Il medico olandese Eduard Verhagen spiega che, da un punto di vista medico, è meglio scegliere di eliminare il bambino disabile dopo la nascita, piuttosto che durante la gravidanza.
Giulio Meotti
Dieci anni fa il professor Eduard Verhagen aveva invaso le prime pagine delle principali testate internazionali con l’ammissione che la sua équipe neonatale all’Università di Groningen, in Olanda, aveva praticato l’eutanasia su ventidue neonati affetti da spina bifida tra il 1997 e il 2004. Un anno dopo, attraverso il saggio “Euthanasia in severely ill newborns” pubblicato dal New England Journal of Medicine, il pediatra annunciò il Protocollo di Groningen, il documento medico più esplosivo e controverso degli ultimi dieci anni. Sono le prime linee guida mondiali per la “morte bambina”.
Adesso il medico olandese spiega che, da un punto di vista medico, è meglio scegliere di eliminare il bambino disabile dopo la nascita, piuttosto che durante la gravidanza.Nel nuovo saggio dal titolo “The Groningen Protocol for newborn euthanasia; which way did the slippery slope tilt?”, pubblicato nel nuovo numero del Journal of Medical Ethics, la prestigiosa rivista della stessa editrice del British Medical Journal, Verhagen spiega che in Olanda l’eutanasia sui bambini è legale “se le loro prospettive di vita sono fosche”.
Il pediatra ammette dunque che non è necessario che il bambino sia in stato terminale per ottenere l’eutanasia, è sufficiente essere disabili. Verhagen non dissimula: “If abortion, at the parents’ request, is thought to be permissible under certain circumstances, then infanticide should also be permissible”. Il medico usa la parola tabù: infanticidio, che può essere intercambiato con “neonaticidio” e “aborto post nascita”.
Verhagen sciorina così i dati dell’eutanasia dei bambini in Olanda: “Due sondaggi nazionali hanno mostrato che la maggioranza (65 per cento) dei neonati deceduti sotto i dodici mesi sono morti a causa dell’interruzione delle terapie salva vita”. Il quaranta per cento dei casi, continua Verhagen, riguarda “quality of life reasons”, dunque non bambini affetti da malattie terminali ma da una qualche disabilità.
Poi arriva alla sua nuova tesi: “L’eutanasia neonatale è preferibile all’aborto nel secondo trimestre” (di gravidanza). “Il livello di conoscenza disponibile è superiore dopo la nascita, dopo la quale il team medico e i genitori avranno molto più tempo”. Per cosa? Per una diagnosi eutanasica. “Perché l’eutanasia non dovrebbe essere permessa come alternativa all’aborto? Che differenza morale c’è?”.
E’ lecito uccidere un neonato handicappato. La celebre rivista di bioetica, diretta da Julian Savulescu, che è anche responsabile del Center for Pratical Ethics dell’Università di Oxford, dedica una intera monografia alla liceità dell’infanticidio. Jeff McMahan ad esempio non sostiene soltanto che “l’infanticidio è giustificabile” in caso di “disabilità mentali” del bambino. L’accademico afferma, senza tanti giri di parole, che “i feti e i neonati non hanno un pieno status morale, ma piuttosto lo stesso degli scimpanzé”. E ancora: “Un normale scimpanzé adulto ha una capacità superiore di qualunque feto umano”.
Due ricercatori italiani, Alberto Giubilini e Francesca Minerva, tornano sulle tesi espresse un anno fa sulla rivista e che fecero tanto scalpore. “Se pensiamo che l’aborto è moralmente permesso perché i feti non hanno ancora le caratteristiche che conferiscono il diritto alla vita, visto che anche i neonati mancano delle stesse caratteristiche, dovrebbe essere permesso anche l’aborto post nascita”.
Ovvero: al pari del feto, anche il bambino già natonon ha lo status di “persona”, pertanto l’uccisione di un neonato dovrebbe essere lecita in tutti i casi in cui è permesso l’aborto. Nel nuovo numero della rivista, i due studiosi italiani ripetono che “le stesse circostanze per cui si può terminare la vita dei feti senza disabilità giustificano di mettere fine alla vita dei nuovi nati senza disabilità”. In breve, ragioni economiche e psicologiche.
Secondo Alberto Giubilini (Monash University di Melbourne, già ricercatore all’Università di Milano) e Francesca Minerva (Università di Melbourne), gli infanti sono “non persone”: “Poiché sia i feti che i nuovi nati mancano dello status morale delle persone, la stessa considerazione sulla ‘qualità della vita’ deve essere presa in considerazione quando parliamo dei bambini appena nati”. Sia il feto sia il neonato sono privi di quelle caratteristiche che giustificano il diritto alla vita.
Chiude la monografia il saggio “Discussing Infanticide”, in cui Peter Singer, il padre di questa bioetica utilitarista, icona evoluzionista, animalista ed ecologista, legittima l’eutanasia dei neonati disabili: “Il mero fatto di esistere come essere umano vivo e innocente non è sufficiente per avere un diritto alla vita”. Uno scandalo tale, quello contenuto nelle sue tesi, e non da oggi, che il compianto cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal si rifiutò d’incontrare Singer perché, disse, “è inaccettabile un professore di morale che giustifica l’uccisione di nuovi nati handicappati”. In passato, il Wall Street Journal invece si scagliò contro l’Università di Princeton che aveva ingaggiato Singer, accusandola “di avere tradito il principio della dignità dell’uomo che ha distinto la civiltà occidentale per due millenni”.