dal sito Storia & Identità 31 maggio 2008
Matteo Masetti
Il periodo che va dall’inizio degli anni Settanta e arriva alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso è caratterizzato in tutta l’Europa occidentale dalla nascita e dall’esplosione della lotta armata del terrorismo e quella fase storica viene oggi comunemente chiamata in Italia «anni di piombo».
A trent’anni di distanza dal fatto più eclatante avvenuto nel nostro paese e cioè il sequestro, la prigionia e l’omicidio dell’onorevole Aldo Moro (1916-1978), segretario della Democrazia Cristiana (Dc), vorrei dare uno sguardo retrospettivo alla formazione di quella tragica stagione che sembra però non ancora conclusa, se consideriamo gli omicidi avvenuti in anni più recenti di Massimo D’Antona (1999) e di Marco Biagi (2002) rivendicati dalla stessa matrice terroristica.
Analizzando quindi le motivazioni che spinsero allora molti giovani a spendere la propria vita a servizio della rivoluzione, convinti «[…] che la politica dovesse essere intesa solo come azione, come attacco frontale e senza riserve» (1) bisogna considerare che l’Italia degli anni Sessanta del Novecento era una società che, pur uscita sconfitta dal secondo conflitto mondiale, era stata in grado — grazie anche al sostegno dell’alleato americano — di creare un boom economico che aveva accresciuto notevolmente la disponibilità dei beni di consumo, aveva fatto nascere il fenomeno della motorizzazione di massa provocando in questo modo una sorta di «indotta emancipazione» che però si scontrava con una domanda di senso da parte di quella generazione che si vedeva circondata da tutto quell’improvviso e inatteso benessere materiale.
Allo stesso tempo la Chiesa, subito dopo la chiusura del Concilio Vaticano II (1962-1965), appariva in un ruolo marginale nella società e in preda a un ingiustificato ottimismo: un ottimismo secondo il quale anziché condannare gli errori come era avvenuto fino a allora era preferibile «[…] far uso della medicina della misericordia piuttosto che delle armi della severità» (2). Quell’ottimismo che qualche anno dopo Papa Paolo VI (1897-1978) — apertamente criticato per la sua posizione sul controllo delle nascite espressa nell’enciclica Humanae Vitae del 1968 — definirà un processo di «autodemolizione» dall’interno della Chiesa stessa.
La società italiana era quindi in preda a una trasformazione epocale senza esserne preparata e inoltre si trovava a avere la prima generazione risparmiata dal flagello delle due guerre mondiali le quali, con le loro tristi vicende e necessarie privazioni, avevano però allo stesso tempo formato a vivere con spirito di sacrificio. Pertanto la consapevolezza di questa nuova classe sociale — il termine «giovani» come categoria viene utilizzato a partire da quegli anni — cresciuta tra l’altro in maniera esponenziale nel numero di coloro che si potevano iscrivere ai corsi universitari con problemi di aule, alloggi, ecc. e unita al disagio esistenziale comincia a provocare dei sentimenti di ribellione che si manifesteranno nei fenomeni delle comuni, degli hippy, del consumo di droghe allucinogene come l’Lsd — «l’acido» per antonomasia — e più in generale di un totale rifiuto verso i valori della società e della famiglia tradizionale vista come un centro di oppressione dell’anelito di libertà.
Va inoltre considerato come ulteriore passo verso la dissoluzione di valori fino a allora consolidati che nel 1967 la Gran Bretagna introduce nel proprio ordinamento giuridico la legge sull’aborto e ciò comincia a creare la percezione di poter vivere la propria sessualità slegata dalla procreazione e senza alcun vincolo morale.
Questi aspetti, uniti alle proteste pacifiste contro la guerra degli americani in Vietnam e al linguaggio che la nuova musica rock trasmette, portano a quel fenomeno di rivoluzione culturale che si manifesta in maniera evidente ed esplosiva a partire dal 1968 e che da quell’anno prende il nome. Comunque la contestazione sarebbe rimasta un fatto di costume complesso e differenziato come avvenne in Gran Bretagna o negli Stati Uniti con il fenomeno dei «fricchettoni» o dei «figli dei fiori».
Invece in Italia il movimento degli studenti venne presto assorbito per la maggior parte dal mondo della sinistra e più tardi sfocerà nel terrorismo. Ciò si spiega anche perché l’Italia aveva il più potente partito comunista dell’Occidente che, in forza della dottrina marxista di Antonio Gramsci (1891-1937) di conquista dello Stato borghese a partire dalla società civile, era riuscito a partire dagli anni 1950 a infiltrare silenziosamente ma inesorabilmente nella cultura e nei gangli vitali della società — nella scuola, nel cinema, nel giornalismo, nella magistratura — uomini fedeli al partito.
La preparazione e l’avvio vero e proprio della lotta al sistema cominciano con l’occupazione di alcune università italiane nel 1967 e in particolare con quella della facoltà di Sociologia dell’Università di Trento, un’università nuova, voluta nel 1962 dalla Democrazia Cristiana e accettata dall’autorità ecclesiastica del luogo. Qui infatti, «accanto alla città reale, di forte tradizione cattolica ma immersa in una profonda apatia culturale, nasce la “città del pensiero” universitaria, che diventerà presto fucina della Rivoluzione» (3).
In tale ambiente nasce e si sviluppa quella che diventerà poi la sintesi tra cristianesimo e rivoluzione di quegli anni e cioè la consapevolezza che il Regno di Dio sia da ricondurre al regno dell’uguaglianza teorizzato dal marxismo rivoluzionario. «Non è casuale che alcune provenienze appartengano al mondo cattolico, laddove il Vangelo veniva sentito come lettera tradita» (4): tra questi Renato Curcio e Marco Boato. Da Trento si trasferiscono poi a Milano dove nel 1969 danno vita al Collettivo Politico Metropolitano.
Questa componente intellettuale si viene a saldare con i comitati di base di una grande industria milanese, la Sit-Siemens, i cui esponenti principali sono Mario Moretti — anch’egli di estrazione culturale cattolica — e Corrado Alunni. Altri protagonisti che invece provengono dalla Federazione Giovani Comunisti Italiani (FGCI) dell’Emilia Romagna sono Alberto Franceschini e Prospero Gallinari.
L’organizzazione che poi prenderà il nome di Brigate Rosse (BR) nasce dall’unione di tutte queste componenti dopo una riunione nell’agosto del 1970 in una località semisegreta in provincia di Reggio Emilia: la scelta del passaggio alla clandestinità e alla lotta armata è considerata inevitabile, in seguito anche all’«autunno caldo» dell’anno precedente, alla strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) e alla morte dell’anarchico Pinelli pochi giorni dopo che hanno così completamente cambiato la prospettiva di lotta politica. Il simbolo che poi verrà utilizzato dall’organizzazione sarà la stella rossa sghimbescia dei guerriglieri uruguayaniTupamaros che operavano in quegli anni, ma è anche un preciso riferimento alle brigate comuniste Garibaldi che combatterono durante la Resistenza.
Intanto nel 1970 un gruppo fuoriuscito dal Collettivo Politico Metropolitano creò una struttura clandestina con il nome di Superclan. Questo gruppo doveva servire come organizzazione più «sicura» delle BR e ben presto si trasferì a Parigi dove, dopo aver aperto la scuola di lingue Hyperion agiva sotto questa copertura come una vera e propria organizzazione a servizio del terrorismo internazionale.
A capo di questo movimento era Corrado Simioni, spesso identificato con l’appellativo di «grande vecchio» delle BR, «figura enigmatica» secondo la definizione della Commissione Stragi. Inoltre come citato negli atti della Commissione Moro «l’Hyperion fu creato allo scopo di dare protezione a vari latitanti e tale funzione avrebbe permesso ai suoi dirigenti di stabilire collegamenti con organizzazioni quali l’Ira, l’Eta, l’Olp» (5).
Tra le diverse motivazioni che mossero le Brigate Rosse, cioè la contestazione verso la società capitalista e la sua decadente espressione borghese, la rivendicazione di sempre maggiori diritti sindacali nelle fabbriche per suscitare un movimento di massa teso a sovvertire il sistema democratico vigente, un altro aspetto apparentemente poco conosciuto utilizzato come «mito fondativo» è il tema della Resistenza tradita.
A questo riguardo sono interessanti le parole pronunciate da Alberto Franceschini nel corso della trasmissione diretta da Antonio Socci Excalibur del 04.12.2003 e già presenti nel libro da lui scritto «Mara, Renato e io» (Mondadori, 1988), in quanto «quello che spinse definitivamente Franceschini alla lotta armata fu il richiamo che sentiva da parte della generazione comunista precedente, che aveva combattuto la Resistenza, per poi deporre le armi obbedendo a un ordine mai digerito.[…] Alcune armi regalategli da un vecchio partigiano (che, come altri, non le aveva consegnate) assunsero un valore che andava ben oltre il passaggio di un testimone: un simbolo, diventando uno stimolo a continuare quella lotta armata interrotta, fino all’affermazione del comunismo. Un giorno il giovane Franceschini andò infatti a trovare un vecchio partigiano col quale s’intratteneva spesso, e in quell’occasione gli disse: “So che parti. Vorrei venire con te ma ormai sono vecchio. Nemmeno i miei consigli, ora, potrebbero servirti. Una cosa però te la voglio dare…”. Si trattava di una Browning di un ufficiale tedesco ucciso in montagna. Poi tirò fuori una Luger e gli diede pure quella.[…] mi stava affidando i suoi ideali […] Una di quelle armi, la Luger, apparirà qualche tempo dopo sulle pagine di tutti i giornali…» (6) e esattamente quando nel 1972, in occasione del primo breve sequestro del dirigente della Sit-Siemens Idalgo Macchiarini, costui venne fotografato con una pistola puntata contro una guancia e impugnata da una mano guantata: proprio quella pistola del vecchio partigiano nella mano di Franceschini, il quale voleva in questo modo dare un chiaro messaggio agli ex-partigiani che non si dovevano più sentire traditi perché le Brigate Rosse non li avevano dimenticati ma anzi volevano dare continuità alla loro lotta che si era interrotta subito dopo la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945).
Questo fatto riporta quindi alla vera e propria guerra civile italiana avvenuta dopo il 1945 e attuata da una parte della Resistenza partigiana comunista mossa da una molla ideologica di odio politico e sociale che voleva «chiudere i conti» con i vecchi fascisti ma anche con semplici borghesi in quanto benestanti così come nei confronti di diverse decine di sacerdoti che vennero soppressi: la testimonianza di questi martiri rimarrà comunque ben presente nella mente della gente riguardo alla violenza del comunismo, quando in occasione delle elezioni del 18 aprile 1948 la maggioranza si espresse a favore della Democrazia Cristiana (7).
L’epicentro di questi eccidi della guerra civile denominato «il Triangolo rosso» e che si trova tra le province di Reggio Emilia, Modena e Bologna corrispondeva anche alla zona della Linea Gotica (8) e fu teatro della guerra partigiana che Franceschini visse a partire dalla sua infanzia nei ricordi e nei racconti dei protagonisti sopravvissuti a quella tragica stagione.
Proseguendo nella ricostruzione del periodo di incubazione delle Brigate Rosse è inquietante anche leggere come «i compagni sapevano della sua [il soggetto è Franceschini, nda] appartenenza alle Brigate Rosse, eppure lui poteva frequentare tranquillamente la festa dell’Unità e sedersi a mangiare alla stessa tavola dei militanti del PCI. […] Tesi identica sostenuta anche da un altro del gruppo emiliano, Prospero Gallinari: il cinquanta per cento degli operai sapeva chi erano i loro colleghi che appartenevano alle BR.. Ma non li denunciavano» (9).
Ciò serve per capire l’atteggiamento colpevole e omertoso da parte del PCI, che d’altra parte si era comportato nello stesso modo quando, all’indomani del 1945, aveva provveduto a nascondere e trasferire oltre cortina — specialmente in Cecoslovacchia — i responsabili di alcuni delitti del Triangolo rosso (10). Assieme a altri militanti comunisti espatriati lavoreranno a Radio Praga per far sentire la propria voce anche in Italia e inoltre sempre in quel paese molti italiani verranno istruiti nei campi di addestramento — almeno fino al 1968, anno dell’invasione Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche — per essere poi pronti a preparare il movimento insurrezionale che sarebbe scattato all’ora X.
Tale strategia, sostenuta da Pietro Secchia (1903-1973) all’interno del PCI venne però emarginata dopo la sconfitta elettorale del 1948, pertanto «il Pci non aveva abbandonato l’obiettivo finale della rivoluzione, anche se il realismo di Togliatti lo faceva più predicare che praticare» (11). Inoltre «per un intero ventennio la Cecoslovacchia è stata il luogo di elezione del comunismo italiano. Essa costituisce il più evidente trait d’union tra la vecchia generazione partigiana di militanti comunisti […] e le nuove leve del terrorismo brigatista» (12). E’ obbligo comunque anche ricordare che «nel 1986 numerosi fondi archivistici dei servizi cecoslovacchi, riguardanti le Brigate Rosse, sono stati distrutti» (13).
A riprova e ulteriore conferma di quanto sopra vale la pena leggere quello che scrisse in pieno sequestro Moro la giornalista Rossana Rossanda, insospettabile per le sue idee e la sua formazione di sinistra: «In verità, chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi di Stalin e Zdanov di felice memoria. Il mondo — imparavamo allora — è diviso in due. Da una parte sta l’imperialismo, dall’altra il socialismo» (14).
Queste affermazioni provocarono tra l’altro un lungo dibattito all’interno della sinistra che portò in alcuni casi a volute distorsioni, poiché la parola d’ordine che correva in quegli anni era che le Brigate Rosse non potevano appartenere al movimento comunista internazionale ma venivano definite come gruppi fascisti o anche «sedicenti Brigate Rosse». E’ quindi utile anche ricordare che nel primo opuscolo del settembre 1971, le BR affermarono che: «I nostri punti di riferimento sono il marxismo-leninismo, la rivoluzione culturale cinese e l’esperienza in atto dei movimenti guerriglieri metropolitani; in una parola la tradizione scientifica del movimento operaio e rivoluzionario internazionale».
Di grande importanza nella formazione del fenomeno brigatista è anche il lavoro editoriale di Giangiacomo Feltrinelli (1926-1972) — detto anche «il compagno Osvaldo» — il quale muore il 14 marzo 1972 nel tentativo maldestro di far saltare in aria un traliccio dell’alta tensione vicino a Milano, in quanto voleva dimostrare di operare concretamente e in prima persona alla realizzazione dell’utopia rivoluzionaria. Questo fatto, pur rimanendo un atto terroristico, verrà celebrato come un atto di coraggio e assunto come esempio nonostante il suo tragico epilogo, perché compiuto da un compagno sacrificatosi per la causa.
In conclusione vorrei ricordare tutte le vittime innocenti di quella stagione che vennero uccise in forza di un assurdo concetto di moralità (15) nello svolgimento del loro servizio di giornalisti, magistrati, poliziotti, uomini politici, ecc. e di come esista ancora concretamente un pericolo che riguarda tutti se l’odio e il veleno politico e ideologico non vengono definitivamente spezzati, così come emerso pochi anni fa in occasione degli ultimi due omicidi citati all’inizio di questo lavoro.
NOTE
(1) Cfr. Pino Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse, Newton Editori, Roma, 2007, p. 7.
(2) Cfr. Discorso di apertura di Giovanni XXIII al Concilio Vaticano II, 11.10.1962, Libreria Editrice Vaticana.
(3) Cfr. Enzo Peserico, Gli anni del desiderio e del piombo. Dal Sessantotto al terrorismo, p. 9.
(4) Cfr. Pino Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse, Newton Editori, Roma, 2007, p. 8.
(5) Cfr. Vittorio Feltri e Renato Brunetta Le mani rosse sull’Italia, Free Foundation, supplemento a Libero, Milano, 2006, p. 143.
(6) Cfr. Pino Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse, Newton Editori, Roma, 2007, p. 38.
(7) Cfr. Avvenire, Milano, 25.02.2004 — Intervista di Roberto Beretta a Elena Aga-Rossi.
(8) Linea gotica fu il nome dato dai tedeschi (Gotenstellung) alla linea lungo cui correva il fronte di guerra in Italia durante le ultime fasi della seconda guerra mondiale: a nord erano attestate le forze dell’Asse ovvero la Wehrmacht e i militari della RSI, a sud gli alleati angloamericani. La linea tagliava in due la penisola italiana da Massa-Carrara a e si estendeva per una lunghezza di 320 km e per una profondità che in alcuni punti raggiungeva i 30 km.
(9) Cfr. Pino Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse, Newton Editori, Roma, 2007, p. 67.
(10) Cfr. Valerio Riva, Oro da Mosca. I finanziamenti sovietici al PCI dalla Rivoluzione d’Ottobre al crollo dell’URSS, Mondadori, 1999, p. 359.
(11) Cfr. Vittorio Feltri e Renato Brunetta, Le mani rosse sull’Italia, Free Foundation, supplemento a Libero, Milano, 2006, p. 56.
(12) Cfr. ibid., p. 82.
(13) Ibid., p. 82.
(14) Cfr. Il Manifesto, 28.03.1978.
(15) Cfr. Avvenire, Milano, 02.02.1984 Io, Marco Barbone, intervista a cura di Roberto Fontolan e Massimo Romanò. «Quello che è difficile capire è che la dimensione ideologica fa perdere il rapporto concreto con la vita e con la morte».