La Croce quotidiano 17 novembre 2016
Con le presidenziali di domenica scorsa si consolida il blocco centro-orientale ostile all’establishment tecnocratico di Bruxelles
di Giuseppe Brienza
Domenica scorsa la Russia di Vladimir Putin ha segnato due ulteriori progressi in Europa. Moldavia e Bulgaria hanno infatti eletto due presidenti della repubblica filo-russi nel voto del 13 novembre: Igor Dodon e Rumen Radev. Entrambi hanno aperto la strada a prossime elezioni politiche, nella prospettiva di un analogo cambiamento orientato a Est, nei rispettivi parlamenti e, quindi, governi nazionali.
Non appena resi noti i risultati delle presidenziali, il primo ministro della Bulgaria Boiko Borisov, ampiamente noto come esponente del fronte filo-Ue, si è subito dimesso, facendo registrare, com’è stato giustamente rilevato, «una vittoria di Putin che non va ascritta al nuovo presidente statunitense Donald Trump, ma alle difficoltà da parte dell’Europa e degli Stati Uniti dell’amministrazione uscente di Barack Obama nel containment russo» (Enrico Martial, Igor Dodon e Rumen Radev, perché Putin gongola per le elezioni in Moldavia e Bulgaria, in “Formiche.net”, 15 novembre 2016).
Per quanto riguarda la Moldavia, già dal primo turno delle elezioni del 30 ottobre scorso, si era capito che era persa al “fronte occidentale”, dato che il leader socialista filo-russo Igor Dodon aveva ottenuto oltre il 48%. La vittoria di quest’ultimo, come quella di Radev in Bulgaria, sono avvenute all’insegna dei proclami all’unità ed alla sovranità nazionale, principi messi a repentaglio dalle mire “integrazioniste” (tipo super-Stato tecnocratico) dell’attuale Unione europea.
Ricordiamo che, in chiave di piena riaffermazione dei principi di nazionalità e sovranità interna, già dal 1991 la prima Costituzione democratica della Bulgaria aveva previsto esplicitamente le facoltà, da parte dello Stato, fra l’altro di: 1) stabilire discrezionalmente, per legge, «condizioni e procedure per l’acquisizione, la conservazione o la perdita della cittadinanza» e il conferimento del diritto di asilo agli stranieri; 2) finalizzare la politica estera al «più alto obiettivo del conseguimento della sicurezza nazionale e dell’indipendenza del Paese»; 3) definire lo «studio e l’utilizzo dell’idioma bulgaro come diritto ed obbligo per ciascun cittadino»; 4) salvaguardare i principi di «tolleranza e rispetto fra i credenti delle varie confessioni religiose e fra questi e i non-credenti»; 5) mantenere la definizione del matrimonio come «unione libera fra un uomo e una donna», conservando contestualmente alla legge nazionale la disciplina della «forma del matrimonio » e delle «condizioni e procedure per il suo scioglimento».
In Moldavia accanto a Dodon, un nuovo movimento, populista, nazionalista e costruito in chiave filo-russa come “Il Nostro Partito” aveva già preso un sorprendente 6% al primo turno delle elezioni, e questo dato va letto con le difficoltà nelle quali si è dovuta dibattere la candidata filo-europeista Maia Sandu, ex alto funzionario della Banca mondiale, nel prendere in campagna elettorale le distanze dall’immagine di establishment corrotto che si portavano dietro diversi oligarchi del suo schieramento. Le forze filo-Ue si sono unite nel Paese con scarso successo in quest’ultima tornata presidenziale e, tranne che Iurie Leancă, già primo ministro liberale, sotto la pressione del vecchio PPE tutti i partiti che guardavano con fiducia a Bruxelles si sono però fermati al 38%. È stato facile quindi ad Igor Dodon raggiungere domenica scorsa, al secondo turno elettorale, un sonante 54%, con la sfidante Maia Sandu fermatasi al 44% dei consensi.
Per quanto riguarda la Bulgaria, siccome è membro della Nato oltre che dell’Unione europea, la vittoria alle presidenziali di un esponente esplicitamente filo-russo come Dodon ha assunto un significato ancora più rilevante. Il Paese, infatti, aveva guardato nel 2007 all’adesione all’Ue nella prospettiva della modernizzazione e del rinnovamento politico, ma alla fine «la resistenza alle riforme ha prevalso; già nel 2013 vi furono proteste anti-establishment seguite da elezioni e da un quadro di governo relativamente instabile. Il governo ha dovuto confrontarsi nell’ultimo anno anche con la pressione (destabilizzante) dei migranti, e con la scelta di realizzare una barriera fisica ai propri confini» (E. Martial, art. cit.). Il candidato socialista Rumen Radev, che si è presentato come una figura nuova nel panorama politico, ha ottenuto un plebiscitario 59,4% dei voti, contro il 36,2 di Tsetska Tsacheva, candidata del partito di centro-destra GERB.
Nei due Paesi dell’“altra Europa”, il ritorno all’amicizia con la Russia corrisponde evidentemente alla rinuncia all’Unione europea e ad ulteriori prospettive d’integrazione in chiave filo-occidentale. Tanto in Bulgaria quanto in Moldavia, circola da tempo l’immagine di un establishment pro-europeista composto da burocrati o ricchi oligarchi per lo più corrotti, che tengono in condizioni di povertà la popolazione e ostacolano il cambiamento. In Bulgaria, in particolare, il vincitore delle presidenziali si è affermato come un outsider in chiave anti-establishment, mostrando come modello di stabilità e relativo benessere la Russia di Putin. Il “blocco” centro-est europeo, già formalizzato “in nuce” nel Gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Cekia e Slovacchia), si è rafforzato negli ultimi anni per tante manchevolezze della Commissione di Bruxelles che, per esempio, non ha sostenuto la Moldavia dal punto di vista economico e sociale nei recenti momenti più difficili, con prestiti, aiuti alle famiglie e al sistema sanitario che sono arrivati al piccolo Paese dal Governo rumeno.
Nella Repubblica Ceca, dove il presidente, Miloš Zeman, ha invertito la tendenza a restare distante dalla Russia, si tornerà alle urne nell’ottobre del 2017 per rinnovare la Camera dei deputati. E proprio negli ultimi giorni il primo ministro ceco Bohuslav Sobotka si è dichiarato contrario alla possibilità di dislocare nel Paese un radar degli Stati Uniti, nell’ambito dello sviluppo del progetto di scudo antimissile, perché «significherebbe un ulteriore aggravamento delle relazioni con Mosca».
In Slovacchia le elezioni parlamentari, che si sono svolte nello scorso marzo, hanno portato a una situazione frastagliata, con un unico comune denominatore una tendenza “bipartisan” di forte taglio anti-europeista. A tutto ciò si aggiunga che, secondo un’analisi del Centro internazionale per gli studi strategici (Cis) di Washington, da quando nel 2004 i Paesi dell’Europa centrale e orientale hanno aderito alla Nato e all’Unione europea, «la regione ha subito un costante declino mentre, allo stesso tempo, la Russia ha ampliato in modo significativo il suo impegno economico» (L’est europeo guarda verso Mosca, in “L’Osservatore Romano”, 16 novembre 2016, p. 2).
Della battaglia personale, diremmo più difensiva che “offensiva”, del premier ungherese Viktor Orbán contro l’Ue abbiamo parlato più volte su questo giornale. Da ultimo abbiamo riportato le accuse del leader liberal-conservatore in occasione della commemorazione del 60° anniversario della rivolta anti-comunista del 1956, alla Commissione europea ormai «trasformata in un impero di stile sovietico che tenta di darci ordini e di dirci con chi convivere nel nostro paese» (cit. in G. Brienza, Quell’Unione europea che può sembrare tanto una #EUrss. Arruolato Sant’Agostino nella critica di Viktor Orbán alle politiche dell’Europa delle banche, in “La Croce quotidiano”, 27 ottobre 2016, p. 3). L’Ungheria di Orbán, definito unanimemente dagli analisti politici «filo-russo e grande estimatore di Putin», appare in effetti sempre più vicina alle posizioni di Mosca, con la quale ha anche recentemente firmato un accordo per potenziare la centrale nucleare di Paks (l’unico impianto del Paese).
Insomma quello che si è verificato domenica scorsa nella “frontiera orientale” dell’Europa è un primo “terremoto politico”, poco rilevato dai nostri osservatori nazionali, al quale potranno seguirne di altri a breve. Le due “vittorie a distanza” per il Cremlino contro il “fronte occidentale” che ha appena cambiato leadership di fatto (dai Democratici alla right-wing dei Repubblicani Usa), rischiano di tradursi in «scosse pesanti per Ue e Nato e per l’Occidente intero. Per la prima volta dalla caduta dell’Impero sovietico nel 1989 il mondo libero, che ora ha in Donald Trump il suo dubbio futuro leader, affronta la vittoria di leader russofili nei suoi ranghi» (Andrea Tarquini, Bulgaria e Moldavia, schiaffo all’Occidente: vincono i candidati filorussi, in “Repubblica.it”, 13 novembre 2016).
«Con la mia vittoria la democrazia ha vinto contro apatia e paura e nonostante le minacce di caos evocate dal governo, la mia vittoria è l’inizio della missione più importante della mia vita, lavorare per una Bulgaria stabile e prospera», ha dichiarato a caldo l’ex generale Radev acclamato dai suoi sostenitori in trionfo. Le “minacce di caos”, anche se non esplicitamente, sono quelle arrivate anche nelle elezioni bulgare dai filo-europeisti, così come sono arrivate alla vigilia del referendum “Brexit” e di tutti gli altri appuntamenti nei quali, di recente, la strategia dell’Ue verso il “Super-Stato” ha rischiato (e poi effettivamente avuto) non irrilevanti incrinature.