potenziale terrorista».
L’alunna stuprata
La storia di Abdel e Mustapha è solo una delle decine raccontate in Principal de collège ou imam de la République?, il libro di Bernard Ravet, appena uscito in Francia, che ha scosso e inquietato il paese. Denunciando la realtà dell’islamizzazione delle scuole pubbliche e il disinteresse delle autorità per un fenomeno che «mette in serio pericolo le fondamenta dello Stato», ognuno dei cinque capitoli spazza via come uno tsunami mille discorsi semplicistici e alla moda sull’integrazione e la possibilità di costruire un islam repubblicano.
Per 15 anni questo preside di 64 anni è rimasto in silenzio perché, racconta a Tempi, «se avessi parlato innanzitutto non avrei più potuto fare il mio lavoro. Sarebbe stato impossibile. Inoltre, qui in Francia abbiamo un dovere di riservatezza: certe informazioni sono confidenziali». Quando però le stragi del terrorismo islamico hanno cominciato a falcidiare il paese, «sono rimasto profondamente colpito e ho capito che non potevo più tacere. E siccome ero entrato in pensione nel 2013, con l’aiuto di un amico giornalista di Le Monde (Emmanuel Davindenkoff, ndr) ho scritto tutto quello che ho vissuto durante la mia carriera. Non ho voluto fare un libro teorico, ma pieno di fatti ed esperienze».
Per anni l’insegnamento è stato uno degli ultimi problemi di Ravet. Com’è possibile concentrarsi sull’organizzazione dei corsi e dell’orario scolastico quando un’alunna, approfittando della ricreazione, «viene a confessarti che la sua compagna di classe sta male, perché lo zio e il cugino la violentano regolarmente»? Bisogna avvisare subito gli assistenti sociali e la polizia, ingannare lo stupratore convocandolo a scuola col pretesto di una riunione e fargli trovare davanti, invece che i professori, la polizia.
«Ero cosciente di commettere un abuso, ma i manuali del perfetto dirigente non prevedono casi simili», scrive nel libro Ravet. «La cosa più incredibile, però, è ascoltare lo zio che ammette tutto candidamente, come se non fosse un problema: “La piccola non è più vergine”, spiega il comoriano facendo appello alle “tradizioni” del suo paese, “è stata violata e ora è impura. Io e mio figlio abbiamo il diritto di abusarne”».
Mai più con la gonna
Andare al lavoro ogni giorno era come entrare in trincea e per preservare la scuola dalla violenza che dominava nell’ambiente circostante, Ravet doveva prendere misure eccezionali. Per accedere alle classi del collegio Versailles bisognava entrare da un primo cancello. Quando questo si richiudeva, lo studente doveva identificarsi e ricevere l’autorizzazione, solo allora poteva varcare il secondo cancello.
Così «gli studenti capivano subito che stavano entrando in un luogo dove vigevano altre regole rispetto a quelle del quartiere. Molti descrivevano Versailles come una prigione, dove si ritrovavano rinchiusi, ma anche protetti». Se in principio Ravet doveva far fronte a un ambiente violento, «intorno al 2000 è apparso un altro avversario con il quale nessuno mi aveva mai insegnato a combattere: Dio». Un avversario che molto presto si rivela ostile.
Una sera come tante, dopo una riunione con i genitori durata fino alle sette, tre professoresse escono da scuola a piedi per andare a prendere il metrò. Attraversano rapidamente la città vecchia di Marsiglia, sfilando sotto i palazzi beige dalla vernice scrostata, lasciandosi alle spalle le boutique desolate e abbruttite dal tempo oltre alle numerose pompe funebri islamiche che circondano il vicino ospedale. Quando arrivano alla stazione un gruppo di giovani musulmani che bivaccano all’entrata le bersagliano con lanci di lattine di Coca-Cola, urlando mentre indicano le loro gonne: «Troie! Puttane!». Le professoresse scappano e si rifiutano di tornare a scuola il giorno dopo. Ravet è costretto a chiamare la polizia, che fornisce una scorta permanente «come se fossimo una potenza occupante in guerra».
La presenza degli agenti scoraggia nuovi assalti ma dopo pochi giorni quattro uomini barbuti si presentano a scuola e chiedono di parlare con Ravet. Sono gli spacciatori del quartiere, venuti a lamentarsi delle pattuglie che rovinano il business. Il preside è costretto a scendere a patti: voi non infastidite più le donne e noi non chiameremo la polizia. L’accordo è raggiunto in fretta ma Ravet non si trattiene dal domandare: «Voi siete islamici, religiosi, e vendete questa merda che uccide?».
La risposta è semplice: «Noi non la vendiamo ai tuoi studenti, perché i musulmani non si drogano. La diamo agli altri. La droga uccide, ma uccide solo gli infedeli. E questo non è contrario alla nostra religione». Ravet rimase di sasso: non aveva mai sentito parlare dello «spaccio come una forma di jihad». Da quel giorno nessuno molestò più le sue insegnanti, ma loro non si azzardarono mai più a indossare una gonna.
Niente “+”, ricorda la croce
L’islam ha bussato alla porta delle scuole statali e si è intrufolato con una velocità sorprendente. Se nel 2000 solo pochi alunni chiedevano a Ravet pasti halal in mensa, nel 2013 erano ormai diventati il 95 per cento. Quella ventina di studenti che non digiunavano durante il Ramadan venivano attaccati e insultati dagli altri. Godendo della grande autonomia riservata ai dirigenti di istituti situati in zone problematiche (Zep), Ravet ha permesso ai musulmani di uscire da scuola durante il pranzo, restituendo loro i soldi della mezza pensione, per permettere agli altri di mangiare in pace.
Ma non tutti i problemi potevano essere risolti così facilmente: le ragazze si rifiutavano di andare in piscina con i maschi e si facevano esonerare da educazione fisica, i ragazzi non stringevano la mano alle insegnanti e rispondevano male perché «lei in fondo è solo una donna».
Anche l’insegnamento delle materie classiche ne risentiva: per motivi religiosi gli studenti si rifiutavano di studiare Darwin, l’evoluzionismo, Rousseau, Molière, Voltaire, il Cyrano de Bergerac. In matematica si astenevano dall’utilizzare il simbolo “+” perché troppo somigliante a una croce cristiana (come a Mosul sotto l’Isis) o attaccavano i docenti perché «se non siete musulmani, non potete insegnare la storia del mondo arabo».
Anche l’antisemitismo era all’ordine del giorno: commenti come «gli ebrei si sono meritati la Shoah» o «Hitler ha fatto bene» erano ricorrenti. Ravet si è addirittura trovato costretto a rifiutare l’iscrizione di un bambino di religione ebraica per timore che non uscisse vivo dalla scuola.
Il dirigente scolastico, in sintesi, è stato testimone negli anni «di un tentativo insidioso di presa del potere da parte dell’islam all’interno del collegio». E questo in un clima di «indifferenza assoluta da parte delle autorità». Ravet informava costantemente il ministero, ma i suoi fax e le sue lettere venivano ordinatamente riposte in un archivio e dimenticate.
Le autorità, spiega a Tempi, «sapevano benissimo quello che stava accadendo, ma non volevano vedere. In Francia infatti abbiamo un grande problema: gli insegnanti sono soprattutto di sinistra e la sinistra, per timore di essere chiamata razzista e islamofoba, ha permesso la crescita dell’islam, ignorando il problema. Nelle scuole che ho diretto, così come nei quartieri dove si trovavano, vigeva un vero e proprio apartheid e il vuoto lasciato dalla République è stato riempito dal Corano».
Continuare a sperare
A questo punto bisogna fare una precisazione, perché qualcuno potrebbe malignare che Ravet sia solo un estremista, un lepenista, razzista e islamofobo. Invece il suo curriculum è inattaccabile. Ateo e di sinistra, Ravet è cresciuto in una famiglia protestante e «anche se non professo alcuna religione, ho un profondo rispetto per essa, che mi deriva dall’educazione ricevuta da mia madre e mia nonna». Educato con l’ultima generazione degli istitutori, da vero uomo di Stato ha sempre difeso le leggi della Repubblica, senza discriminare nessuno e cercando di «far rispettare la laicità».
È proprio per questo che «rimanevo di stucco mentre guardavo i politici socialisti di Marsiglia inaugurare nuove moschee estremiste con l’ambasciatore del Qatar. Com’è possibile, ad esempio, inaugurare un liceo islamico e convenzionarlo con lo Stato sapendo benissimo che non rispetta la legge, permettendo alle ragazze di indossare il velo in classe?
A Marsiglia la politica ha flirtato col diavolo e l’ha fatto per clientelismo, per ottenere i voti dei musulmani. Ma questo per me è uno scandalo. Se ho scritto questo libro è anche per non essere complice di questo sistema. Io sono un uomo di sinistra, rivendico questa appartenenza, e accuso la mia parte politica di essere arrivata a tollerare l’intollerabile e persino l’intolleranza».
Non bisogna neanche credere che Ravet consideri l’educazione una battaglia persa e la scuola un territorio da cui battere in ritirata. Se il preside infatti ha affrontato di tutto, trasformandosi a seconda del bisogno in «direttore di una ong pedagogica, commissario di polizia, perfino imam della Repubblica», è per amore degli studenti e della scuola. «Se non possiamo avere speranza nella scuola, allora la Repubblica è davvero in pericolo. Io nutro una grande speranza perché l’istruzione può salvare giovani in grave difficoltà e trasformarli in pepite d’oro».
Quanti potenziali Mohammed Merah
E se gli attentati contro Charlie Hebdo hanno segnato così profondamente Ravet, è anche perché molti dei terroristi avrebbero potuto essere suoi alunni: «Ricordo quando una madre venne da me e mi disse: “Mio figlio Sabri sarebbe potuto diventare un Mohammed Merah” (l’uomo che nel 2007 uccise tre militari e tre bambini di religione ebraica a Tolosa, ndr)». Ragazzo come tanti altri, Sabri dopo il collegio aveva imboccato una brutta strada, fatta di droga e piccola delinquenza.
Poi alcuni religiosi lo presero sotto la loro ala di protezione e lui divenne sempre più intransigente e rigorista in fatto di religione. La madre in principio era contenta perché aveva abbandonato «la cattiva strada», poi si accorse che era «caduto in una dipendenza ancora peggiore. E lo capii quando mi fece una scenata perché non portavo il velo». La madre separò subito il figlio dagli estremisti e lo spedì a Parigi dalle sorelle. Sabri si salvò, ma la mamma corse a raccontare tutto a Ravet perché «ora so che nel quartiere ce ne sono tanti di Mohammed Merah in potenza. Io ce l’avevo sotto gli occhi e non mi sono accorta di niente. E questo fa paura».
L’estremismo non è una condanna
Ma perché così tanti giovani, immigrati di terza generazione, francesi in tutto e per tutto, sono affascinati dai jihadisti? «Siamo davanti a una crisi di identità», ragiona Ravet. «Le difficoltà economiche rendono tutto più difficile ma i giovani non rivendicano più di essere francesi, algerini o magrebini. Il fattore chiave dell’identità è diventata la religione, questi ragazzi dicono: “Non sono marsigliese, sono musulmano”».
Inoltre, continua l’ex preside, «i ragazzi riconoscono nel jihadista le caratteristiche dell’eroe, del Superman. E i giovani hanno bisogno di eroismo: è questo aspetto che li seduce. La radicalizzazione religiosa, dunque, risponde da una parte al vuoto di identità e dall’altra al bisogno di eroismo». Lo Stato, purtroppo, «oggi fatica a offrire un modello repubblicano altrettanto attraente. I nostri eroi sono gli sportivi, i pompieri, i soldati. Difficilmente può bastare».
Proprio per questo secondo Ravet la scuola giocherà un ruolo sempre più importante in futuro: «Gli insegnanti vanno formati e aiutati a contrastare il verbo estremista. Gli istituti hanno bisogno di maggiore autonomia, ma questa non può trasformarsi nell’abbandono da parte delle istituzioni che io ho vissuto. Sono certo che trasmettendo il sapere la scuola può donare alla società quei mezzi per impedire che la Repubblica venga distrutta dalla radicalizzazione, può offrire gli anticorpi per tutto questo.
Può aiutare un giovane cresciuto in un ghetto a crescere dal punto di vista umano e culturale. Io ho speso la mia vita per questo e sono andato avanti nonostante tutto: ho anche subìto un tentativo di assassinio ma non mi sono fermato». Allo stesso modo, «credo che l’islam non sia condannato a scadere nell’estremismo. Ho conosciuto molti musulmani credenti e moderati. Avremmo bisogno di più Averroè, perché la sua visione della religione era perfettamente compatibile con la Repubblica».