Da un lato quelli che vorrebbero archiviare per sempre Kyoto, dall’altro chi tifa per un patto mondiale che imponga l’abbandono dell’energie fossile e il passaggio alle costosissime energie rinnovabili. Qual che è certo è che dopo decenni di mezze verità ora servono i “democristiani climatici”
di Rodolfo Casadei
Così può capitare di leggere sul Wall Street Journal del 27 gennaio un appello anti-allarmista di 16 scienziati internazionali che affermano convintamente che «non c’è nessuna irresistibile prova scientifica a favore di una drastica azione di de-carbonizzazione dell’economia mondiale» e paragonano l’ “international warming establishment” al famigerato Trofim Lysenko, il biologo sovietico che con l’appoggio di Stalin faceva licenziare gli scienziati che non la pensavano come lui e indulgevano in “finzioni borghesi” come lo studio dei geni.
Per loro l’incidenza dell’anidride carbonica sugli andamenti climatici è grossolanamente sovrastimata, e comunque un aumento di concentrazione della Co2 nell’atmosfera sarebbe benefico: «Piante e animali si sono evoluti quando le con-centrazioni di Co2 erano circa 10 volte maggiori di quanto sono oggi. (…), è probabile che più Co2 e il modesto riscaldamento che ad essa si accompagnerebbe sarà complessivamente un beneficio per il pianeta».
Poi due giorni dopo, mentre il gelo siberiano comincia ad abbattersi sulla penisola, sulla prima pagina di Repubblica si legge della prematura uccisione del lupo Otello su un costone dell’Appennino bolognese attribuita al riscaldamento globale: “Gli animali pazzi di caldo”, titola il pezzo, e un esploso recita: “Gli etologi avvertono: si è già modificata la fisiologia della fauna”.
«Ho 50 anni e quest’anno ho assistito a qualcosa che non avevo mai visto», dichiara angosciato Mauro Delogu, ricercatore del dipartimento di scienze mediche e veterinarie di Bologna. «Gli animali sono impazziti, i merli hanno già fatto a dicembre i loro canti d’amore e ora i loro piccoli rischiano di uscire dalle uova quando non ci sono ancora bruchi in giro». Poi l’articolo di Paolo Rumiz conclude: «Delogu accarezza i suoi animali impagliati e sorride: “Noi ci siamo dentro fino al collo. E chissà se un giorno, tra qualche secolo, un astronauta verrà sul Pianeta e in una bacheca indicherà, tra le specie estinte, anche uno di noi”».
Ottimisti a prescindere e profeti di sventura. Quelli che sostengono che, anche raddoppiasse la concentrazione della Co2 nell’atmosfera rispetto all’epoca pre-industriale, non succederebbe niente di importante perché, come dice Antonino Zichichi, i gas a effetto serra sono lo 0,5 per cento dell’aria del pianeta ma l’anidride carbonica è solo lo 0,038 per cento, cioè appena il 7 per cento di tutti i gas che esercitano l’effetto serra.
E quelli che restano aggrappati alle proiezioni apocalittiche del Terzo rapporto di valutazione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc, l’organismo politico a cui l’Onu ha affidato gli studi scientifici sui cambiamenti climatici), secondo i quali nel 2100 la temperatura del pianeta potrebbe anche risultare aumentata di 5,8 gradi centigradi rispetto al 1990 (roba da scioglimento dei poli). Quelli che si sono stufati del protocollo di Kyoto e di qualunque nuovo accordo che lo sostituisca, e quelli che vorrebbero un patto mondiale vincolante che impone a tutti l’abbandono dell’energia fossile e il passaggio alle costosissime (attualmente) energie rinnovabili.
Bjorn, l’ambientalista scettico
Ma se questi sono gli estremisti opposti, chi sono invece oggi i democristiani del clima? Chi sta in mezzo, e che approccio propone? Il democristiano climatico del XXI secolo è un signore che non ha una posizione dogmatica sulla questione: accetta di riconoscere che un riscaldamento del clima del pianeta è in corso ma vuole capire meglio le cause e l’entità del fenomeno; sostiene che non abbiamo ancora abbastanza conoscenze per prevedere con ragionevole certezza l’evoluzione della temperatura generale e per stabilire quanta parte sia dovuta a fattori antropogenici; è spaventato dai costi economici della decarbonizzazione dell’economia e dai pochi vantaggi in termini di ridotto riscaldamento che se ne deriverebbero; preferisce puntare sullo sviluppo delle conoscenze, della tecnologia e del benessere per meglio affrontare i cambiamenti climatici piuttosto che tentare di prevenirli con immediati provvedimenti antieconomici e liberticidi.
In poche parole: punta sull’adattamento più che sul taglio delle emissioni. Sono persone come l’economista ambientalista Bjorn Lomborg, l’autore di L’ambientalista scettico (2003) che propone di combattere i cambiamenti climatici privilegiando lo sviluppo delle tecnologie e la lotta alla povertà. O come lo scienziato lan Noble, già specialista delle questioni legate ai cambiamenti climatici presso la Banca Mondiale e oggi guru del Global Adaptation Institute, dedito allo studio di come i differenti paesi del mondo possono rendersi resistenti ai mutamenti climatici. Per la misurazione dell’attuale livello di capacità di adattamento dei vari paesi Noble ha creato il Global Adaptation Index, che valuta vulnerabilità e resistenza.
Poche nuove dopo Durban
«Anche i paesi più ricchi non vogliono ridurre i combustibili fossili, perché le alternative sono considerevolmente più costose», spiega Lomborg commentando i risultati interlocutori della Conferenza di Durban. «Cina e India e altre economie emergenti certamente non vogliono, perché nel loro caso mettere freni alla crescita significa consegnare milioni di persone alla povertà. Ma anche se tali intrattabili questioni potessero essere risolte, qualunque accordo avrebbe un impatto insignificante sul clima. Anche se riducessimo le emissioni del 50 per cento al di sotto dei livelli del 1990 entro il 2050, la differenza di temperatura sarebbe di 0,2 gradi centigradi in meno rispetto alle previsioni.
Prendiamo gli uragani nel Terzo Mondo. Quando l’uragano Andrew ha colpito la Florida, ha causato la perdita del 10 per cento del Pii e di 41 vite. Ma quando un uragano della stessa intensità, Mitch, ha colpito l’Honduras, è costato al paese due terzi del suo Pii e ha ucciso 10 mila persone. Affrontare l’impatto degli uragani nei paesi in via di sviluppo (pvs) non è cosa che si fa tagliando le emissioni di carbonio, ma attraverso l’adattamento e la crescita economica per aumentare la resistenza.
Per quando riguarda l’accesso al cibo, si prevede che il riscaldamento globale sarà responsabile di una flessione di produzione del 7 per cento nei pvs e di un aumento del 3 per cento nei paesi sviluppati durante questo secolo. Tuttavia questo va visto nel contesto di una produzione alimentare totale nei pvs che crescerà del 270 per cento nello stesso periodo.
Aiutiamo di più i pvs attuando drastiche riduzioni delle emissioni di anidride carbonica che potrebbero, in un mondo ideale, evitare una flessione della produzione del 7 per cento, o rendendo disponibili varietà a più alto rendimento che potrebbero generare drastici aumenti di produzione?». In questo spirito è nato il Global Adaptation Index, che è una misura complessiva della vulnerabilità di un paese ai rischi legati al clima e del suo stato di preparazione ad affrontare le sfide poste dai cambiamenti climatici. La vulnerabilità è analizzata sulla base di tre componenti che sono l’esposizione ai rischi climatici, la sensibilità al loro impatto e la capacità di fare fronte a questi impatti, applicate a quattro settori chiave: l’acqua, il cibo, la salute e le infra-strutture.
Lo stato di preparazione di un paese è misurato sulla base della sua capacità di assorbire investimenti pubblici e privati che lo rendano resistente ai cambiamenti climatici. Le componenti sono tre: quella economica, quella della governance e quella sociale. Il valore relativo alla vulnerabilità viene sottratto dal valore relativo allo stato di preparazione, e il risultato rappresenta l’Indice di adattabilità globale. Nell’attuale classifica il paese più resistente ai cambiamenti climatici risulta la Danimarca, quello più fragile (su 161 paesi) il Centrafrica. L’Italia è al 31° posto
La posizione pragmatica di Lomborg, Noble e altri esce rafforzata dallo studio dell’Università dell’Oregon, pubblicato sulla rivista Science (novembre 2011), che afferma che il clima è meno sensibile all’aumento della concentrazione della Co2 di quanto si era finora creduto. Secondo la ricerca, che ha inserito nei suoi modelli anche le componenti paleoclimatiche ignorate negli studi dell’Ipcc, l’aumento medio probabile della temperatura in caso di raddoppio della concentrazione della Co2 nell’atmosfera rispetto all’epoca pre-industriale sarebbe di 2,4 gradi centigradi, e non di 3 come finora sostenuto. Non è proprio una rivoluzione, ma certamente un indizio che rinunciare ai dogmatismi politicamente condizionati aiuta la scienza a fare il suo lavoro.