L’Occidentale 5 Giugno 2017
di Renato Tamburrini
Da due secoli le categorie destra e sinistra sono la chiave di lettura più importante della politica e, benché la linea di divisione in 200 anni non sia rimasta sempre immobile, nel complesso ancora godono di buona salute nella mentalità, nella sociologia e quindi nella scienza politica. Ogni tanto ne viene annunciato il superamento, sull’onda di fatti che magari dovrebbero essere guardati in modo più approfondito.
La vittoria di Macron nelle presidenziali francesi, ad esempio, è stata letta da più parti con questo schema; e però non si è tenuto conto a sufficienza di alcuni elementi non proprio secondari. E’ verissimo che il profilo di Macron non è riconducibile alle destre e alle sinistre classiche tradizionalmente presenti nel panorama politico francese: questa voluta – potremmo dire anche costruita – indeterminazione gli ha giovato enormemente, nel momento in cui da un lato una serie di eventi sfavorevoli ha colpito la candidatura Fillon, e dall’altro la candidatura Le Pen, nonostante la forte crescita di consenso, al secondo turno non è riuscita a sfondare nel serbatoio della destra gollista.
Semplificando, più che a un reale superamento “ideologico” della divisione destra/sinistra, la sua vittoria è dovuta in primo luogo all’irriducibilità delle due destre francesi, separate traumaticamente non solo dalle scelte compiute durante la Resistenza, ma ancora di più dalla vicenda dell’Algeria e dai postumi della lotta dell’OAS e del revanchismo pied noir contro il generale De Gaulle.
A questo dato storico-ideologico si sono sicuramente aggiunti altri elementi fattuali, come la diffidenza del ceto medio moderato verso la radicalizzazione no-euro oppure la relativa freddezza della Le Pen – e soprattutto del suo vice Philippot – verso i temi cari ai cattolici conservatori: non si dimentichi che il nerbo della organizzazione di Fillon, quella che lo aveva spinto fortemente nelle primarie, era costituito da militanti vicini alla Manif pour tous.
C’è poi un secondo e importante elemento di natura squisitamente ideologica e politica che è andato a vantaggio di Macron: il fatto che in Francia una profondissima linea di faglia ancora divide la destra dalla sinistra: nonostante che la cultura politica francese sia forse quella storicamente più incline al mescolamento, nonostante una lunga vicenda di intrecci e suggestioni anche forti (basta ricordare la linea che unisce Boulanger e Barrès, fino a Drieu La Rochelle e al “fascismo immenso e rosso” di Brasillach), la persistenza della linea divisoria nella mentalità e nella sociologia di fatto ha ostacolato la ricongiunzione di antieuropeismo e antiglobalismo di destra e di sinistra, che in termini numerici sarebbe stata assai probabilmente maggioritaria.
Se dalla Francia, in cui il terreno della contaminazione pure è notoriamente fecondo, ci spostiamo verso altri paesi, che non hanno conosciuto il nazionalismo giacobino e il suo afflato quasi fisico verso la Patrie, la linea di demarcazione appare ancora più chiara. Infatti i paesi che hanno ereditato la “libertà degli inglesi” sono caratterizzati da una divisione destra/sinistra ancora più radicata: la linea non è certo immobile, ma è sempre riconoscibile.
Così capita in Gran Bretagna – dove la lotta politica tra conservatori e laburisti è sempre centrale e solo occasionalmente dà spazio a “terze vie”, come si vede anche oggi nella competizione tra May e Corbyn; negli Stati Uniti all’interno del Partito Repubblicano, nonostante le peculiarità del fenomeno Trump, la destra della right nation è stata sempre presente in varie gradazioni, fino a diventare emblematica con Goldwater e poi maggioritaria ed egemone da Reagan in poi. Ma la chiarezza della linea è ben visibile soprattutto nei paesi “minori” dell’Anglosfera, le cui vicende politiche al dettaglio abitualmente non attirano l’attenzione dei nostri media: Australia, Nuova Zelanda, Canada.
Non so se altri osservatori, oltre a Marco Faraci su Strade, hanno notato che pochi giorni fa, il 27 maggio, al termine di un lungo processo di “primarie” ad eliminazione, dopo 13 ballottaggi, Andrew Scheer, 38 anni, è stato incoronato leader del Partito Conservatore. Gli aspiranti erano tanti, con profili più o meno liberisti, più o meno aperti sul tema dei nuovi diritti, ma alla fine di un percorso durato quasi un anno ha prevalso la linea di Scheer, conservatore sui temi etici e sociali e liberale in economia, sconfiggendo l’ultraliberista Bernier, piuttosto libertario sui temi etici, mentre la candidata più “trumpiana”, Kellie Leitch, è rimasta molto al di sotto delle aspettative.
Nell’accettare la nomina Scheer ha ribadito che il partito conservatore sarà sempre il “partito della prosperità e non dell’invidia”, il “partito dei contribuenti e non degli insider” e ha ribadito come fondamento dell’azione politica il concetto che la società viene prima dello Stato; ha promesso di intervenire sulle le università che impediscono il dibattito e di operare contro la censura del “politicamente corretto”.
Come conclusione mi pare di non poterne fare una migliore di quella di Marco Faraci: “Contrariamente a chi ritiene che ormai la politica ruoti attorno ad altre polarità e che quindi serva farsi bastare anche dei Trudeau, dei Macron e, ça va sans dire, dei Renzi, i risultati economici ottenuti negli ultimi anni dai paesi anglofoni dimostrano che l’unica ricetta politica in grado di produrre crescita di lungo periodo e non solamente di gestire il declino è quella della “destra liberista” classica. Altro che “third way” o “liberalsocialismo”. Back to the basics: qui servono dei Reagan e delle Thatcher e in certi paesi, per fortuna, ancora se ne trovano”.