[Didaché IV, 2; CN ed., Roma 1978, pag. 32].
Suo padre, Domizio, era uno schiavo di Trastevere. Così, anch’egli, nato in quel quartiere verso la metà del II secolo, venne al mondo già in condizione giuridicamente servile. Domizio e Callisto erano cristiani, e cristiano era quel possidente Carpoforo che prese a ben volere il Nostro quando fu un giovanotto. Gli affidò l’intera amministrazione dei suoi beni, ma qualcosa dovette andare storto: Callisto, condannato per danni, si ritrovò costretto a far girare una macina di mulino fino a totale compensazione del debito.
Scontata questa pena, ancora Callisto si ritrovò a dover fare i conti con la giustizia romana quando la comunità ebraica lo trascinò in giudizio ottenendo per lui una nuova e ben più dura condanna: la flagellazione e poi la deportazione nelle miniere della Sardegna. Poté rientrare in patria solo dietro pagamento di una forte ammenda, cui provvide l’autotassazione dei cristiani di Roma.
Pare, anche, che costoro avessero provocato in favore dello sfortunato Callisto l’intervento di Marcia, l’amante dell’imperatore Commodo. Il santo, già molto in vista nella comunità cristiana, divenne assiduo collaboratore dei papi Vittore e Zefirino. Alla morte di quest’ultimo, nel 217, fu eletto a sua volta. Purtroppo la sua elezione provocò lo scisma del prete Ippolito, che lo accusava di eccessiva mitezza.
Callisto dovette far fronte anche all’eresia dei cosiddetti sabelliani. Morì ucciso nel corso di un tumulto popolare anticristiano. Le catacombe a lui intitolate sono forse le più celebri. Constano di oltre venti chilometri di corridoi su quattro piani. Lui, però, è sepolto altrove.